giovedì 15 marzo 2018

Il Fatto 15.3.17
Al solito: perdono le elezioni e vogliono riformare la Carta
di Silvia Truzzi


L’intervista di Dario Franceschini ieri al Corriere della Sera spiega che non è la connessione sentimentale del Pd con gli elettori a essersi rotta, è che proprio non funziona più nemmeno l’apparecchio acustico. Il ministro comincia statuendo che “siamo in un’impasse”. Poco conta che siano passati solo dieci giorni dal voto (in Germania, per dire, ci hanno messo mesi a formare un governo). Siccome però loro hanno perso, siamo in un’impasse. E come se ne esce? Ribaltando lo schema: “La maggioranza non ce l’ha nessuno” e allora facciamo le riforme istituzionali. “È un grave errore politico pensare che la vittoria del No al referendum abbia voluto dire che le riforme non si faranno mai più”. Mica si possono lasciare irrisolti “i nodi di un sistema che non funziona”, signora mia. La strada è “monocameralismo e legge elettorale”: “Da una situazione che pare perduta può nascere un meccanismo virtuoso. Questa può essere la legislatura perfetta”. I governi di cui si parla in questi giorni “sono tutti governi contro natura”. Invece non sarebbe contro natura un governo che non solo scavalca un chiarissimo segnale del corpo elettorale, ma addirittura si ostina a riproporre una riforma che i cittadini hanno bocciato e che serve esclusivamente a garantire la sopravvivenza alle pseudo élite.
E dire che il passato dovrebbe aver insegnato ai Franceschini che i problemi politici non si risolvono con alchimie costituzionali che assomigliano al gioco delle tre carte fatto nella stanza dei bottoni. E quali sono i problemi politici su cui hanno votato gli italiani? Negli ultimi due giorni sono uscite un paio di ricerche che, pubblicate prima del 4 marzo, avrebbero aiutato parecchio i sondaggisti (e i commentatori). Bankitalia ci spiega che aumentano povertà e disuguaglianze: i cittadini a rischio povertà, quelli che secondo i parametri Eurostat possono contare su un reddito di meno di 830 euro mensili, sono il 23%. Al Nord le famiglie a rischio passano dall’8,3% di dieci anni fa al 15%; al Sud il 40% è a rischio di povertà. L’indice di diseguaglianza nella distribuzione del reddito è aumentato di 1,5 punti dal 2008. La quota di ricchezza netta detenuta dal 5% delle famiglie più ricco è pari al 30% del totale, mentre il 30% più povero delle famiglie possiede appena l’1% della ricchezza. Poi ci sono i dati sul lavoro, propagandati ieri come il viatico delle nuove sorti progressive del Paese (il tasso di disoccupazione è il più basso degli ultimi quattro anni). Il punto però non è la quantità del lavoro, su cui pure c’è da discutere, ma la qualità. Aumenta il lavoro povero (persone che lavorano e non sono in grado di mantenersi), il lavoro precario, il lavoro in affitto senza diritti. Ieri Marta Fana, ricercatrice in Economia e autrice di un libro importante (Non è lavoro è sfruttamento, Laterza), ha analizzato i numeri dell’Istat per Il Fatto: “Nel 2017, il nuovo che avanza è fatto principalmente di lavoro a termine e in affitto, cioè in somministrazione. Si registra un aumento di 279 mila occupati, dovuto alla componente dipendente di cui il 90% e a termine. A oggi, l’incidenza degli occupati con contratto a termine raggiunge il 12,4% dall’11% di fine 2016. L’analisi dei flussi mostra che a fine 2017, il tasso di transizione dall’occupazione dipendente a termine verso l’occupazione a tempo indeterminato, si ferma al 16%, cinque punti percentuali in meno rispetto allo stesso periodo 2016. I lavoratori in somministrazione salgono del 25%, raggiungendo il valore più elevato degli ultimi 15 anni”. Sovrapponendo le cartine dell’indagine di Bankitalia e quella dell’Istat alle mappe del voto si vedrà che i luoghi di maggiore povertà e disoccupazione sono quelli in cui la protesta ha dilagato. Di questo bisogna occuparsi con urgenza, altro che legislatura costituente.