martedì 13 marzo 2018

Il Fatto 13.3.18
“Moro, gli agenti uccisi, la prigionia e la lotta. Fu tutto terrificante”
Adriana Faranda racconta a Francesca Fagnani il rapimento e la morte dello statista Dc
Pubblichiamo una parte dell’intervista televisiva che Francesca Fagnani ha realizzato con Adriana Faranda, ex militante della colonna romana delle Brigate Rosse, una dei “postini” che le Br utilizzarono – tra il 16 marzo e il 9 maggio 1978 – per consegnare alla famiglia e ai politici della Democrazia cristiana le lettere di Aldo Moro, prigioniero nel covo brigatista di via Montalcini a Roma


Le domande e le risposte che leggerete sono proprio la parte dedicata alla rievocazione dei 55 giorni del Caso Moro. Il colloquio con Adriana Faranda è il primo della nuova trasmissione di Francesca Fagnani, “Belve”, una serie originale di otto appuntamenti prodotta da “Loft Produzioni” per Discovery Italia. La prima puntata, con l’intervista ad Adriana Faranda, andrà in onda domani sera alle 23.30 sul canale “Nove”.

Adriana Faranda, lei ha partecipato al piano per il rapimento di Aldo Moro e l’ha condiviso. Quel giorno in via Fani sono morti tutti gli agenti della scorta di Moro. L’annientamento della scorta era previsto nei vostri piani, era condiviso da tutti nelle Brigate Rosse?
Questo è un tema molto delicato, nel senso che noi non immaginavamo che gli uomini della scorta fossero, non dico impreparati, ma che addirittura alcune armi fossero in un portabagagli o in un borsello. Credevamo che rispondessero al fuoco, che si aspettassero che potesse succedere una cosa del genere. Ovvio che noi puntavamo alla sorpresa, ma non ci aspettavamo che fossero così sorpresi.
Non lo avevate messo in conto.
Non avevamo messo in conto, ovviamente, il colpo di grazia. Io non ricordo sicuramente alcuna discussione in cui è stato detto: bisogna ucciderli. Certo, dovevamo garantire al nucleo la possibilità di scappare. Però quello che non sapevamo è se ci sarebbero stati morti anche dalla nostra parte.
Lei dov’era mentre capitava?
Ero a casa e ascoltavo la radio. Per sentire cosa stava succedendo, ma dalle comunicazioni non si capiva bene.
Quando ha saputo che gli agenti erano morti tutti e invece dei vostri nessuno, come si è sentita?
Da una parte sollevata, dall’altra ho sentito immediatamente il peso di quello che era avvenuto. La prima cosa che udii fu che uno degli agenti era sopravvissuto ed era stato portato in ospedale. E devo dire che mi augurai che non morisse.
Barbara Balzerani, un’altra brigatista che ha partecipato al Piano Moro, ha detto: io non mi ritengo un’assassina, perché sostanzialmente quella era una guerra, quelle erano le regole di ingaggio. Lei come la giudica e come giudica un po’ tutti voi?
No, io non giudico la Balzerani e nessun altro mio ex compagno di allora.
Allora mettiamola su di lei. Si giudica un’assassina?
È dura questa domanda. Nel senso che dal punto di vista umano, per come la vedo adesso, sì: so che ho contribuito all’uccisione di persone. Però, è vero anche quello che dice la Balzerani. In quel momento, noi ci sentivamo in guerra, al di là che questa cosa fosse reale o meno. E la guerra è spietata, la guerra è cinica, la guerra uccide.
Nella vostra visione voi eravate in guerra, per liberare il popolo oppresso dal Sim, lo stato imperialista delle multinazionali, diciamo così, banalizzando…
Banalizzando…
Di fatto, però, il giorno dopo il rapimento Moro ci fu un grande sciopero contro di voi. Le piazze si riempirono di bandiere e di operai. Quel popolo che volevate liberare era contro di voi. Ma non vi siete chiesti: forse siamo dalla parte sbagliata della storia? Non vi è venuto qualche dubbio?
Un minimo di dubbio c’era sempre, ma non era sulle manifestazioni organizzate dal Pci. Non ci stupiva che riuscissero a mobilitare tante persone.
Eppure quelle persone c’erano, erano persone vere, erano operai.
Di noi si dice che eravamo pochissimi, è giusto: eravamo molti di meno, però ci sono stati anche dai 20 mila ai 40 mila inquisiti, in quegli anni, per attività sovversive.
Ma la gente era con voi?
No, la gente non era con noi. Però, che cosa significa essere con noi? Noi pensavamo di essere una avanguardia che innescava un processo, cioè non era un periodo in cui quattro persone chiuse di una stanza avevano deciso un percorso. Accanto alle manifestazioni del Pci c’erano le persone che avevano brindato nei bar alla notizia, perché lì per lì, tra l’altro, non ci si era resi conto della gravità dell’episodio.
Durante quei 55 giorni del rapimento, lei ha frequentato il covo di via Montalcini, la “prigione del popolo” di Aldo Moro?
No, mai. Mai perché non poteva essere una base da frequentare, ma doveva essere un appartamento da tenere assolutamente il più possibile separato e al sicuro.
Lei non ha mai incrociato il presidente Moro?
No, mai. Soltanto durante l’inchiesta preliminare al sequestro.
Il suo compito, assieme a Valerio Morucci che, allora, era anche il suo compagno di vita, era di recapitare la “posta, le lettere che scriveva Moro, sia quelle politiche sia quelle private”. Erano 36, lei le ha recapitate tutte?
Moro sicuramente ne scrisse di più. Poi, per tutta una serie di valutazioni, non tutte furono inviate ai destinatari.
Erano lettere, dicevamo, sia a familiari sia private, sia a politici del suo partito. Lei immagino avrà avuto modo di leggerle in anteprima. Come si sentiva? Perché quelle private erano davvero struggenti…
Certo, diciamo che quelle politiche erano estremamente importanti perché segnavano tutto un percorso di Moro che cercava di aprire degli spiragli che avrebbero significato la sua liberazione. Quelle private lo spogliavano gradatamente di quella che era la sua funzione, quella per cui era stato catturato.
E lei come si sentiva?
Male.
La pietà ha mai avuto spazio nei vostri discorsi?
No, spazio no. A volte è uscita fuori, in maniere differenti. Però spazio politico non poteva averne.
Com’è noto, lei e Morucci vi siete opposti all’esecuzione del prigioniero Moro. A muovervi erano ragioni più politiche o più etiche?
Erano le due cose. Uccidere un prigioniero politico, reintrodurre la pena di morte come diceva Moro nelle lettere alla Democrazia cristiana: diceva ‘state reintroducendo la pena di morte’, in realtà era rivolto anche a noi, esattamente come alle istituzioni che non si stavano muovendo. Meglio: al suo partito, piuttosto che alle istituzioni. E anche problemi politici, perché per noi l’uccisione di Moro era un errore politico gravissimo. Già il sequestro era stato un azzardo, superiore alle nostre forze anche di elaborazione e di gestione politica e l’uccisione sarebbe stato un errore ancora più grave. Per noi la sua liberazione, anche senza contropartita, era una prova di forza e, se vogliamo, anche di eticità maggiore di quella che stava dimostrando lo Stato.
Ma uccidere le persone per strada non equivale alla pena di morte?
Assolutamente sì, assolutamente sì.
Lei e Morucci siete riusciti effettivamente a rimandare l’esecuzione di Moro, ma non a evitarla. Eppure avreste potuto salvare la sua vita e le vostre, denunciando
Non si può. A quei tempi non si poteva assolutamente neanche immaginare una cosa del genere. Tu per tua scelta, per tua responsabilità hai accettato di far parte di un’organizzazione in cui credevi, con cui hai condiviso tutto: anche davanti a un dilemma umano, etico e politico di quel tipo, passare alla denuncia significava capovolgere tutto e schierarsi con lo Stato contro i tuoi compagni. Era inammissibile per me, in quel momento, assolutamente inammissibile.
Il giorno dell’esecuzione, le toccò un altro terribile compito: accompagnare Morucci nella telefonata all’assistente di Moro per comunicare dove avrebbero ritrovato il cadavere. Com’è, per chi ne ha la responsabilità, annunciare una morte senza dare la possibilità di dire addio?
Beh, quello è stato un momento durissimo. A Valerio costò moltissimo fare quella telefonata. Annunciare una morte è sempre una cosa terrificante, ancora di più se non la condividi, in quel momento l’angoscia era molto alta, non so. È stato uno dei momenti più difficili.
È stato il più difficile? Oppure qual è stato il più difficile di quei 55 giorni?
Non c’è un momento terrificante, erano tutti terrificanti. Fu terrificante anche quando si decise che non si poteva più aspettare. Furono tutti terrificanti. Tranne forse, non so, quando si sperava che ci fossero delle aperture…