sabato 17 marzo 2018

Corriere 17.3.18
Il ricordo
La mattina in aula senza Moro
di Maurizio Caprara


«Onorevole Romualdi!». Pochi secondi e poi: «Onorevole Romualdi!». Altri secondi e ancora: «Onorevole Romualdi!».
Il presidente della Camera Pietro Ingrao, comunista paziente la cui calma era sotto pressione, scuotendo la sua campanella pronunciò nove volte ad alta voce il nome del deputato missino che più disturbava la seduta. In due casi si trattò di formali richiami «all’ordine». Ma Pino Romualdi, un artefice delle prime attività clandestine fasciste successive alla Liberazione e un fondatore del Movimento sociale, non sentiva ragioni. Il democristiano Giulio Andreotti, presidente del Consiglio uscente e rientrante in seguito a una crisi durata 54 giorni, stava sforzandosi di esporre in Aula il programma del primo governo appoggiato anche dal Partito comunista dopo il 1947. Cercava di spiegare, Andreotti, come avrebbe voluto ridurre il deficit del «settore pubblico allargato» e Romualdi aveva cominciato a interromperlo gridando: «Ma non ci sono cose più importanti?».
Ce n’erano di cose importanti da affrontare, quella mattina, il 16 marzo di 40 anni fa. Appena passate le nove le Brigate rosse avevano rapito Aldo Moro e colpito a morte i cinque uomini della sua scorta. Alle dieci la seduta della Camera dei deputati, alla quale il presidente della Dc sequestrato avrebbe dovuto partecipare, era stata aperta e sospesa in un minuto. A dominare erano le incertezze, si resisteva a credere che le notizie in circolazione fossero vere. Ingrao non addusse motivazioni: «Su richiesta del presidente del Consiglio la seduta è rinviata a ora da destinarsi. Convoco tra mezz’ora la conferenza dei capigruppo. Prego i colleghi di tenersi in contatto con i presidenti dei loro gruppi».
Esistono momenti nei quali la macchina dello Stato sembra bloccata, quasi tutti si domandano che cosa sia successo e che cosa accadrà. Fu così, come dopo un terremoto o un’altra calamità. La seduta riprese alle 12.40. È il ripetersi di «Onorevole Romualdi!» il dettaglio che se ci ripenso mi suona ancora nelle orecchie di quella mattina, mentre assistevo da una delle tribune che sovrastano l’emiciclo di Montecitorio. Per un ragazzo di quasi 17 anni purtroppo non era insolito ascoltare al telegiornale che un agente di polizia o un magistrato erano stati ammazzati. Ma Moro? Davvero è stato rapito Moro? Se lo domandavano in tanti alle dieci e le notizie da via Fani arrivavano spezzettate.
Intorno all’una, in Aula Andreotti dava per indubbio «un preciso movente politico» del massacro avvenuto. Però definiva ancora «da controllarsi» l’autenticità dei messaggi con i quali «le cosiddette “Brigate rosse” rivendicano la paternità del misfatto». Lo diceva a un’assemblea tesissima, attonita, alla quale descriveva lo stato dell’Italia così: «Anche prima di stamane, eravamo consapevoli dell’attuale stato di eccezionalità, per l’attivismo di spietati terroristi, per il numero dei disoccupati, per il caotico disordine in molte scuole, per la depressione nel Sud, specie nelle maggiori città, per la fragilità del nostro sistema economico-finanziario, gravato, tra l’altro, da un massiccio indebitamento con l’estero». Presto, le interruzioni dei missini.
Ingrao: «Onorevole Romualdi, la invito a tacere!». Sandro Pertini, ex comandante partigiano: «Pensate a Giacomo Matteotti!». Romualdi insisteva. Ingrao: «Onorevoli colleghi, vi invito tutti ad avere chiara coscienza della gravità del momento».
Ripercorrere nella memoria quelle ore turba, e per paradosso può anche rassicurare. Il Paese ci rimise sotto il profilo dell’evoluzione del suo sistema politico, delle vite brutalmente spezzate a innocenti. Ma l’Italia non precipitò in un’involuzione irreversibile, e non sembrava scontato.
«Quanto è avvenuto rappresenta la punta più alta di attacco allo Stato», ammise in Aula Benigno Zaccagnini, il segretario della Dc. Ugo La Malfa, repubblicano, chiese misure «di emergenza». Anche se lì non citò la pena di morte, affermò: «Si è proclamata guerra allo Stato democratico. Ma lo Stato democratico risponde con dichiarazione di guerra». Fu Enrico Berlinguer, segretario del Pci, a sottolineare che operai stavano «confluendo nelle piazze» contro i terroristi. Tra i comunisti il sequestro aveva ridotto fino a estinguerle le ritrosie a votare la fiducia ad Andreotti con Dc, Psi, Pri, Psdi (e Democrazia nazionale, uscita dal Msi) senza poter raggiungere la legittimazione piena, l’assegnazione di ministeri al Pci.
Il dibattito fu compresso in un giorno. Il governo ricevette 545 «sì», 30 «no», tre astensioni. Senza il voto di Aldo Moro, catturato da assassini.