Il Fatto 19.3.18
Al-Sisi sfida se stesso senza democrazia
Il
28 marzo c’è un unico candidato fantoccio contro il generale che ha
eliminato i rivali politici, chiuso i media e fatto arrestare i
giornalisti prima del voto
di Leonardo Coen
Il
Cairo. Mercoledì 31 gennaio. È in corso la cerimonia di avvio della
produzione di Zohr, il più grande giacimento di gas del Mediterraneo, a
1.500 metri di profondità. Vale qualcosa come 850 miliardi di metri
cubi. L’Egitto, afferma con orgoglio il ra’is al Sisi, potrà affrancarsi
dalla dipendenza energetica: “E diventare da importatore ad esportatore
di gas naturale”. Zohr l’ha scoperto l’Eni. E infatti, in prima fila,
tra le autorità di governo, siede Claudio Descalzi, l’ad della compagnia
italiana che ha ottenuto la concessione del 60% di questo maxi
giacimento. Una buona notizia per al-Sisi (e per gli italiani). A
corroborare l’ottimismo del presidente egiziano, c’è il Pil in risalita.
Ci sono indicatori macroeconomici che contraddicono le allarmanti
notizie su aumenti dei prezzi, tagli alla spesa pubblica, corruzione
dilagante. Propaganda? I dati del ministero del Commercio e
dell’Industria prevedono una crescita del 5,3/5,5%. Le riserve in valuta
straniera hanno toccato i 38,2 miliardi di dollari, superando quelle
pre-rivoluzionarie del 2010 (36 miliardi). Pure l’inflazione, a quota
35% la scorsa estate, dovrebbe calare di 13 punti. Persino il turismo si
rianima, dopo la lunga stagione degli attentati e della paura: nei
primi dieci mesi del 2017 sono arrivati 7 milioni di visitatori (ma un
tempo erano quasi il doppio).
Il Putin del Nilo sfrutta questa
vetrina, alla vigilia del voto che il 26 marzo lo riconfermerà
presidente. Con il collega del Cremlino ha molto in comune. Per esempio,
essere a capo di un sistema che non tollera alcun dissenso. Ed
orchestrare elezioni senza avversari. Quelli che volevano candidarsi
sono stati asfaltati. O sbattuti in galera. Specie i rivali militari.
Ahmed Shafiq, generale dell’Aviazione e premier per 39 giorni
nell’immediato post Mubarak (sfidò Mohamed Morsi e perse per 2 punti)
non temeva la sfida: “Niente e nessuno mi fermerà”. Poi dopo un
misterioso prelevamento dalla sua abitazione di Abu Dhabi, dove
prudentemente viveva, cambia idea. Si ritira il 7 gennaio. A Sami Hafer
Anan, ex capo di stato maggiore, va peggio. Lo prelevano dall’auto il 23
gennaio, tre giorni dopo aver annunciato la candidatura “per salvare
dal declino il Paese”. Vuole correggere le “cattive politiche” condotte
dopo la deposizione di Mohammed Morsi nel luglio del 2013. Invita le
istituzioni a rifiutarsi di agire in nome di un presidente che fra
qualche mese potrebbe non sedere più su quella sedia”. È un candidato
pericoloso: può aggregare i nostalgici dell’era Mubarak, le opposizioni.
Non avrebbe comunque vinto, ma avrebbe ridimensionato al-Sisi.
Risultato: manette ed accusa di sedizione. Cinque giorni prima, il 18
gennaio, era stato arrestato Khaled Fawzy, capo dell’intelligence
responsabile degli affari di politica interna ed estera, vicino ad Anan.
Regolamento di conti con l’intelligence militare, dalla quale proviene
al-Sisi.
Non sono gli unici. Il colonnello Ahmed Konsowa rimedia
sei anni di carcere militare. Mohamed Anwar Sadat, nipote del presidente
ucciso nel 1981, ha eccellenti relazioni con i servizi segreti, ma sono
quelli sbagliati.
L’avvocato Khaled Ali, uno degli eroi di piazza
Tahrir, capisce l’antifona: “Lascio il teatrino elettorale”, annuncia
il 24 gennaio. Ha subìto fermi, pedinamenti, minacce. Il 2 febbraio,
inizio ufficiale della campagna elettorale, lancia il boicottaggio delle
urne. Come l’oppositore russo Aleksej Navalnj. Gli arresti, analizzano
gli esperti, dimostrano la mancanza di fiducia del presidente uscente.
Rivelano che al-Sisi non è un uomo politico, non è cioè a suo agio con
la politica e non sa condurre un’adeguata campagna elettorale. Il regime
teme gli effetti “palla di neve”. Minare l’apparente unità in seno
all’istituzione militare.
In questo Egitto senza regole, ma con
tantissime piaghe, 14 ong – egiziane e internazionali – osano rivolgere
un appello all’Unione Europea e agli Usa per denunciare le “elezioni
farsesche”. Bruxelles e Washington fanno orecchie da mercante. In fondo,
un rivale al-Sisi l’ha rimediato. In extremis: 15 minuti prima che
l’ufficio elettorale chiuda, il 29 gennaio. È il last candidate Musa
Mustafa Musa, poco noto membro di un partito filo governativo.
I
documenti sono in regola con i requisiti di legge (modificata da
al-Sisi): investitura di 25mila elettori da almeno 15 governatorati
diversi, con un minimo di 1.000 sostenitori ciascuno. Musa di firme ne
ha 40mila. Si era candidato 10 giorni prima. Chi l’ha aiutato? In Russia
si ironizza sulla bella Xsenija Sobchak, innocua rivale di Putin. Musa
legittima la finta sfida presidenziale egiziana. Quando si dice affinità
elettive. Non è l’unica analogia. Al-Sisi ha guidato l’intelligence
militare egiziana. Putin, ex tenente colonnello del Kgb, è stato
direttore dell’Fsb, i servizi segreti russi. Per non parlare del metodo
anti-opposizione. Nel mirino di entrambi i regimi, ci sono leader
politici, giornalisti, associazioni per la difesa dei diritti,
attivisti. Nell’Egitto feroce di al-Sisi è vietato protestare contro gli
abusi delle forze di sicurezza, o chi manifesta atteggiamenti
“anti-presidenziali”. La libertà d’informazione è stata imbavagliata da
una legge del 2016 che assegna ad un Consiglio Supremo la prerogativa di
revocare licenze, censurare tv, radio, licenziare, multare, arrestare
giornalisti e blogger. Non è un Paese per i Navalnij delle Piramidi.
Quanto
alle promesse, nel suo piccolo al-Sisi imita Putin e ogni tanto le
spara grosse. Quattro anni fa, il ra’is rassicurò gli egiziani: con lui
presidente l’Egitto avrebbe goduto di sicurezza e prosperità entro due
anni. Fu un plebiscito: prese il 96,91%, una percentuale bulgara.
Meglio: cecena. Come quelle che Ramzan Kadyrov garantisce al mentore
Vladimir. L’economia si rivelò invece il tallone d’Achille di al-Sisi.
La primavera rivoluzionaria si trasformò in inverno. Il piano delle
riforme, che liquidava lo Stato-protettore nasseriano, aumentò il
malcontento. Come pure i miliardari sogni della spettacolare
modernizzazione lanciata nel 2015, mentre i prezzi degli alimenti,
salivano, come il costo della vita. Ancora a metà del 2017, la crisi
mordeva.
Tutto questo al-Sisi non lo vuole raccontare agli ospiti
della cerimonia per il maxi giacimento Zohr. Ha garantito che resterà al
potere. Ha accettato l’agenda economica imposta dagli occidentali. Il
Maresciallo-presidente, l’ufficiale che si addestrò in Gran Bretagna e
Stati Uniti (mica in Russia, come usavano gli ufficiali di Nasser e
Sadat), nato il 19 novembre 1953 sotto il segno dello Scorpione (simbolo
del male, per gli antichi egizi) in un vecchio quartiere ebraico del
Cairo, sa che il comune interesse è la stabilità della regione, a
cominciare da quella egiziana. E la salvaguardia del business. Come
dimostra la morte di Regeni. Due anni senza verità, senza giustizia. Ma
ostacoli, reticenze, bugie, depistaggi. Ricordando il ricercatore
torturato e ucciso al Cairo, al-Sisi si rivolge a Descalzi: “Non
abbandoneremo questo caso fino a quando non si troveranno i veri
criminali. Sa perché volevano danneggiare le relazioni tra Egitto ed
Italia? Perché non arrivassimo qui”. Non è vero. L’interscambio con
l’Egitto vale 10 miliardi di dollari, le aziende italiane hanno
continuato il loro lavoro in Egitto. Come l’Eni. Per rassicurare gli
ospiti stranieri, il presidente che vuole un bis-plebiscito aggiunge:
“Quello che successe 7 anni fa in Egitto non si ripeterà con me. Non è
servito nulla allora, non servirebbe nulla adesso. Forse, non avete
ancora capito chi sono”. No, lo sappiamo invece: è la nostra coscienza
sporca.