Il Fatto 15.3.17
Scuola, la catena del sapere spezzata
I
professori. Negli ultimi decenni è passato il principio in base al quale
si può insegnare solo a patto di sapere come, non che cosa. Così i
contenuti si perdono, l’insegnamento diventa un rituale burocratico
di Salvatore Settis
Fra
i tanti vaccini in giro, manca proprio quello oggi più urgente: il
vaccino contro la politica personalistica, una peste berluscon-renziana.
Se lo avessimo (e in dosi massicce) potremmo salvarci, tra l’altro, dal
frivolo gioco di società detto “toto-ministri”. Quasi che, trovato il
ministro, si risolvessero d’incanto i problemi dell’economia, della
cultura, dell’ambiente, della sanità.
Ma anche i migliori esperti
non hanno virtù taumaturgiche, e nulla potranno fare senza un progetto
complessivo, un’idea di futuro. Dovremmo dunque concentrare l’attenzione
non sulle persone ma sui problemi, sulle cose da fare. Per esempio, la
scuola. Funestata, nei discorsi correnti, da un bivio paradossale: da un
lato, c’è chi sostiene che la scuola italiana è arretrata, sotto le
medie Ocse e così via; dall’altro, chi pensa che la scuola italiana, per
la formazione ad ampio ventaglio che offre nei licei, sia la migliore
del mondo, e che le recenti riforme l’abbiano solo peggiorata.
Confrontare le ragioni degli uni e degli altri sarebbe dunque
indispensabile. Ma proviamo a prendere il discorso da un terzo punto di
vista, quello delle generazioni future. Quale Italia ci aspettiamo da
loro (o meglio: loro da noi), e da quale scuola?
Per millenni,
tutte le culture umane hanno elaborato e trasmesso conoscenze. Lo hanno
fatto nelle famiglie, nelle botteghe artigiane, nei templi, nelle
caserme, negli ospedali, per le strade, nelle scuole. Il cuore di questo
meccanismo di trasmissione della conoscenza è sempre stato il rapporto
fra le generazioni: i più giovani hanno imparato qualcosa dai meno
giovani. Ci sono sempre stati buoni maestri, quelli che praticano con
passione e impegno il proprio mestiere e sanno comunicare ai giovani
curiosità, interesse, entusiasmo; e ci sono sempre stati cattivi
maestri, scontenti di sé, insicuri, incapaci di dialogare e di suscitare
attenzione. Ma quel che stimola ogni trasmissione di conoscenza è
l’appassionata pratica di un sapere e il conseguente desiderio di
trasmetterlo ai più giovani. La conoscenza si propaga per contatto fra
esseri umani, e sono i contenuti che ne assicurano il travaso da una
generazione all’altra.
Questa catena millenaria sembra essersi
spezzata. Da alcuni decenni è di moda credere che per insegnare,
poniamo, la matematica o la storia non basta conoscere bene queste
discipline, ma è indispensabile praticare qualcos’altro, che le supera e
le contiene: la didattica della matematica, la didattica della storia.
Questa perniciosa petitio principii ha infettato le nostre menti, ma
anche le circolari ministeriali, i meccanismi di reclutamento e di
valutazione. La didattica, o pedagogia che dir si voglia, tende così a
diventare non un sapere fra gli altri, bensì una sorta di
super-disciplina che pretende di superare o contenere tutte le altre. Di
conseguenza, si può insegnare solo a patto di sapere come, non che
cosa. Principio, questo, che non vale nei saperi più elementari e
indispensabili che pratichiamo (l’agricoltura, la cucina…), ma che si
ritiene debba valere per la scuola. Di sofisma in sofisma, potremmo
allora chiederci : ma per insegnare la didattica della matematica, non
ci vorrà, “a monte”, un insegnamento di didattica della didattica della
matematica? E così via rinculando, finché a furia di parlare del come e
non del che cosa si deve insegnare a scuola, i contenuti si perdono nel
nulla, e quel che resta è il burocratico rituale di un
insegnamento-scatola vuota. La sapienza specifica dell’insegnante
diventa un bagaglio ingombrante, se “sapere la matematica” (o la storia)
conta poco o niente, se vale solo una tecnica dell’insegnare che è
parente stretta della “scienza della comunicazione” e della pubblicità
commerciale.
Concentrarsi sulle modalità dell’insegnamento e non
sui suoi contenuti. Questa sembra essere la parola d’ordine della nuova
scuola, “buona” o cattiva che sia. Si viene così a creare una perversa
simmetria: agli insegnanti si chiede di spostare l’accento, nella loro
preparazione e nel loro lavoro, dai contenuti ai metodi d’insegnamento.
Agli studenti si chiede di spostare l’accento dalla elaborazione della
conoscenza all’acquisizione di abilità, competenze, skills. La scuola
così intesa può forse ancora (stancamente) trasmettere nozioni, ma non
la passione di sapere. Le nozioni, una volta acquisite, non serviranno a
pensare il futuro creativamente, ma a eseguire questo o quel lavoro
lungo binari prestabiliti. Da una scuola così concepita resta ovviamente
fuori lo spirito critico, il senso del dubbio, la vigilanza
intellettuale sulle informazioni ricevute e sulle nozioni correnti, il
desiderio di controllare quel che ci vien detto, la capacità di
ragionarne con indipendenza di giudizio, la creatività. Restano fuori le
virtù essenziali di un buon cittadino.
Ma in verità l’insegnante
ideale è chi sa benissimo la storia o la matematica, vi dedica la
miglior parte del suo tempo, e ha elaborato la passione di trasmetterla
perché la considera non solo utile, ma “bella” da coltivare, da
conoscere e da far conoscere. Solo un insegnante come questo (e per
nostra fortuna nella scuola italiana ce ne sono ancora migliaia) saprà
davvero trasmettere, attraverso la storia o la matematica, la capacità
di ragionare con rigore che è la dote più preziosa di ogni essere umano.
Questo insegnare con passione (per i contenuti, non per i metodi)
presuppone una concezione della scuola come luogo dove si insegna a
pensare, non a “fare cose” che appaiano immediatamente produttive,
secondo gli indecenti equivoci della cosiddetta “alternanza
scuola-lavoro”.
E prima di scegliere da che parte stare, pensate
un momento: salireste mai su un aereo sapendo che ai comandi non c’è un
bravissimo pilota, ma un esperto in didattica del pilotaggio?