mercoledì 14 marzo 2018

Il Fatto 14.3.18
Sempre meno uguali, sempre più poveri: la vera analisi del voto
di Alessandro Robecchi


È un vero peccato che le pagine dell’economia, sui quotidiani italiani siano così lontane da quelle della politica. È come fare un salto dal paese surreale al paese reale, come quando, usciti da teatro, si torna a casa, nella vita vera. All’inizio, per milioni di righe, ci becchiamo le contorsioni delle grandi manovre, le ipotesi, i retroscena. La crisi coniugale in atto nel centrodestra tra Salvini e Silvio Restaurato, o i cinquestelle che mettono su una faccia istituzionale e fanno di tutto per mostrarsi i più democristianamente misurati. Del Pd, ormai sempre più simile a una rappresentazione de L’ispettore generale di Gogol’ non ha senso dire e contano soltanto il chiacchiericcio pettegolo e la spigolatura, al massimo la nuova cartografia delle correnti, con enormi mappe di zone misteriose dove campeggia la scritta Hic sunt renziones, e ci sono macerie. E poi c’è la più o meno raffinata analisi di cause e concause, cioè il “come siamo arrivati a questo punto”.
Ecco.
Per suggerire una lettura di primo livello, per chi ancora ha il novecentesco vezzo di collegare la politica ai bisogni reali delle persone, basterebbe dare un’occhiata anche veloce allo studio di Bankitalia su reddito, ricchezza, crescita e diseguaglianze. Qualche numeretto, qualche linea di grafico che va su e giù, ed ecco in due minuti il “come siamo arrivati fin qua”, spiegato bene.
Quasi 14 milioni di italiani vivono con meno di 830 euro al mese, uno su quattro. Sono più poveri i giovani (il 30 per cento ha meno di 35 anni), sono più poveri al Sud (40 per cento). Tra il 2006 e il 2016 (dieci anni in cui hanno governato un po’ tutti gli attori della pièce qui sopra, spesso intrecciati in amorosi sensi) il rischio povertà per i capifamiglia tra i 35 e i 45 anni è passato dal 19 al 30 per cento, che vuol dire che quasi una famiglia su tre teme lo scivolamento verso il proletariato, categoria numerosa di cui nessuno si occupa (nemmeno degni di 80 euro, per dire: troppo poveri).
L’indice Gini, quello che misura il tasso di diseguaglianza, è aumentato in dieci anni di un punto e mezzo. Questo significa che pochi ricchi sono diventati più ricchi e che molti poveri sono diventati più poveri. E questo è avvenuto con Prodi, Berlusconi, Monti, Letta e Renzi e tutto il cucuzzaro, con buona pace di quelli che dicono che “serve stabilità”. Più stabili di così si muore: la tendenza è dritta come un fuso e premia la diseguaglianza. Si dirà: la crisi, le circostanze, il contesto. Bene. E poi si scopre (sempre Bankitalia) che quando arriva una ripresina non la vede nessuno: nel 2017 il Pil è salito del 1,5 per cento, mentre alle famiglie è arrivato solo lo 0,7, la metà.
Si capisce quindi il comprensibile astio di chi, in condizioni di sofferenza, non solo si vede arretrare, ma osserva altri avanzare, toccando con mano un’ingiustizia palese e offensiva. Si collabora alla ripresa, si lavora con meno diritti, con meno salario, con meno sicurezze, e poi quando la ripresa arriva (la più piccola in Europa) non si vedono nemmeno le briciole. Fa un po’ incazzare, specie poi quando vedi un partito asserragliato nelle zone ricche del paese e delle città, magnificare le sue politiche “di sinistra”, snocciolare numeri trionfali (e spesso falsi) sul lavoro dimenticandosi i working poors, cioè milioni di cittadini che, pur lavorando, restano poveri, anzi lo diventano di più. Con la destra, con il centrosinistra, con i tecnici, con i rottamatori, con i posati statisti, la diseguaglianza economica nel Paese è aumentata senza soste, costante, implacabile.
Poi naturalmente uno può anche appassionarsi alla segreteria Martina, alle manovre di Salvini, alle tattiche di Di Maio o agli appelli di Mattarella: è come leggere la rubrica “strano ma vero” sulla Settimana Enigmistica, deliziosamente insignificante.