Il Fatto 17.3.18
“Il primo covo: così fu nascosto Moro tra Ior, Servizi e Usa”
Sergio Flamigni - Dopo il sequestro fu portato in via Massimi, in un palazzo “frequentatissimo”
Pubblichiamo ampi stralci dell’intervista che Sergio Flamigni ha rilasciato a Vindice Lecis per “Fuoripagina”
La
verità avanza troppo lentamente nelle nebbie delle complicità e delle
connivenze internazionali che hanno impedito che si facesse piena luce
sul rapimento e l’assassinio di Aldo Moro. La vulgata ufficiale, la pax
tra brigatisti e lo Stato basata sul famoso memoriale Morucci benedetto
dalla Dc, è sempre meno credibile. Il protagonista instancabile della
ricerca della verità è Sergio Flamigni, classe 1925, parlamentare Pci
dal 1968 al 1987, e componente delle commissioni parlamentari
d’inchiesta sul Caso Moro, Antimafia e sulla P2. È autore di numerosi e
approfonditi saggi sul caso Moro e sull’eversione. Ecco cosa dice oggi, a
40 anni da via Fani: “La verità che conosciamo è solo parziale. C’è chi
non vuole che si conosca. Soprattutto da parte di chi ha avuto la
gestione degli apparati di sicurezza e ha sostenuto le tesi di comodo
per nascondere come si sono svolti i fatti e quali siano stati i reali
protagonisti”.
Il nodo è sempre il memoriale Morucci, base di quello che lei chiama il patto di omertà. Tra chi?
Tra
pezzi dello Stato e terroristi. Nel mio libro del 2014 ponevo una serie
di interrogativi relativi ai buchi neri del caso Moro. Ad esempio, di
quale apparato fu la regia dell’operazione del 18 aprile 1978, quella
del comunicato falso del lago della Duchessa e della ‘scoperta’ del covo
di via Gradoli?
La commissione presieduta dal senatore Fioroni però questa volta scioglie qualche nodo…
Scopre
alcuni fatti che la inducono a non dare credito alle verità di comodo
che i brigatisti e gli apparati ci hanno sempre raccontato. Ci sono
anche le verità indicibili: quelle coperte dal segreto, riguardanti
complicità dei servizi segreti diretti da uomini della P2, oppure
relative alle ingerenze straniere che ebbero parte nella vicenda Moro.
Le verità dicibili, sono le verità di comodo, del memoriale Morucci e
Faranda. Quel memoriale, sollecitato dal capo del Sisde, redatto dal
giornalista Cavedon, consegnato da suor Tersilla Barillà al presidente
Cossiga il 13 marzo 1990, venne da lui trasmesso al ministro
dell’Interno Gava tramite il prefetto Mosino solo il 26 aprile dello
stesso anno. Che a sua volta lo fece pervenire finalmente alla Procura.
Da allora quella è stata considerata la verità.
Invece di che cosa si tratta?
Di
una sequenza di falsità. Ma la Commissione Moro che ha lavorato
nell’ultima legislatura, ha accertato l’origine deviante e il contenuto
menzognero del memoriale Morucci, secondo il quale l’operazione Moro
sarebbe stata compiuta dalle sole Br. La verità è che l’affare Moro
costituisce un’operazione internazionale su cui continua il segreto di
Stato in vari Paesi. È un intrigo internazionale. Non è mai stato
individuato il tiratore che in via Fani ha sparato 49 dei 90 colpi usati
dai terroristi.
I punti oscuri sono numerosi. Ad esempio la gestione dei 55 giorni.
Molti
dovrebbero ricordare, e anche il Corriere della Sera, che sembra non
avere troppi dubbi sul memoriale di comodo, che in quei 55 giorni la P2
controllava totalmente i comitati di crisi. Piduisti erano i dirigenti
dei Servizi segreti, da Santovito a Grassini a Federico Umberto D’Amato,
dai generali Giudice e Lo Prete agli ammiragli Torrisi e Geraci, ai
prefetti Pelosi e Guccione, che rispondevano a Licio Gelli. E almeno
quella cinquantina di uomini che da loro dipendevano e facevano parte
degli organi operativi. Costoro non hanno condotto indagini per scoprire
la prigione di Moro e, anzi, hanno depistato. Che senso ha oggi
consentire ai brigatisti, sui giornali e in televisione, di esporre le
loro verità di comodo omettendo invece questioni di grande rilevanza?
Con loro prevale una verità concordata con funzionari dei Servizi,
dirigenti della Dc e uomini di governo.
Che cosa si vuole offuscare?
Principalmente
vengono messi in ombra gli aspetti internazionali del caso Moro, il
ruolo degli alleati, il ruolo svolto dall’americano Steve Pieczenik che
si è vantato di avere indotto le Br a uccidere Moro e di essere così
riuscito a stabilizzare l’Italia. Moro non era amato e, anzi, veniva
contrastato dagli Usa che non vedevano di buon occhio la sua apertura ai
comunisti.
Torniamo alle prigioni di Moro: qualcuno crede ancora a via Montalcini?
La
prigione di via Montalcini descritta dai brigatisti era un angusto vano
di tre metri di lunghezza e 90 centimetri di larghezza, dotato di un wc
chimico. Secondo la verità ufficiale, in quella prigione, Moro
immobilizzato su una brandina, avrebbe scritto le lettere e il memoriale
per rispondere all’interrogatorio dei brigatisti. Dopo l’assassinio, i
medici legali nel procedere alla svestizione prima dell’autopsia,
rinvennero della sabbia nel risvolto dei pantaloni, nei calzini e sotto
le scarpe dove vi erano anche residui di bitume, materiali dello stesso
tipo erano anche nei pneumatici e nei pianali della Renault. Durante
l’ispezione del cadavere, il professore Maraccino, coordinatore dei
periti, constatò il colore abbronzato delle parti del corpo di solito
esposte alla luce e ciò, aggiunto alla sabbia, gli fece pensare che
fosse stato al mare; la muscolatura non era atrofizzata ma solida. Non
erano le condizioni di un corpo che avesse sofferto una restrizione in
quel bugigattolo che la tv ci ha trasmesso anche in questi giorni. Già
da allora sarebbe stato utile prendere atto della bugia brigatista
sull’unica prigione.
La commissione rivela che un altro covo è stato utilizzato: quello di via Massimi, in una palazzina sospetta.
Esatto.
La commissione ha scoperto via Massimi 91 come prima prigione, dopo via
Fani. Solo questo dovrebbe far saltare il memoriale Morucci con il
florilegio di falsità, sul trasbordo di Moro in piazza Madonna del
Cenacolo e trasporto fino al nuovo trasbordo nel magazzino della Standa e
poi destinazione via Montalcini. La Commissione ha invece individuato
con certezza l’arrivo di Moro dopo l’agguato nel compiacente garage
della palazzina di via Massimi, otto minuti di auto da via Fani. Uno
stabile di proprietà dello Ior, abitato anche da alcuni cardinali e
frequentato dall’arcivescovo Marcinkus. Non solo: si accerta che nello
stabile operava la sede di un ufficio di intelligence Usa che lavorava
con la Nato. Inoltre viene rivelato che un ufficiale dell’aeronautica e
sua moglie, entrambi legati all’area di Autonomia e inquilini nella
stessa palazzina, hanno ammesso di avere dato ospitalita al br Prospero
Gallinari nell’autunno 1978.
Dopo via Massimi, dove fu portato Moro?
In
una zona del litorale romano, probabilmente a Palo Laziale. Il 21 marzo
venne segnalata al Sismi la presenza di Moro in quella zona. Cossiga
allertò gli incursori della Marina militare, ma alle 13 li smobilitò e
di questo non fornì spiegazioni plausibili. Quella zona è adiacente al
lido di Palidoro, proprio quel tratto di spiaggia che il professore
Lombardi, nelle conclusioni della sua perizia, dà per certo essere il
luogo di provenienza della sabbia e altri materiali rinvenuti su alcuni
indumenti e sotto le scarpe di Moro e nella Renault. Preciso: Lido di
Palidoro e non Lido di Ostia dove la Faranda e la Balzarani dicono di
essere andate a prendere la sabbia e l’acqua di mare per inscenare
un’azione di depistaggio. Ma vorrei concludere ancora sulla prigione di
via Massimi…
La considera una scoperta importante?
Sì,
perché conferma quanto il caso Moro avesse attori e dimensione
internazionali. Solo ora scopriamo che due appartamenti di un intero
piano erano occupati da monsignor Vagnozzi, il cardinale già nunzio
apostolico negli Usa. Secondo un testimone, Moro avrebbe fatto visita a
Vagnozzi in momenti politici delicati. Lo stabile era poi frequentato
dallo stesso Marcinkus. E di costui, il brigatista Morucci era in
possesso del suo recapito telefonico rinvenuto tra le carte
sequestrategli in viale Giulio Cesare.
La sua tesi, e quella di
altri autorevoli studiosi, è che con l’omicidio Moro si sia voluto
bloccare il dialogo tra la Dc e il Pci di Enrico Berlinguer.
Sì,
questo è stato lo scopo dell’operazione. Moro era stato avvertito già
nel settembre 1974 durante il suo viaggio negli Usa. L’avvertimento era
stato minaccioso al punto che ebbe un malore nella Chiesa di San Patrick
e decise di disdire alcuni appuntamenti e anticipò il suo rientro in
Italia. Nel dicembre prese la guida di un governo Moro-La Malfa che con
l’apporto anche del Pci realizzò importanti riforme e giunse alle
elezioni politiche del 1976 il cui risultato portò a due vincitori: la
Dc che manteneva la maggioranza relativa e il Pci che ebbe la più grande
avanzata e senza il suo concorso non era possibile governare il Paese.
Tra Moro e Berlinguer si inaugurò la fase della solidarietà nazionale,
che incontrava sospetti e ostilità di Usa e altri alleati. Nel gennaio
1978, quando Moro e Berlinguer si accordarono per un governo Dc
sostenuto da una nuova maggioranza programmatica in cui entrava a fare
parte anche il Pci, si misero all’erta le forze già pronte a
strumentalizzare il terrorismo delle Br già infiltrate e da incanalare
per l’operazione Moro, che doveva realizzare il sequestro per dividere
le forze della politica di unità nazionale e uccidere Moro.