sabato 10 marzo 2018

Il Fatto 10.3.18
La coscienza di Varsavia tra aborto e purghe rosse
Dalle donne alle scuse per la cacciata degli ebrei nel ‘68: i polacchi fanno i conti con il presente e il passato
La coscienza di Varsavia tra aborto e purghe rosse
di Michela A.G. Iaccarino


Banco, rosso, nero. Sono i colori di questo lungo marzo polacco. Alla stazione di Varsavia il presidente Andrzej Duda ha chinato la testa, tra soldati dritti come i loro fucili neri, in cappotti verdi, nasi all’insù su volti pallidi. La Polonia ha ricordato due giorni fa “l’atto vergognoso” commesso esattamente mezzo secolo fa: 15mila ebrei furono cacciati dal paese dalle autorità comuniste. “Vogliamo chiedere scusa a chi è stato espulso allora, attraverso le mie labbra”, ha detto Duda, “la Polonia sta chiedendo perdono”.
Folla in centro, all’università di Varsavia. Cancello nero, stemma dorato. Le rose e le teste sono tutte bianche. I fiori stanno tra i palmi anziani di quelli che erano giovani allora, nel marzo 1968, quando l’opera del poeta Adam Mickiewicz, “Dziady”, gli antenati, doveva andare in scena al Teatro nazionale: narrava dell’insurrezione polacca anti-russa del 1830, di quella Polonia “redentrice d’Europa”, del destino messianico degli slavi dell’ovest. I sovietici decisero di censurarla e gli studenti, spontaneamente, di scendere in strada, a protestare. Finì in rosso: sangue. Quella lotta studentesca diventò l’alibi della repressione antisemita: molti leader degli studenti, professori compresi, erano ebrei, “traditori sionisti” da cacciare dal paese, secondo il generale Mieczyslaw Moszar, all’epoca ministro degli Interni.
Per un passato tornato improvvisamente presente, in continua fase di riscrittura, oggi la Polonia ricorda quella purga comunista, meno conosciuta di quella nazista, a capo chino, ma per il resto alza la testa. I polacchi “non sono stati complici, ma solo vittime del nazismo”.
La cosiddetta “legge sull’Olocausto” qui è entrata in vigore da una settimana tra controversie e ripercussioni internazionali: adesso chiunque associ la Polonia allo sterminio degli ebrei, chiunque definisca i campi di concentramento “polacchi” o accusi la nazione di complicità con i crimini nazisti, può finire in prigione fino a 3 anni. È l’ultima legge firmata dal presidente Duda, dopo quella del 20 dicembre scorso, una riforma che annulla l’indipendenza giudiziaria, la separazione dei poteri, cancella l’autonomia dei magistrati, permette al governo di sostituire a piacimento i giudici della Corte Suprema.
Nessun turbamento all’interno, molti all’estero: per le tensioni diplomatiche il capo del personale di Duda, Krzysztof Szczerski, volerà a Washington per incontrare un omologo al dipartimento di Stato americano. Dopo le accuse di antisemitismo israeliane, le ire di Bruxelles e il Parlamento europeo che ha votato per far entrare in vigore l’articolo 7 del Trattato di Lisbona, – l’“opzione nucleare” che toglierà a Varsavia il diritto di voto nelle istituzioni europee -, c’è la rabbia d’America. Intanto in tv nei bar c’è il premier Morawiecki che stringe la mano al presidente della Commissione europea, Juncker. Dietro di loro c’è lo sfondo blu a stelle dorate, quella bandiera che a Varsavia si vede solo sui cartelli delle opere in costruzione, finanziate da un’Unione che ai polacchi sembra piacere sempre meno.
La storia di ieri, scolpita nella pietra dei monumenti, la cronaca oggi, a cui è riservato poco inchiostro sui giornali. E un’ultima legge. Le donne della Czarny protest, la protesta nera, contro le ultime restrizioni che vieteranno completamente l’aborto, hanno marciato nero-vestite da Plac Konstituzii fino alla Sejm, la Camera bassa, con due enormi lettere: PW. La “Powstanie Warszawskie”, la rivolta di Varsavia. Non quella del 1944, quella del 2018.