il manifesto 17.3.18
Il veterocomunismo della lotta armata
L'editoriale
del 2 aprile 1978. Il coraggio di dirsi «verità sgradevoli» anche nei
momenti più difficili. Con la morte di Togliatti nel Pci cessa qualsiasi
analisi della Dc. Il compromesso storico nasce dai concetti
approssimativi di un partito comunista debole
di Rossana Rossanda
Il
28 marzo 1978, in pieno sequestro Moro, Rossana Rossanda pubblica sul
manifesto un corsivo intitolato «Il discorso sulla dc» con la celebre (e
incompresa) affermazione sull’«album di famiglia» e le Br.
Nei
giorni successivi piovvero critiche, e rispose con questo articolo più
lungo del 2 aprile successivo intitolato esplicitamente «L’album di
famiglia».
Non soltanto la politica e la lotta di classe sembrano
fuori corso di questi tempi, ma perfino il buonsenso. Non avessi mai
osservato che la requisitoria delle Br contro la dc, nel loro secondo
messaggio, ricalca stilemi veterocomunisti, mirando a trovare consensi
nello spazio lasciato aperto dalla cessazione d’una analisi seria e
d’una seria lotta del partito comunista alla democrazia cristiana.
Su
questo si sono gettati come leoni tutti i partiti dell’unità nazionale.
Il Pci si è sentito offeso, chissà perché. I suoi nemici sono stati
felici, chissà perché. L’uno e gli altri strumentalizzano e falsificano
allegramente.
Vediamo.
Non parlerò del Giornale, perché sono
una veterosettaria e voglio morire senza parlarne. Il Popolo mi fa dire
che non solo è veterocomunismo, ma che «affonda le radici nelle trame
internazionaliste del Cominform». Povero Cominform, fiacca e spiacevole
larva della defunta internazionale: scommetterei che della dc non ebbe
neppure tempo di accorgersi, nella breve vita impiegata ingloriosamente a
cercare di abbattere Tito.
Il Corriere fa scrivere a Ronchey che
l’abbandono da parte del Pci di quel giudizio sulla dc coincide con la
fine del suo leninismo.
E perché? Intanto, va a vedere come, se,
quando, e in che senso Togliatti abbandonò il leninismo davvero. E poi,
perché Lenin dovrebbe essere il simbolo dello schematismo? I suoi
giudizi politici sono lucidamente articolati. E quanto alla dc, solo una
veggente avrebbe potuto informarlo di questo squisito e tardivo
prodotto del secolo.
Soltanto Enzo Forcella sembra aver letto le
nostre righe sull’album di famiglia, del resto poco originali, con la
consueta lucidità.
il manifesto, fin dall’uccisione di Calabresi, ha negato che il «partito armato» possa trovare appigli nel bolscevismo
QUESTA
È MANCATA davvero ai compagni comunisti. Lasciamo andare l’editoriale
odierno di Tortorella, dove mi accusa nientemeno che di aver detto che
il terrorismo è figlio di Marx, Lenin, Gramsci e Togliatti: qui siamo
proprio nella polemica deliberatamente falsificatoria, giacché
Tortorella sa benissimo che il manifesto ha, fin dall’uccisione di
Calabresi, ricordato come esso sia una pratica veneranda della piccola
borghesia, e più recentemente abbia negato che il «partito armato» possa
trovare appigli nel bolscevismo.
Ma vediamo il lungo articolo di
ieri del compagno Macaluso. «Non so quale album conservi RR. È certo che
in esso non c’è la fotografia di Togliatti, né l’immagine di milioni di
lavoratori e comunisti che hanno vissuto le lotte, travagli,
contraddizioni di questi anni».
Che importa che io abbia scritto
che non tutta la politica del Pci stava in quelle formule? Che
fortunatamente c’era l’intuizione del partito nuovo, la lettura di
Gramsci, una diversa pratica di massa, insomma la «doppiezza» di cui più
tardi Togliatti avrebbe parlato? No. La Rossanda parla come il
Giornale, come gli esponenti della Dc, come i redattori del Popolo.
Diavolo. Mi domando perché il Pci si sia tenuto in seno per quasi trent’anni un serpente come me.
Ma usciamo da una polemica miserevole e ragioniamo.
PERCHÉ
IL PARTITO comunista è così agitato? Perché si sente sulla difensiva?
Perché sembra volersi disperatamente scrollare di dosso una paternità
dell’estremismo, che nessuno, in Italia, gli attribuisce?
Galloni
non spara sulla segreteria o sulla linea comunista, ma se mai su una
retrovia sociale, su una base operaia non cedevole, sul sindacato. Anche
Carli, a suo tempo, cercò di individuare una continuità fra insorgenza
operaia, nel senso di non accettazione del patto sociale, ed eversione.
È una vecchia trappola.
Il
Pci non solo farebbe bene a rispondere per le rime a chi cerca di
stabilire un filo fra terrorismo e lotta di massa, ma avrebbe anche
facile gioco.
Glielo offrono sia le Br, che fanno il contrario d’una lotta operaia di massa sia la risposta operaia, che le isola.
Le Br fanno il contrario d’una lotta operaia di massa. Anzi gli operai le isolano
Che
cosa fa imbarazzata la replica comunista, che cosa ne spinge due
esponenti ad attaccare più noi che Galloni? Indebolisce il Pci
l’incertezza della sua collocazione nei confronti della democrazia
cristiana.
Questa «lo fa codardo» rispetto al mio e suo album di famiglia, che è un album niente affatto da buttare.
In
esso sta (e non potrebbe essere diversamente) il variare della stessa
definizione del nemico storico che si oppone al partito comunista fin
dalla rottura dell’unità antifascista, e la democrazia cristiana.
Nella quale esso vide, giustamente, il fronte principale, anche rispetto al fascismo.
COMPAGNO MACALUSO, prendiamo un anno qualsiasi della collezione di Rinascita, per esempio il 1952.
Siamo
in piena restaurazione capitalistica. Chi la dirige? La dc. Siamo in
piena guerra fredda. Chi ne è lo strumento in Italia? La dc. Siamo in
pieno tentativo di mutare la rappresentatività popolare nel paese. Chi
ordisce la legge truffa? La dc.
In quella fase si attenua la complessità del giudizio togliattiano su De Gasperi e la sua scelta «democratica».
Felice
Platone scrive che la fascistizzazione del tempo nostro sta nel tipo di
società americana, e in quel particolare unanimismo bloccato, e che
«l’americanizzazione » della vita italiana è il vero veicolo d’un
pericolo fascista, e il veicolo dell’americanizzazione è la dc.
Togliatti
torna, a proposito di Gramsci, due mesi dopo sullo stesso giudizio:
«Non nei gruppi che vivono di nostalgia» ma nel maggiore partito di
governo sta il pericolo più grave, «nei rapporti sociali non svecchiati,
nelle oligarchie economiche risorgenti e risorte, nella tracotanza dei
ceti privilegiati, nella prepotenza e corruzione» che esso garantisce.
Poco dopo, una risoluzione del Comitato centrale contro il totalitarismo
clericale afferma che la dc vuole fondare «un vero e proprio regime
totalitario, in connessione con manovre internazionali, appoggiandosi a
forme di eccezionalità».
Gli esempi possono moltiplicarsi, ma a
che vale? Vale chiedersi se quel giudizio, che forse appiattisce una
ricerca iniziata durante e subito dopo la resistenza, è negli anni
cinquanta giusto o sbagliato. E perché si forma.
È giusto, io
credo, anche se si giovò di qualche forzatura nella propaganda e nella
formazione dei quadri; la denuncia che il partito comunista faceva della
dc, anche mettendo da parte l’interrogativo sulla sua natura «popolare»
che pur anche allora esisteva, bloccò una svolta reazionaria nel paese e
in qualche modo costrinse la stessa democrazia cristiana a quella
sempre imperfetta scelta «democratica», che avrebbe fatto precipitare
con la crisi prima del centrismo, poi di Fanfani, poi di Tambroni, tutte
le contraddizioni interne d’una borghesia che in una società mutata e
in mutati rapporti di forza cercava la sua espressione politica.
Senza questa denuncia il movimento delle masse sarebbe gravemente arretrato.
PERCHÉ
TORTORELLA si giustifica: «Fummo settari, ma difendemmo sempre la
costituzione»? Dovrebbe dire «Fummo settari perché dovemmo a tutti i
costi e in condizioni internazionali terribili difendere la costituzione
e impedire la sconfitta del movimento».
E Macaluso dovrebbe
riproporre le pagine di questo album all’Unità: sono state ingiallite da
una storia che il Pci ha potentemente contribuito a fare, mutando
realtà e quindi schemi di interpretazione, una grande storia.
Il
giudizio sulla dc che allora si venne formando non mutò finché non
mutarono la fase internazionale e i rapporti di classe interni, nella
seconda metà degli anni cinquanta.
Ancora nel 1956 – dove Ronchey
collocherebbe, penso, l’abbandono del leninismo – il giudizio sulla dc
così suona nelle Tesi: «Cedendo alla duplice pressione
(dell’imperialismo e dell’unità delle classi abbienti, ndr) il partito
democristiano, presentatosi all’inizio con un programma di rinnovamento,
diventò lo strumento politico d’un piano di conservazione sociale
all’interno e di asservimento a interessi stranieri in campo
internazionale».
Anzi, allora «la democrazia cristiana diventa partito politico dirigente della borghesia».
Sono
definizioni del 1956, quando si lancia la via italiana al socialismo.
Che per la prima volta, contraddittoriamente all’affermazione
sicuramente forzata d’una avvenuta «totale clericalizzazione della
società», aggiunge la questione della dc come partito popolare, e vede
in questa sua natura un principio di possibile squilibrio.
In
verità, lo squilibrio sarebbe venuto dalla impossibilità della vecchia
dc di integrare, nello sviluppo capitalistico, il movimento operaio
italiano e da tutto il rinnovamento del quadro, e della strategia, che
ne deriva agli inizi degli anni sessanta.
Allora, anzi, la
questione della dc diventa un perno della discussione nel partito
comunista, luogo dove si confronta una visione «democratico-laicista» e
una visione di classe, che mette l’accento e sui soggetti di dominio di
classe e sul tipo di aggregazione sociale che il partito cattolico
rappresenta; e vede in questa aggregazione una specificità del «caso
italiano», il luogo su cui passare per una ricostruzione del blocco
storico.
TUTTO QUESTO, nel corsivo che ha suscitato tanti allarmi, lo abbiamo ricordato, ma sta scritto nei testi di anni recenti.
Perché così accesi nervosismi, nella dirigenza comunista, al solo ricordarlo?
Il
fatto, ho scritto e ripeto, che quella fu l’ultima analisi seria della
democrazia cristiana che il Pci abbia compiuta. Con la morte di
Togliatti cessa.
L’ambiziosa operazione del compromesso storico è
partita su concetti approssimativi (le grandi correnti, i grandi filoni)
separata da un’analisi appena complessa della collocazione della
democrazia cristiana nel contesto delle forze politiche borghesi,
italiane e non, e della sua impossibilità a separarsi dal ruolo di
«partito di fiducia della borghesia».
È PARSA VICINA a perderlo
qualche anno fa, perché per un momento la borghesia ha puntato altrove;
ma la conversione di tendenza s’è subito verificata. Quando già era
tornata ad esserlo in modo inequivocabile e centrale il Pci è andato –
in piena crisi – a un accordo politico con un corpo sociale, storico,
ideologico, clientelare che non sa più bene come definire, se avversario
o amico.
Che non sa «leggere» più. Che non analizza più. Che spera «diverso».
Questa
debolezza presente gli fa scrollare violentemente la criniera di fronte
al ricordo del passato, gli fa gridare «al terrorista» contro chiunque
dica che, sì, la democrazia cristiana era ed è il partito della
borghesia italiana e che il Pci, smettendo di dirlo, porta una
responsabilità anche dell’oscurarsi del fronte di lotta,
dell’intorbidarsi della vita politica.
Sono verità sgradevoli. Non è detto che, nei momenti difficili, bisogna astenersi dal dirle.
da «il manifesto» del 2 aprile 1978, ripubblicato sull’edizione in edicola il 17 marzo 2018