Il Fatto 15.3.17
Al solito: perdono le elezioni e vogliono riformare la Carta
di Silvia Truzzi
L’intervista
di Dario Franceschini ieri al Corriere della Sera spiega che non è la
connessione sentimentale del Pd con gli elettori a essersi rotta, è che
proprio non funziona più nemmeno l’apparecchio acustico. Il ministro
comincia statuendo che “siamo in un’impasse”. Poco conta che siano
passati solo dieci giorni dal voto (in Germania, per dire, ci hanno
messo mesi a formare un governo). Siccome però loro hanno perso, siamo
in un’impasse. E come se ne esce? Ribaltando lo schema: “La maggioranza
non ce l’ha nessuno” e allora facciamo le riforme istituzionali. “È un
grave errore politico pensare che la vittoria del No al referendum abbia
voluto dire che le riforme non si faranno mai più”. Mica si possono
lasciare irrisolti “i nodi di un sistema che non funziona”, signora mia.
La strada è “monocameralismo e legge elettorale”: “Da una situazione
che pare perduta può nascere un meccanismo virtuoso. Questa può essere
la legislatura perfetta”. I governi di cui si parla in questi giorni
“sono tutti governi contro natura”. Invece non sarebbe contro natura un
governo che non solo scavalca un chiarissimo segnale del corpo
elettorale, ma addirittura si ostina a riproporre una riforma che i
cittadini hanno bocciato e che serve esclusivamente a garantire la
sopravvivenza alle pseudo élite.
E dire che il passato dovrebbe
aver insegnato ai Franceschini che i problemi politici non si risolvono
con alchimie costituzionali che assomigliano al gioco delle tre carte
fatto nella stanza dei bottoni. E quali sono i problemi politici su cui
hanno votato gli italiani? Negli ultimi due giorni sono uscite un paio
di ricerche che, pubblicate prima del 4 marzo, avrebbero aiutato
parecchio i sondaggisti (e i commentatori). Bankitalia ci spiega che
aumentano povertà e disuguaglianze: i cittadini a rischio povertà,
quelli che secondo i parametri Eurostat possono contare su un reddito di
meno di 830 euro mensili, sono il 23%. Al Nord le famiglie a rischio
passano dall’8,3% di dieci anni fa al 15%; al Sud il 40% è a rischio di
povertà. L’indice di diseguaglianza nella distribuzione del reddito è
aumentato di 1,5 punti dal 2008. La quota di ricchezza netta detenuta
dal 5% delle famiglie più ricco è pari al 30% del totale, mentre il 30%
più povero delle famiglie possiede appena l’1% della ricchezza. Poi ci
sono i dati sul lavoro, propagandati ieri come il viatico delle nuove
sorti progressive del Paese (il tasso di disoccupazione è il più basso
degli ultimi quattro anni). Il punto però non è la quantità del lavoro,
su cui pure c’è da discutere, ma la qualità. Aumenta il lavoro povero
(persone che lavorano e non sono in grado di mantenersi), il lavoro
precario, il lavoro in affitto senza diritti. Ieri Marta Fana,
ricercatrice in Economia e autrice di un libro importante (Non è lavoro è
sfruttamento, Laterza), ha analizzato i numeri dell’Istat per Il Fatto:
“Nel 2017, il nuovo che avanza è fatto principalmente di lavoro a
termine e in affitto, cioè in somministrazione. Si registra un aumento
di 279 mila occupati, dovuto alla componente dipendente di cui il 90% e a
termine. A oggi, l’incidenza degli occupati con contratto a termine
raggiunge il 12,4% dall’11% di fine 2016. L’analisi dei flussi mostra
che a fine 2017, il tasso di transizione dall’occupazione dipendente a
termine verso l’occupazione a tempo indeterminato, si ferma al 16%,
cinque punti percentuali in meno rispetto allo stesso periodo 2016. I
lavoratori in somministrazione salgono del 25%, raggiungendo il valore
più elevato degli ultimi 15 anni”. Sovrapponendo le cartine
dell’indagine di Bankitalia e quella dell’Istat alle mappe del voto si
vedrà che i luoghi di maggiore povertà e disoccupazione sono quelli in
cui la protesta ha dilagato. Di questo bisogna occuparsi con urgenza,
altro che legislatura costituente.