Decartes
il manifesto 21.3.18
Il capitalismo e la banalità dell’algoritmo
Facebook
e Uber poco smart. Il mito dell’Intelligenza artificiale risale ai
tempi di Cartesio. Ma da anni scienziati come Damasio o Cini hanno
descritto quell’«impasto» di ragione e sentimento che è l’uomo
di Enzo Scandurra
Quello dell’Intelligenza Artificiale è un vecchio mito che sopravvive almeno dai tempi di Cartesio in poi.
La metafora del calcolatore moderno è infatti basata sulla distinzione tra corpo e mente.
Sulla
distinzione cioè tra emozione e intelletto, sentimenti e capacità
raziocinante. Secondo questo approccio riduzionista, il corpo dell’uomo,
deteriorabile e imperfetto, ospiterebbe, proprio come l’hardware di un
pc, una mente perfetta, il software, la parte nobile dell’essere umano.
Tra
le due parti non ci sarebbe alcun rapporto: una rappresenta il
contenitore, l’altra il contenuto. Peccato che l’avanzamento della
scienza abbia smentito da tempo questo luogo comune.
Già nel 1984
il neurobiologo Antonio Damasio sconfessò questo mito con il suo celebre
libro, L’errore di Cartesio, partendo dal famoso incidente capitato a
Phineas Gage, l’operaio che sopravvisse alla ferita infertagli da
un’asta metallica che gli trapassò il cranio da una parte all’altra.
GRAN
PARTE dei sentimenti umani originano da uno stato corporeo. Il rapporto
indissolubile corpo-mente è l’esito di un lungo processo evolutivo
durato milioni di anni. La scienza e la medicina occidentale, invece,
trattano separatamente i due elementi, il corpo e la mente, come fossero
indipendenti, come fossero parti separate, parti di una macchina
banale, per usare l’espressione di von Foerster che chiamava medici e
chirurghi semplici banalizzatori, al pari dei meccanici che riparano le
auto.
Una macchina è banale se è caratterizzata da una relazione
uno-a-uno tra input e output, se, dato uno stimolo A, produce sempre la
risposta B. Se fa sempre la stessa cosa, insomma. Schiaccio il pulsante,
e vien fuori l’aria calda, giro la chiave e si accende il motore.
Secondo
la (falsa) tradizione occidentale meccanicistica, l’essere umano
sarebbe più o meno una macchina banale le cui parti risultano non
connesse e pertanto sostituibili a piacere.
LE EMOZIONI o i
sentimenti influenzano le nostre capacità raziocinanti e meno male che
sia così! Quella intelligenza (semmai ci fosse) che non si fa
condizionare dai sentimenti sarebbe una intelligenza fredda, incapace di
comunicare con altri, astratta, incapace di comprendere il dolore,
l’altruismo, la solidarietà, l’amore: l’algoritmo appunto.
Diceva
Marcello Cini: «Il soggetto acquista “conoscenza” dell’oggetto di natura
diversa perché non è più soggetto esterno, ma diventa un soggetto
“interno” a un metasistema che lo comprende insieme all’oggetto, e
questo coinvolgimento induce in lui, in quanto organismo integrato di
cervello e visceri, un insieme di reazioni fisiche e mentali diverse da
quelle che provoca in lui l’esperienza di chi descrive dall’esterno in
modo che altri soggetti interagiscono con gli oggetti con i quali sono a
loro volta coinvolti attraverso esperienze emotive» (Cini, 1999). Se
fosse vera la dicotomia tra sentimenti e ragione, sarebbe una dicotomia
allucinante che genererebbe mostri. Siamo invece un «impasto» evolutivo
complesso tra capacità raziocinante e sentimenti, meschini o nobili che
siano.
Queste semplici considerazioni mi sono venute leggendo
l’articolo di Roberto Ciccarelli, Anche la-macchina-che-si-guida-sola di
Uber uccide (il manifesto del 19 marzo) che descrive l’uccisione di un
pedone che stava attraversando la strada da parte di un veicolo
autoguidato, a Tempe, periferia di Phoenix.
Ancora sopravvive il
mito che una mente infallibile basata su un algoritmo sia più sicura di
un’auto guidata da un umano, perché – dicono le ditte produttrici di
tali veicoli – una distrazione umana può causare un incidente mortale.
QUESTO
FALLACE MITO è mantenuto in vita dalle grandi Corporation per battere
la concorrenza degli avversari e mantenere alti i profitti. In quello
che è il suo ultimo libro (Il supermarket di Prometeo, la scienza
nell’era dell’economia della conoscenza, Codice edizioni, 2006),
Marcello Cini si occupava di questo tema a lui caro, affermando che: «Il
XXI secolo si sta sempre più caratterizzando come l’epoca in cui,
grazie agli strumenti forniti dalla scienza e dalla tecnologia, la
produzione e la distribuzione di beni materiali viene progressivamente
sostituita dalla produzione e dalla distribuzione di un bene collettivo e
non tangibile: la conoscenza, sia essa l’ultima frontiera della ricerca
piuttosto che l’intrattenimento di massa. Tutto questo in nome di una
presunta democratizzazione del sapere che però risponde ed è soggetta
unicamente alle leggi di mercato imposte da un’economia capitalistica e
sempre più invasiva. Ma c’è una contraddizione profonda fra la
produzione di conoscenza frutto al tempo stesso di una creatività e del
patrimonio culturale comune all’umanità intera attraverso un processo
evolutivo non finalistico, e la crescita dell’economia che è finalizzata
alla produzione di profitto».