Il Fatto 12.3.18
Il mistero della morte del Guevara di Lucania
Ninco Nanco, ucciso nel 1864
di Giampiero Calapà
“Un
colpo inopportuno di fucile ne abbreviava i giorni immergendolo in
eterna notte”, stabilisce la circolare periodica del primo semestre del
1864 del corpo dei carabinieri reali, decima legione, Salerno. Questa è
la fine della leggenda di un criminale feroce o di un eroe del popolo a
Castello Lagopesole, in lucano Lu Quastìdde per le circa 600 anime che
ci vivono oggi sotto le insegne del Comune di Avigliano, provincia di
Potenza nel Sud che più Sud non si può, oltre quella Eboli dove si fermò
Cristo.
Il diavolo o santo risponde al nome di Ninco Nanco, morto
a 31 anni, ucciso dal proiettile inopportuno sparato da una delle
guardie che stava per arrestarlo o da qualcun altro alle sue spalle,
enigma mai chiarito ma che poco interessa perché il morto ammazzato è
perdente tra i perdenti, “brigante” sconfitto dalla “civiltà” piemontese
in nome dell’Unità d’Italia.
Diavolo o santo, assassino o anarchico
Domani,
13 marzo, ricorre l’anniversario di quella esecuzione sommaria senza
processo, immortalata in una fotografia – monito per gli altri
zappaterra meridionali armati – che 102 anni prima anticipa per
somiglianza impressionante un altro scatto divenuto però di fama
mondiale: il cadavere di Che Guevara in Bolivia. La storiografia più o
meno ufficiale ha condannato Giuseppe Nicola Somma, detto Ninco Nanco,
senza appello: “Apparteneva ad una famiglia dal curriculum criminale di
tutto rispetto, in particolare lo zio materno, Giuseppe Nicola Coviello,
era stato un bandito tra i più temuti del luogo e finì bruciato vivo
dalla polizia borbonica nella capanna ove si era nascosto per sfuggire
alla cattura. (…) Gli esempi familiari e la personalità ribelle di Ninco
Nanco, offrivano ampie garanzie di un futuro da fuorilegge. Sia
l’aspetto che il contegno non erano di meno”, scrive Giordano Bruno
Guerri ne Il Sangue del Sud (Mondadori). Una memoria rigettata
nell’infamia di una vita da tagliagole, ma quell’immagine eroica del
vinto in armi per un ideale è diventata da qualche anno bandiera del Sud
che cerca riscatto.
Su bandiere e magliette come l’argentino
Vessillo
che si alza immancabile dal 2010 ai concerti di Eugenio Bennato – il
cantautore napoletano nel 1979 già autore con Carlo D’Angiò di Brigante
se more – al suono delle prime note di Ninco Nanco: “1859, muore il
vecchio re Borbone e sul trono va suo figlio, 23 anni, ancora guaglione.
È il momento di approfittare di questo vuoto di potere, di quel regno
in mezzo al mare difeso solo dalle sirene. E u Banco ’e Napoli è
l’ideale per rifarsi delle spese, per coprire il disavanzo della finanza
piemontese. E Ninco Nanco deve morire perché la storia così deve andare
e il Sud è terra di conquista e Ninco Nanco nun ce pò stare, e Ninco
Nanco deve morire perché si campa putesse parlare e si parlasse putesse
dire qualcosa di meridionale”.
La tana di Bennato è uno
scantinato-officina di musica e cultura al Vomero, la sede di “Taranta
power” nella Napoli eterna capitale di un Sud decadente quanto fervente
di vita e bellezza: “La capigliatura, la compostezza, quell’uomo morto
assomiglia a Che Guevara e ha un nome, Ninco Nanco, che si presta a una
ballata. La musica non si fa per istanza ideologica, non sono uno
storico e non celebro i crimini di Ninco Nanco, celebro la bellezza e la
passione della ribellione. Una ribellione anarchica, non neoborbonica
anche se qualche nostalgico buontempone ha provato ad appropiarsene”.
Col Fidel Castro degli anti-Savoia
Se
Ninco Nanco è una sorta di Che Guevara ante litteram, il Fidel Castro
di Lucania era Carmine Crocco detto Donatello (catturato nello stesso
1864 dai papalini e morto nel 1905 scontando l’ergastolo a Portoferraio,
Isola d’Elba), alla cui banda l’aviglianese si unì per insorgere contro
l’offensiva di Torino. “Per sconfiggere il brigantaggio – canta Bennato
– e inaugurare l’emigrazione bisogna uccidere il coraggio e Ninco Nanco
è meglio che muore. Perché lui è nato zappaterra e ammazzarlo non è
reato e dopo un colpo di rivoltella l’hanno pure fotografato”. Sono in
tre asserragliati a Lu Quastìdde quando carabinieri e guardie, preti al
seguito, intimano la resa.
Quel proiettile in gola
“L’ultimo
a uscire fu Ninco Nanco con le armi in resta e girando gli occhi
intorno per vedere ove meglio avesse potuto adoperare il suo brutale
furore: ed al certo, qualche vittima avrebbe immolata alla sua ferocia,
se un caporale della guardia nazionale a nome Nicola Coviello Summa,
vedendolo in quel terribile atteggiamento, per impedirgli di menare in
atto qualche criminoso eccesso, gli appuntò il fucile alla gola e lo
stese cadavere”, si legge nella “risposta del cavaliere Benedetto Corbo
di Basso al non cavaliere Giovanni Padula, venditore di cenci di
Montemurro” raccolta in Il brigantaggio meridionale di Aldo De Jaco
(Editori riuniti). “E lo Zolfo di Sicilia – spiega la canzone – e i
cantieri a Castellammare e le fabbriche della seta e Gaeta da
bombardare. È l’ideale che fa la guerra, una guerra dichiarata per
vedere chi la spunta tra il fucile e la tammurriata, e tammurriata è
superstizione, questa storia deve finire e qui si fa l’Italia o si muore
e Ninco Nanco deve morire”. Non prima dell’ultima sfida di un brigante
che sussurra: “Quant’è bello murire acciso”.