Il Fatto 21.3.18
I Servizi e il satellite militare per inseguire Ong e scafisti
Intelligence e Difesa impegnati anche oltreconfine: “Così sappiamo che si parlano”
di Antonio Massari
L’inchiesta
della Procura di Catania, che ha portato al sequestro della nave Oper
Arms della Ong spagnola Proactiva e conta tre indagati, con l’accusa di
associazione per delinquere finalizzata al favoreggiamento
dell’immigrazione clandestina, è solo un tassello d’un mosaico molto più
complesso. C’è un ruolo delle nostre agenzie di sicurezza nelle altre
inchieste delle Procure italiane sulle Ong: il Fatto è in grado di
rivelare che attività d’intelligence e di polizia giudiziaria procedono
congiuntamente da mesi. È grazie a un satellite nella disponibilità del
ministero della Difesa – e delle nostre agenzie – che i poliziotti del
Servizio centrale operativo e gli investigatori della Guardia di
Finanza, stanno raccogliendo informazioni essenziali. Elementi che
portano le Procure a ipotizzare contatti tra scafisti e Ong impegnate
nei salvataggi. Semplificando, è come se il satellite fosse stato dato
in “subappalto” ad ufficiali di polizia giudiziaria, per realizzare quel
che non possono fare di persona: intercettare e filmare in territorio
libico. Oppure, se vogliamo metterla diversamente, grazie alla
tecnologia dei nostri Servizi, la polizia giudiziaria è in grado di
ottenere informazioni che poi, attraverso indagini sul territorio
italiano, fa confluire nei fascicoli d’inchiesta. Nei fatti, stiamo
svolgendo un’attività d’indagine in un Paese straniero, con tutti i
relativi dubbi sotto il profilo diplomatico e giuridico. Utilizzabile o
meno, però, c’è una verità che, per quanto scomoda, ha trovato conferma
proprio grazie a questi mezzi investigativi.
Filmati e
intercettazioni dei telefoni satellitari, per quanto risulta al Fatto,
hanno convinto gli inquirenti che tra Ong e scafisti si siano realizzati
nel tempo contatti che realizzavano, nei fatti, un duplice effetto. Per
le Ong – che erano in condizioni di conoscere in tempo reale la
partenza dei barconi – s’è concretizzata la possibilità di effettuare
salvataggi con il minimo rischio per i migranti. Per i trafficanti,
invece, ha preso corpo la possibilità di vendere ai migranti una sorta
di viaggio in sicurezza, con incremento dei guadagni e riduzione delle
spese, poiché hanno smesso di investire su natanti e gasolio.
In
più di un’occasione, infatti, i filmati satellitari avrebbero
riscontrato che, agli assembramenti dei migranti sulla costa, pronti a
imbarcarsi, corrispondevano precisi movimenti delle navi di alcune Ong.
Un movimento sincronico che consentiva ai volontari di essere nel posto
giusto al momento giusto. Un dato che – per quanto difficile sia
documentare in un processo – ha convinto gli inquirenti della
collaborazione – ai soli fini umanitari, per le Ong – tra volontari e
scafisti.
In soccorso ai nostri investigatori è giunta una
sofisticata tecnologia israeliana. Anch’essa in uso ai nostri Servizi
segreti, consente di ricostruire, con un buon margine di
approssimazione, gli spostamenti dei natanti anche quando spengono i
loro trasponder. Dopo l’analisi effettuata, negli spostamenti in
questione sono emerse altre coincidenze sospette che rafforzano
l’ipotesi dei contatti tra scafisti e volontari. Nessuno ha però messo
in discussione che l’intento delle Ong sia esclusivamente umanitario.
Altrettanto sicuro, tuttavia, secondo gli inquirenti, è che questi
contatti abbiano in qualche modo agevolato il business dei trafficanti.
Se possa poi configurarsi, come sostiene per esempio la Procura di
Catania, il reato di associazione per delinquere finalizzato al
favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, è tutto da dimostrare.
Di
certo, però, c’è anche un altro dato: l’investimento del nostro Stato e
dei nostri servizi segreti in Libia è sempre più intenso. Fonti
qualificate confermano al Fatto quel che i Servizi smentiscono da tempo:
i maggiori trafficanti libici sono pagati per interrompere gli sbarchi.
L’Italia sta ufficialmente provvedendo a implementare le capacità
libiche nelle operazioni di soccorso in mare. Non solo con le navi che
il governo ha donato al leader libico Fayez al Serraj. L’obiettivo:
dotare le guardie costiere libiche – sono ben due, una del ministero
della Difesa, l’altra degli Interni – di una sala operativa adeguata. Al
momento, l’unica sala operativa in funzione è dotata d’un solo telefono
satellitare, un paio di radio, un fax e qualche computer. Mancano radar
– le acque vengono monitorate attraverso il sito online Marine Traffic –
e controlli aerei. La Libia chiede ulteriori investimenti per bloccare
il flusso di migranti dal Niger. E minaccia di far ripartire gli sbarchi
se l’Italia non s’impegna ad alleggerire il tappo che sta creando in
questi mesi. Un tappo che, come dimostra il report firmato dal
presidente Onu, Antonio Gutierres, sta moltiplicando le violazioni dei
diritti umani nei confronti dei migranti.