domenica 4 marzo 2018

DAL DOMENICALE DEL SOLE  DEL 4 MARZO:

Il Sole Domenica 4.3.18
Templari, da cavalieri a banchieri
A 900 anni dalla probabile fondazione, occorre dissipare miti e leggende che circondano l’Ordine del Tempio, nato per tutelare i pellegrini in Terra Santa e poi trasformatosi in Europa in impresa finanziaria. E questa fu la sua rovina
di Maria Bettetini


Henry Walton Jones junior, più noto come Indiana, incontra l’ultimo dei Templari a custodia del Sacro Graal, nel corso dell’ Ultima crociata (1989). I Templari non custodivano alcun Graal, né potevano sopravvivere settecento anni in attesa di Indiana Jones: questa è una delle più innocenti riprese del “neo-templarismo”, di quella passione per l’Ordine del Tempio, che non è durato nemmeno due secoli ma infiamma ancora leggende e credenze. Quest’anno si compiono novecento anni dalla probabile data di fondazione dell’Ordine, almeno dal momento in cui un gruppo di religiosi, a Gerusalemme, ha ricevuto dal re latino Baldovino II la moschea di al-Aqsa, a sua volta costruita dove si trovava il tempio di Salomone. Si mescolano tante culture e problematiche già nel sorgere dei Templari, è il momento di cercare un poco di chiarezza.
I materiali non mancano, diversi studiosi, soprattutto italiani, hanno dedicato studi sia specialistici che divulgativi, scoprendo anche recentemente nuovi documenti (vedi box qui sotto). Il tempo è quello della prima crociata, 1096-99, l’unica coronata dal successo, da cui si originò il regno latino di Gerusalemme. La vittoria degli occidentali fu permessa anche dalla rivalità tra i due califfi del Cairo e di Baghdad, uno sciita e l’altro sunnita, oltre che dall’entusiasmo di circa diecimila cristiani decisi a purificarsi dai peccati con la morte propria o del nemico, il risultato era sempre positivo chiunque morisse. Pochi, abbienti, conquistarono in senso proprio quelle terre di Palestina, la maggior parte dei sopravvissuti tornò in Europa. A custodire la Terra Santa rimasero sparuti gruppi di cavalieri: gli Ospitalieri di San Giovanni (oggi il Sovrano Militare Ordine di Malta), dediti ai poveri e ai malati, e il gruppo riunito da Ugo de Paganis o Payens, i Templari. Per spiegarne il nome, si deve ricordare che la poca dimestichezza con le Scritture aveva portato i Crociati a individuare nelle due moschee della spianata il luogo dei due templi, quello di Salomone e quello, detto Templum Domini, poi ricostruito nel primo secolo a.C. e frequentato dallo stesso Cristo. Naturalmente i due siti avrebbero dovuto sovrapporsi, ma così piacque ai latini e al loro re, che consegnò a Ugo la grande moschea “salomonica” (quella con la cupola argentea, per capirci). Lì si organizzarono i cavalieri, che esprimevano voti perenni di castità, povertà, obbedienza, nonché di lotta contro i nemici di Dio e conducevano vita comune come tutti i monaci. Alcuni, pochi, erano chierici, la maggior parte laici, divisi in milites e “sergenti”, si facevano chiamare pauperes milites Christi et Salomonici Templi, il loro fine era difendere i pellegrini che visitavano i luoghi santi.
Indubbiamente l’Ordine, che il 23 gennaio 1120 fu riconosciuto ufficialmente, sembrava ricco di contraddizioni: i templari erano poveri personalmente, ma divennero presto molto ricchi come istituzione, grazie a lasciti testamentari e donazioni. Vivevano la carità cristiana, ma si impegnavano a combattere senza pietà il nemico. Due abili mosse che noi oggi diremmo mass-mediologiche consentirono la diffusione e la sopravvivenza dei milites. La prima fu l’adesione di qualche importante nobile, come per esempio Ugo conte di Champagne, una sorta di garanzia della bontà dell’impresa. La seconda, geniale, fu la laude di Bernardo di Chiaravalle, inflessibile coscienza dottrinale e mistica del dodicesimo secolo. Bernardo trasportò il senso dell’Ordine sul piano allegorico: così come Nazareth e Betlemme sono da intendersi come luoghi di nascita e rinascita dell’anima, allo stesso modo i Templari avrebbero combattuto contro uomini che erano figure del male. Nell’uccidere un infedele, avrebbero colpito il Male assoluto. Le parole di Bernardo aprirono le porte dei Templari a moltissime adesioni, anche quando l’Islam riprese Gerusalemme e l’Ordine dovette trasferirsi ad Acri, per poi spostarsi a Cipro (perché le successive Crociate non andarono tanto bene, e alla fine del XIII secolo ormai il regno latino non esisteva più). In Europa avevano decine di chiese e castelli, preferiti ai conventi perché più adatti a dei cavalieri.
Ma che cosa facevano i Templari lontani dalla Terra Santa? Da dove, tra l’altro, a loro non conveniva farsi trovare, perché come prigionieri non valevano nulla agli occhi per esempio del Saladino: nessuno avrebbe pagato un riscatto per loro, mai avrebbero smesso di combattere per la loro fede, tanto valeva ucciderli, come accadde dopo la battaglia di Hattin, nel 1187, quando i soldati musulmani furono invitati a decapitarli, e alcuni si mostrarono più abili di altri. Quindi, tutti in Europa. A fare i contadini, ma anche ad affittare terre e immobili, e soprattutto a fare i banchieri. Furono i primi in assoluto: avendo case dappertutto, consentivano di trasportare denaro senza in verità spostare casse di oro e d’argento, con tutti i rischi che ogni viaggio comportava. Le casse dell’Ordine versavano il dovuto al posto del committente, iniziando quella virtualizzazione del denaro che oggi si è compiuta nel mondo della finanza. Gli interessi, proibiti dalla Chiesa, erano camuffati nel cambio delle valute, anche il re di Francia affidò il suo tesoro ai Templari, che ormai non combattevano più (non potevano attaccare i cristiani, nemmeno se Catari, come gli Albigesi) e si occupavano della gestione degli ingenti beni. Essere sepolti in una chiesa dei Templari era una sorta di garanzia, con una buona donazione ci si garantiva preghiere per la salvezza della propria anima. Quanto a queste chiese, poi, anche se costruite e non soltanto prese in consegna dai Templari, bisogna che si sfati ogni invenzione sulla simbologia. Tutte le storie riportate, per esempio, nel Codice da Vinci oltre che in infiniti altri romanzi di dubbio valore, sono invenzioni posteriori, di chi ha voluto forzosamente connettere Pitagora e la massoneria, i Templari e i Catari, l’Orfismo e la Carboneria e così in avanti. Attrae, sicuramente, pensare di poter organizzare tutta la storia dell’umanità tramite segni e simboli e comportamenti, ma per fortuna ogni vita e ogni storia è talmente complessa da sfuggire a ogni schema.
Certo, i Templari faticavano a essere compresi, già ai loro tempi. Non erano riusciti, come cavalieri, a tenersi la Terra Santa, l’Islam li aveva schiacciati e costretti a tornare a casa, dove in pratica gestivano ricchezze, altro che vita monacale, si poteva pensare. Magari invece vivevano la loro povertà, castità, obbedienza in prima persona e si limitavano a spostare denari altrui e governare i beni dell’Ordine. Ma l’impressione era negativa, e alcuni fatti contribuirono a renderla pessima. Uno era stato il loro rifiuto a battezzare e liberare i prigionieri che avessero voluto convertirsi: non volevano perdere manodopera gratuita. Un altro, anni dopo, coincise con l’inizio della “cattività avignonese” del papato. Un priore templare, Esquieu de Floyran, accusò, davanti a Giacomo II di Aragona, i confratelli di eresia, idolatria, sodomia (anche su questo personaggio ci sono romanzi, e in effetti la figura è inquietante). Ottenne denaro, la cosa sembrò finire lì, ma invece fu l’inizio della fine, perché Filippo IV detto il Bello, re di Francia, mise al lavoro contro i Templari il temibile Guglielmo di Nogaret, già responsabile dello “schiaffo di Anagni” e già pronto con una serie di accuse confezionate, in precedenza rivolte a Bonifacio VIII, poi usate contro l’Ordine. I fatti si susseguono ora come in un film di spionaggio e controspionaggio. Il papa Clemente V, da Avignone, quindi in balìa del re di Francia, promuove un’inchiesta. Filippo sa che l’indagine potrebbe essere condotta onestamente e quindi scagionare i Templari dalle accuse, che diventano sempre più concrete: i novizi sarebbero accolti con atti osceni, si adorerebbe Baphometto (storpiatura del Profeta Maometto), nonché gatti e teste con tre facce, si sputerebbe sulla croce, si eserciterebbe la sodomia con metodo, per fuggire alla corruzione del corpo femminile eccetera. In segreto Filippo organizza una vera e propria retata, il 13 ottobre del 1307, catturando tutti i Templari in terra di Francia. Il resto è presto detto: interrogatori, torture, quasi tutti confessano i reati di cui sono accusati.
Ma perché? C’è chi dice che forse qualche deviato c’era. Chi sottolinea magari il senso goliardico di scherzi coi novizi. L’unica certezza è che i beni dei Templari, lungi dall’andare alla Chiesa, come richiesto da un papa privo di autorevolezza, vanno a Filippo. Nel 1312 l’Ordine non fu condannato ma sciolto, i Templari superstiti destinati all’ergastolo. E qui ci fu il colpo d’ala: la pena di morte era prevista solo per i relapsi, coloro che ritrattavano dopo aver confessato. Il gran Maestro Giacomo di Molay e il precettore di Normandia Goffredo di Charnay ritrattarono e furono condannati al rogo subito, sulla riva destra della Senna, davanti ai giardini del Louvre. Era il 18 marzo 1314. Dopo un paio di secoli di relativo silenzio, queste morti e tutta la vicenda divennero leggendarie. Si dice che il boia che decapitò Luigi XVI, nel 1793, gli abbia sussurrato di agire per conto di Giacomo di Molay. Il quale, tra l’altro, si dice che avrebbe maledetto sul rogo il Papa e il Re: entrambi morirono entro l’anno, nonostante l’età relativamente giovane. Si dice anche che l’Ordine del Tempio non sia mai stato interrotto, che siano sempre vissuti Gran Maestri segreti, che la massoneria ne sia il prosieguo, in ossequio di una Chiesa giovannea e non più petrina, fondata sui segreti consegnati a Giovanni (ma non era la Maddalena la figura coi capelli lunghi del Cenacolo di Leonardo?) piuttosto che sull’autorità di Pietro. Templi (come quello che nel 1994 decretò la morte di 53 seguaci del Tempio del Sole), Maestri (come i nuovi nobili fatti da Napoleone o quelli delle logge segrete), Indiana Jones non si stupisce di niente, trova il Graal e dà il via a un’altra messe di cavalieri, eroi, segreti, e pazienza per la Storia.

Il Sole Domenica 4.3.18
Medioevo
Così fiorirono le Università
«Le metamorfosi» di Antonino Liberale
Dèi invidiosi degli uomini
di Carlo Carena


L’Olimpo era un’eletta accolta di esseri divini e di canaglie, una corte e un lupanare, un prontuario per tragedie sublimi e per commedie pornografiche, un museo di bellezze e un giardino zoologico di mostri. Walter Otto ha un bel accusare del nostro scandalo l’ordine e la convenienza dei borghesi: se ne scandalizzavano anche già Senofane e Platone, e se ne sdegnerà Chateaubriand. In ogni caso, materiale per poeti più che per teologi.
Quando, nell’età degli Antonini o dei Severi, nel II o III secolo, un certo Antonino Liberale si mise a sfogliare le storie dei miti composte da scrittori greci precedenti, ne trovò di tutti i colori, e scelse i miti relativi a metamorfosi di dèi e di uomini. Chi fosse a sua volta questo Antonino, ci è assolutamente ignoto. Non conosceremmo nemmeno l’opera che egli ne ricavò e scrisse in greco, Raccolta di metamorfosi, se non ne fosse sopravvissuta un’unica copia in un manoscritto del IX secolo giunto in Europa da Costantinopoli e finito nelle Biblioteca Universitaria di Heidelberg. Lì l’operetta di Antonino aveva ha trovato posto accanto ad altre rassegne di mirabilia, Le Sette meraviglie di Filone di Bisanzio, Il libro delle meraviglie di Flegonte di Tralle; e quanto a meraviglie orride o elegiache non è da meno degli altri due. Dèi e uomini vi si mescolano in peripezie frenetiche. con i propositi più virtuosi o più nefandi. Le trasformazioni interrompono un cammino, sono esiti di deviazioni dalla sorte o di eccessi e trasgressioni delle loro vittime, ignare del potere e dei capricci di chi le sovrasta. Raramente mutano in meglio, più spesso sono atroci e ignominiose.
Perifante regnava in Attica con tale giustizia, pietà e devozione da essere venerato dai suoi sudditi con onori pari a quelli tributati ai numi. Fu un bel guaio: Zeus, indispettito, si apprestava a fulminarlo quando Apollo intercesse per lui e Zeus accettò di non rovinarlo del tutto. Giunse a casa sua mentre Perifante era a letto beatamente con la moglie: lo afferrò e lo fece diventare un’aquila, “il re di tutti gli uccelli”, che si posa sul suo stesso trono; poi su preghiera della moglie trasformò in uccello pure lei.
Anche Ierace era un uomo giusto che abitava in Bitinia, e anch’egli fu vittima della gelosia di un nume, Poseidone, perché soccorse i Teucri da lui invece perseguitati. Venne mutato in falco, e così il perfido dio del mare lo rese anche odioso mutandone il carattere oltreché l’aspetto: «Colui che era stato amatissimo dagli uomini fu odiato dagli stessi uccelli, e colui che aveva salvato moltissimi uomini dalla morte divenne un uccisore di uccelli».
I volatili furono la sorte finale anche di un altro sant’uomo, un proprietario terriero nei pressi di Babilonia, Clini, benvoluto da Apollo e Diana. Avendo visto durante un pellegrinaggio che gli Iperborei sacrificavano asini ad Apollo, tralasciò i sacrifici di capre e buoi e gli offerse asini. Il dio si adirò e gli intimò di smettere e riprendere l’antica usanza. Non esaudito, fece infuriare gli asini ed essi divorarono figli, servi e Clini stesso. Ma Poseidone li mutò tutti in varie specie di uccelli, chi in un corvo bianco, chi in una cinciallegra, chi in un rapace…
Cerambo era nipote di Poseidone stesso e di una Ninfa. Pascolava le sue molte greggi sui monti suonando bucolicamente uno strumento musicale di sua invenzione, la lira. Perciò le Ninfe gli apparvero e si posero a danzare intorno a lui. Anziché venerarle e godersi lo spettacolo, Cerambo le insultò. Sopraggiunse un inverno freddo, gelarono i torrenti e i prati si coprirono di neve, e Cerambo fu mutato in un miserabile tarlo del legno, nero e con i denti ricurvi; «i fanciulli gli giocano intorno e, dopo avergli tagliato la testa, che, con le sue corna, somiglia alla lira, se la mettono indosso».
Una nota di alta elegia risuona solo nel racconto di Ila, il giovane amato da Eracle e suo compagno nella spedizione degli Argonauti. Durante un approdo nell’Ellesponto egli andò con una brocca ad attingere acqua in un fiume. Lì lo scorsero le Ninfe figlie del fiume, se ne innamorarono vedendolo bello com’era, anzi fiammeggiante di bellezza e di grazie soavi al lume della luna piena che lo guardava dal cielo, come racconta Apollonio Rodio nelle Argonautiche; perciò se lo trascinarono sotto i flutti. Eracle non si diede pace e vagò urlando e facendo risuonare il suo nome fra i boschi; le Ninfe timorose di essere scoperte trasformarono Ila in un’eco. Quando dovette salpare con gli altri eroi, Eracle lasciò Polifemo a continuare le ricerche; inutilmente, «e ancora oggi gli abitanti del luogo sacrificano a Ila presso la fonte e il sacerdote lo chiama tre volte per nome, e per tre volte gli risponde un’eco».
Forniti degli strumenti letterari e filologici, Tommaso Braccini e Sonia Macrì affrontano ora l’operetta di Antonino Liberale percorrendo il labirinto delle sue 41 istoriette in 103 pagine di traduzione, 27 di introduzione e 280 di note. Ultimi di non pochi che si cimentarono sul testo, a partire dalla prima edizione di Basilea del 1568 e fino a quella recente delle Belles Lettres, e dei molti che procurarono versioni in lingue moderne.
Antonino Liberale, Le metamorfosi , a cura di Tommaso Braccini e Sonia Macrì, Adelphi, Milano, pagg. 420, € 18

Il Sole Domenica 4.3.18
Firenze
Il tesoro di Alessandro
Il catalogo generale e la sistemazione definitiva agli Uffizi della collezione del grande antiquario Contini Bonacossi
di Antonio Paolucci


La collezione Contini Bonacossi, dopo due allestimenti provvisori, prima alla Meridiana di Pitti, poi in una zona marginale del complesso vasariano degli Uffizi, ha la sua definitiva e finalmente degna sistemazione in una serie di vani ricavati nell’ala di Ponente della Galleria. In occasione della “vernice” di questa importante addizione alle raccolte del massimo museo fiorentino (il 28 febbraio scorso) è stato presentato il catalogo della Contini Bonacossi, edito da Giunti per le cure redazionali di Claudio Pescio. Si tratta di un libro concepito e avviato una quindicina di anni or sono dalla mia collega e amica Caterina Caneva. A seguito della sua prematura scomparsa, il volume è stato sviluppato, integrato e portato a conclusione da un gruppo di storici dell’arte che hanno condotto lo scrutinio scientifico per le centoquarantaquattro opere d’arte (dipinti e sculture ma anche mobili, arredi e maioliche) che costituiscono la collezione.
In genere si parla di donazione Contini Bonacossi. Il termine che figura nei documenti ufficiali, richiede però una precisazione perché la donazione è stata il frutto di una convenzione o piuttosto di una transazione intervenuta fra gli eredi di quella straordinaria raccolta d’arte e lo Stato. La convezione che una commissione ministeriale appositamente nominata aveva negoziato con gli eredi (ne facevano parte i più bei nomi della storia dell’arte italiana, da Mario Salmi e Roberto Longhi, da Giuseppe Fiocco a Giorgio Castelfranco a Ugo Procacci) porta la data dell’8 marzo 1969. Il 22 maggio di quello stesso anno un decreto del Presidente della Repubblica che era, all’epoca, Giuseppe Saragat, formalizzava l’operazione. Che può essere così sintetizzata: gli eredi Contini Bonacossi donavano allo Stato con destinazione Uffizi, centoquarantaquattro pezzi. Ottenevano in cambio la libera esportazione per tutto il resto.
Mario Salmi poteva ben scrivere che «la scelta della commissione pur costretta per poter giungere in porto, ad alcune dolorose rinunce, fu concorde e basata sul criterio di assicurare alla città opere notevoli di arte fiorentina ed altre, atte a colmare alcune importanti lacune nella Galleria fiorentina». Ed era pur vero che si trattava della acquisizione «più rilevante degli ultimi tempi, nel nostro Paese». Avere portato agli Uffizi capolavori assoluti come l’affresco staccato di Andrea del Castagno proveniente dal castello del Trebbio e raffigurante la Vergine in trono fra santi e fanciulli della famiglia Pazzi, come la mirabile macchina d’altare del Sassetta conosciuta come Madonna delle nevi, come il San Girolamo nel deserto del Giambellino, un’opera dal livello qualitativo tale da ammettere in confronto solo con il San Francesco stigmatizzato della Frick di New York, come la Sacra conversazione del Bramantino o la Maddalena del Savoldo o il Giuseppe da Porto di Paolo Veronese, avere consegnato alle pubbliche collezioni opere di questo valore (come dimenticare, fra le altre, il San Lorenzo martirizzato del Bernini o la Serva che lava i piatti di Giuseppe Maria Crespi?) poteva essere legittimamente considerato, nel suo complesso, l’arricchimento storico artistico più importante del Novecento.
Dolorose però erano anche le rinunce che i commissari ritennero di dover accettare. Erano rinunce che si chiamavano Giambellino e Savoldo, Carpaccio, Zurbaran, Maestro della Santa Cecilia. Chi si chiamavano Piero della Francesca. Penso al Ritratto di profilo di Sigismondo Malatesta che, uscito dall’Italia, è oggi al Louvre.
Erano rinunce a tal punto dolorose da scatenare vivaci polemiche sulla stampa oltre che le attenzioni della magistratura fiorentina. Eppure il DPR 22/5/69 non lasciava scampo. La commissione di esportazione (io all’epoca giovane funzionario alla Soprintendenza fiorentina ne facevo parte) non aveva alternative: o concedeva il visto all’espatrio oppure proponeva al Ministero l’esercizio del diritto di prelazione. Sapendo bene tuttavia che le risorse finanziarie sul capitolo acquisti, erano all’epoca pressoché inesistenti.
Una sola volta l’Amministrazione riuscì ad esercitare il diritto di prelazione. Era l’estate del 1975 e vennero presentati all’Ufficio Esportazione di Firenze la Susanna e i vecchioni di Lorenzo Lotto e la Madonna col Bambino del Foppa. Il valore dichiarato per i due dipinti presentati insieme, era di 750 milioni di lire: 500 per il Lotto, 250 per il Foppa. 750 milioni erano una cifra imponente nel 1975: con quei soldi, sulla piazza di Firenze, si potevano comprare almeno quindici appartamenti di dimensioni medio-grandi e di nuova costruzione. Io e il collega Luciano Bellosi riuscimmo a convincere il Soprintendente Berti a mandare avanti la proposta di acquisto che noi avevamo istruito. L’obiettivo era arduo, quasi disperato. Il neonato Ministero spadoliniano sembrava non disporre di una cifra così cospicua. Fu una telefonata di Giulio Carlo Argan a sbloccare la situazione. Dobbiamo a lui se quei due capolavori non sono oggi in qualche museo americano.
Lo zelo dei magistrati fiorentini non riuscì a fermare (non poteva farlo) l’espatrio di capolavori e non arricchì di un solo numero di catalogo le pubbliche collezioni.
Ci riuscì invece e fu un arricchimento cospicuo di ben diciotto dipinti poi ridistribuiti fra le Gallerie dell’Accademia di Venezia e gli Uffizi (ai quali toccò, fra gli altri, la Madonna dell’Umiltà di Masolino, uno dei vertici sommi del Gotico Internazionale italiano) ci riuscì, dicevo, l’attività diplomatico-poliziesca di Rodolfo Siviero. Perché la guerra nazista con le sue speculazioni e i suoi traffici, aveva toccato anche Villa Vittoria a Firenze, sede all’epoca della collezione e della attività mercantile di Alessandro Contini Bonacossi. Un consistente gruppo di opere d’arte, nei primi anni Quaranta dello scorso secolo, era finito in Germania; in parte a seguito di requisizioni e transazioni commerciali non meglio precisabili, per la parte maggiore per effetto di vendite documentate (e almeno formalmente legittime) al maresciallo del Reich Hermann Goering. Tutte (accordo di Bonn del 1953) furono restituite all’Italia e acquisite al patrimonio pubblico.
Altri dipinti Contini Bonacossi rimasti in proprietà agli eredi o transitati sul mercato, sono riuscito a farli comprare io, in anni più recenti, quando ero Soprintendente al Polo Museale fiorentino. Riguadano: il Cristo risorto attribuito a Tiziano e il Doppio ritratto di Palma il Vecchio (anno Duemila, costo di entrambi 2 miliardi di lire) e poi la Santa monaca e due fanciulli di Paolo Uccello (novembre 2001, costo 2 milioni di euro). Naturalmente i dipinti così acquisiti al patrimonio pubblico non fanno parte della collezione Contini Bonacossi selezionata in forza del DPR 22/5/69 ed ora esposta nell’ala di Ponente degli Uffizi, ma hanno trovato posto in altre sale della Galleria.
L’inaugurazione della Contini Bonacossi ci permette di riconsiderare la personalità di Alessandro Contini Bonacossi che è stato e resta, comunque lo si consideri, un grande protagonista del Novecento nel collezionismo d’arte e nel mercato.
Era un uomo di corporatura imponente e come posseduto da una energia vitale che ai contemporanei sembrava inesauribile. I suoi primi interessi mercantili e collezionistici sono per la filatelia. In questo settore inaugurò fortunate attività in Spagna, prima a Barcellona poi a Madrid. Tornato in Italia prese residenza a Roma, all’indirizzo di Via Nomentana 60, accanto a Villa Torlonia. Ormai Alessandro è lanciato nell’antiquariato di alta epoca. Frequenta Berenson, Lionello Venturi, Gustavo Frizzoni e soprattutto il giovane Longhi. Ecco la descrizione che del grande critico diede un testimone oculare, la ritrattista Leonetta Pieraccini presente a un ricevimento del 1923 in casa Contini: «Un po’ più in là si profila la testa corvina di Roberto Longhi con gli occhi miopi socchiusi apparentemente distratti, invece attenti e pungentissimi».
Sono questi, i Venti e i Trenta dello scorso secolo, gli anni ruggenti del grande antiquario che ha accanto a sostenerlo negli affari, a consigliarlo negli acquisti e nelle vendite la amatissima moglie Erminia Vittoria Galli, piccola modista conosciuta a Milano, figlia di poveri braccianti delle campagne cremonesi, più vecchia di lui di otto anni e già madre di una bambina al momento del matrimonio.
Sono gli anni dei frequenti viaggi in America – almeno uno all’anno – sul Rex o sul Conte Biancamano, dei lunghi soggiorni al Pierre o al Plaza di New York, dei grandi affari condotti con Joseph Duveen o con il finanziere Samuel Henri Kress. Si calcola che fra il ’27 e il ’32, Contini abbia ceduto a Kress ben quattrocento dipinti.
Alessandro Contini Bonacossi è fascista, il regime lo gratifica di titoli onorifici e quando, da Roma si trasferisce a Firenze allestendo e riempiendo di opere d’arte Villa Vittoria, è all’apice del successo e della considerazione; quest’ultima un poco offuscata dagli affari con Goering ai quali prima accennavo e dalla accusa di collaborazionismo, presto archiviata, subita nel dopoguerra. Morì a 77 anni nel 1955. Il resto è la storia della sua eredità, oggi finalmente visibile agli Uffizi.
Aa. Vv., La collezione Contini Bonacossi nelle Gallerie degli Uffizi , Giunti,
Firenze, pagg. 336, € 38

Il Sole Domenica 4.3.18
Pensieri agitati
Libertini: istruzioni per l’uso
di Armando Torno


Un’opera anonima del Seicento, il Theophrastus redivivus, riferimento per la cultura libertina, ebbe una prima edizione critica in due volumi nel 1981, presso l’ormai scomparsa casa editrice La Nuova Italia. Guido Canziani e Gianni Paganini furono i curatori. Basarono il loro lavoro su quattro manoscritti di cui si conosceva l’esistenza, conservati a Vienna, Parigi e Lennik (Belgio). Un paio d’anni più tardi, Franco Angeli ristampava i tomi e, nemmeno in tal caso, fu prevista una traduzione. Fece conoscere in Italia quest’opera nel 1979 Tullio Gregory, rivolgendosi anche ai non specialisti, con un saggio uscito da Morano: Theophrastus redivivus. Erudizione e ateismo nel Seicento. Non si creda che il testo libertino sia ora facilmente reperibile: il primo volume è esaurito da diversi anni e il secondo (nel sito di Franco Angeli) ha una disponibilità limitatissima. Il saggio di Gregory è trovabile soltanto in antiquariato.
Da qualche mese, nella redazione dell’editore Honoré Champion di Parigi, si parla di una traduzione del Theophrastus redivivus in francese. Lo scopo è semplice: offrire al vasto pubblico, ormai incapace di leggere e capire un testo latino (compresi studenti universitari e gran parte dei professori), un libro di rilievo della filosofia moderna. La lettura radicalmente immanentistica del pensiero peripatetico forse susciterà spallucce; tuttavia, la critica della religione e la ridefinizione mondana della saggezza, i due pilastri dell’opera, potrebbero aiutare a meglio comprendere il cosiddetto pensiero laico. Il quale, dopo il crollo delle ideologie sembra annaspare, sempre più smarrito in battaglie di retroguardia. La rivendicazione di un’anticonformistica libertà di giudizio, presente nel Theophrastus redivivus, sarebbe inoltre auspicabile anche per la politica (o per i suoi resti).
L’occasione per parlare di questo trattato libertino la offre un volume edito ancora da Honoré Champion, nel quale sono raccolti saggi su filosofia e libero pensiero nei secoli XVII e XVIII (curatori: Lorenzo Bianchi, Nicole Gengoux e Gianni Paganini). Tra l’altro, in esso si confronta Pascal con l’autore ricordato e, per le concezioni religiose, Hobbes con Montaigne. Non manca Mersenne, celebre per un computo paradossale: affermò che a Parigi vi erano 50mila atei (non si conosce però la fonte della stima in una città che allora non raggiungeva i 400mila abitanti). Un saggio di Oreste Trabucco è dedicato a Fortunio Liceti, un aristotelico che ebbe rapporti, tra i molti, con Naudé e Galileo; anzi, con quest’ultimo diede vita a una corrispondenza. Il saggio di Maurizio Torrini è dedicato a le Lettere sugli atei di Magalotti, definito a suo tempo da Paolo Casini un «acrobata sul filo assai sottile dell’ironia e dell’empietà». Scrisse sempre temendo una denuncia al Sant’Uffizio. La raccolta si spinge sino a Kant, occupandosi tra l’altro di Diderot, Holbach, Montesquieu, Leibniz, Descartes e naturalmente del ricordato Theophrastus.
È ben presente un avversario come il gesuita François Garasse, autore de La doctrine curieuse des beaux esprits de ce temps. Era talmente inferocito contro ugonotti, gallicani e libertini che la Compagnia dovette trasferirlo da Parigi a Poitiers. Tra i nemici del focoso padre, ecco il curato ateo Jean Meslier: è citato nel saggio di Hubert Bost su Bayle. Autore del Testament, che vedrà la luce integralmente ad Amsterdam a cura di una società di atei nel 1864, opera cara a Marx e presente nella biblioteca di Stalin, Meslier è leggibile ora soltanto online (nel sito “Gallica”). Diventato imbarazzante anche per un certo pensiero di sinistra, desiderava - politicamente scorrettissimo - strozzare l’ultimo re con le budella dell’ultimo prete. In originale: «Je voudrais, et ce sera le dernier et le plus ardent de mes souhaits, je voudrais que le dernier des rois fût étranglé avec les boyaux du dernier prêtre».
Aa. Vv, Philosophie et libre pensée. Philosophy and Free Thought. XVII et XVIII siècles , Honoré Champion, Parigi, pagg. 582, € 90

Il Sole Domenica 4.3.18
Umanesimo
Disincanto e furore
Due libri testimoniano il riacceso interesse per una lunga epoca della civiltà italiana, storicamente segnata da una crisi profonda
di Michele Ciliberto


Si è riacceso l’interesse negli ultimi anni intorno all’umanesimo. Non c’è da meravigliarsi: si torna a parlarne quando si riapre il problema del destino dell’uomo. Negli anni Trenta del Novecento i grandi pensatori dell’umanesimo tornarono di moda, e furono chiamati a dire una parola capace di illuminare un mondo che, dopo aver attraversato le tenebre dei regimi totalitari e delle leggi razziali, stava per sprofondare nell’abisso della seconda guerra mondiale. Fu allora che l’Oratio di Pico, fu presentata, come il Manifesto dell’umanesimo, e la rappresentazione più alta di un’immagine dell’uomo capace di proiettarsi, oltre l’animalità, verso un destino più alto, divino.
Ma come accadde allora, anche oggi, alle dichiarazioni di carattere ideale, si accompagnano ricerche di carattere storico assai innovative. Per alcuni secoli è prevalsa una visione dell’umanesimo come «aurora» del sole illuministico, e poi come «genesi» della civiltà moderna; e in questo quadro si è insistito sui caratteri di armonia, di equilibrio, di serenità che avrebbero contraddistinto quella età.
Oggi, le cose stanno cambiando in modo profondo, e dai testi – letti senza pregiudizi – appaiono i tratti di una lunga epoca della civiltà italiana, distinta, sul piano storico, da una crisi profonda che avrebbe cambiato la funzione, e il significato, dell’Italia nel mondo; e segnata sul piano ideale da una costante tensione tra «disincanto» e «furore», tra uno sguardo crudele sulla realtà ed una inesauribile capacità di visione di mondi nuovi, di nuove immagini dell’uomo, della natura e della storia.
Ci sono varie opere che spiccano in questa nuova, e ricca stagione di studi. Mi limito a citarne due: la raccolta di testi degli Umanisti italiani curata da Raphael Ebgi e introdotta da un bel saggio di Massimo Cacciari, in cui è proposta un’immagine dell’Umanesimo che ne sottolinea gli aspetti tragici, puntando su autori come Alberti e Valla. E, in questi giorni, una nuova traduzione dell’opera più importante di Giannozzo Manetti - uno dei principali esponenti dell’umanesimo della prima metà del Quattrocento: scolaro del Traversari; profondo conoscitore del greco, del latino ed anche dell’ebraico; vicino ad Aristotele, di cui apprezza l’Etica, fino al punto da metterla accanto agli altri due libri più amati: le Epistole di Paolo, il De civitate Dei di Agostino.
L’opera più importante del Manetti, eloquente fin dal titolo, è il De dignitate et excellentia hominis, che – lo racconta Vespasiano da Bisticci nella Vita che gli dedica – «nacque … da una domanda che gli fece un dì il re Alfonso. Dopo più disputationi che avevano avute della dignità dell’uomo, domandollo quale fosse il suo proprio uficio dell’uomo, rispose: Agere et intelligere».
Con questo testo Manetti ha dato un contributo decisivo alla costituzione della «ideologia umanistica», fondata sul primato dell’uomo e la glorificazione della sua dignitas, testimoniata dalla natura della sua anima immortale: anima che non proviene «come i corpi dai genitori in trasmissione [ex traduce] per usare un termine teologico, come ritenevano erroneamente alcuni eretici e un certo Apollonio, ma – ribadisce Manetti – pensiamo che essa sia stata creata dal nulla, di modo che non si possa in alcuna maniera avere dubbi o incertezze su di Lui», su Dio. Perché, come ricorda ancora Vespasiano da Bisticci, Manetti «usava dire che la fede nostra non si debbe chiamare fede, ma certezza…». È comprensibile che in un’opera di questo genere siano presenti, attraverso Lattanzio, anche motivi ermetici: «E anche Ermete, per la sua eminenza soprannominato Trismegisto, che in greco significa Mercurio il tre volte grandissimo, «non ignorò che l’uomo fosse stato fatto da Dio a sua somiglianza», giacché non temé di chiamare la forma umana teoide [teoeides], cioè simile a Dio».
Tutta l’opera di Manetti vuole essere una celebrazione dell’uomo, della sua intelligenza, della sua forza testimoniata da ciò che ha fatto e da quello di cui restano le tracce: «Quelle maestose e celeberrime piramidi egizie e anche quell’altissima torre dalla forma piramidale che si vede a Roma» o «la grande, anzi grandissima cupola del Duomo di Firenze» edificata «senza alcun aiuto di travi di legno o di ferro», da Filippo detto il Brunelleschi, «senza dubbio il primo degli architetti della nostra epoca». Tutto ciò è opera dell’uomo: «…Sono nostre le pitture, nostre le sculture, nostre sono le arti, le dottrine, le scienze… sono nostre tutte le invenzioni…». Destino degli uomini, «che dominano su tutti e abitano sulla terra», è perciò governare e reggere il mondo, perché intendere e agire è il loro compito: intelligere et agere.
Il De dignitate et excellentia hominis è un’opera che si muove in una prospettiva assai differente da quella delineata nel volume sugli Umanisti italiani sopra citato, e assai distante dall’orizzonte in cui essi si situano. Una volta Eugenio Garin ebbe a dire, con una espressione assai efficace, che Alberti aveva scritto la parodia dell’Oratio di Pico prima che fosse scritta; lo stesso – fatte le debite differenze, anche temporali – si potrebbe dire per il testo di Manetti, che sviluppa temi e motivi che, a un livello certo più alto, confluiscono poi nel testo di Pico.
Oltre che per il suo valore intrinseco, il De excellentia et dignitate hominis è però importante anche per la notevole funzione svolta negli studi sull’Umanesimo nel Novecento e, in modo particolare, in quella interpretazione dell’umanesimo che va sotto il nome di «umanesimo civile», che ha valorizzato la dimensione civile, mondana, della cultura e della esperienza umana , privilegiando la «vita attiva» rispetto a quella «contemplativa». Una interpretazione che ha dominato a lungo gli studi umanistici, ad opera anzitutto di Hans Baron e di Eugenio Garin.
Disporre di una nuova traduzione dell’opera di Manetti, su un testo affidabile, è dunque utile in due sensi: per rileggere un’opera degna di attenzione e per fare i conti con una delle principali interpretazioni dell’Umanesimo nel XX secolo, lungamente influente anche nel nostro paese. Certo, oggi, questa interpretazione è lontana da noi, ma il testo di Manetti, insieme a quelli raccolti da Ebgi e Cacciari, contribuisce a mostrare, in presa diretta, come la cultura umanistica sia stata attraversata da linee e tendenze diverse, anche opposte, da recuperare oggi proprio nella loro diversità.
È dunque merito di Giuseppe Marcellino – uno dei migliori studiosi della nuova generazione – e di Stefano Baldassarri, aver rimesso in circolazione un testo importante.
Giannozzo Manetti,Dignità ed eccellenza dell’uomo , a cura di Giuseppe Marcellino, introduzione di Stefano Baldassarri, Bompiani, Milano, pagg. 368, € 18
Umanisti italiani. Pensiero e destino ,
a cura di Raphael Ebgi, contributi di Massimo Cacciari, Einaudi Editore, Torino, pagg. CVI - 558, € 85

Il Sole Domenica 4.3.18
Pierre Milza (1932 - 2018)
La cifra della contemporaneità
di Emilio Gentile


Cento anni fa, il diciottenne Pietro Milza, nato a Bardi in provincia di Parma, fu mandato sul fronte del Piave a «fermare i tedeschi»: lo racconta il figlio Pierre nella prefazione alla sua Storia d’Italia dalla preistoria ai giorni nostri, pubblicato in Francia nel 2005 e in traduzione italiana nel 2006. Raccontare in quasi mille pagine tre millenni di storia delle popolazioni che si sono avvicendate nella penisola mediterranea, era una «folle avventura» che lo storico Pierre Milza ha compiuto per saldare il suo debito verso il Paese dove suo padre era nato e cresciuto. Dopo la Grande Guerra, Pietro andò a cercare lavoro in Francia. Divenne così uno dei milioni di italiani che si sono trapiantati in Francia: i “ritals”, come li chiamavano i francesi, in senso spregiativo. Pietro lavorava in un hotel a Nizza quando sposò una francese operaia. E il 16 aprile 1932, a Parigi, nacque il loro figlio Pierre. Il padre, naturalizzato francese alla vigilia della Seconda guerra mondiale, morì di malattia nel 1943.
Il piccolo Pierre ebbe una educazione francese, e soltanto nel 1948, ospite di una zia italiana a San Remo, scoprì la sua radice di italianità. Iniziò allora la sua affezione per la nazione di suo padre, che divenne passione di conoscenza storica per il resto della vita. Alla storia degli italiani trapiantati in Francia, dal Medioevo al Novecento, Milza ha dedicato uno dei suoi libri più belli, Voyage en Ritalie (1993), dove, nelle cinquecento pagine che raccontano le vicende collettive e individuali dei migranti italiani, si intravede la filigrana autobiografica del figlio di un “rital”, «scomodamente posto fra due culture cugine eppure dissimili», divenuto uno dei principali storici francesi dell’Italia contemporanea.
Quasi metà della copiosa produzione storiografica di Milza riguarda l’Italia. Non c’è stato aspetto della storia italiana, dalle relazioni internazionali alla politica interna, dalla cultura al calcio, che egli non abbia indagato durante sessanta anni di laboriosa attività. L’argomento del suo primo libro, pubblicato nel 1967, era l’immagine del fascismo italiano nella stampa francese. Di oltre mille pagine è la sua storia delle relazioni fra Italia e Francia alla fine dell’Ottocento (Français et Italiens à la fine du XIXe siècle, 1981). E fra sue opere pubblicate fra il 1999 e il 2014, vi sono le biografie di quattro italiani che hanno fatto epoca: Mussolini, Verdi, Garibaldi, Pio XII, affiancate alle biografie di francesi altrettanto epocali, Napoleone III e Voltaire.
Come docente nell’Institut d’études politique di Parigi, e come direttore del Centre d’histoire de l’Europe du Vingtième siècle (CHEVS) da lui fondato, Milza è stato uno dei più fecondi promotori di ricerche sulla storia italiana, nel costante sforzo di essere, come lui stesso si definiva, «un mediatore fra la storiografia italiana e la storiografia sull’Italia in francese». L’efficacia della sua opera di mediatore si è dimostrata specialmente nel rinnovamento negli studi sul fascismo. Gran parte dei suoi libri sull’Italia contemporanea riguarda il fascismo italiano, compresa una delle migliori biografie mussoliniane (Mussolini, Carocci 2000). Evitando le verbose diatribe teoriche sull’essenza metastorica del totalitarismo, viziate da un alto tasso di banalitina, Milza ha intrecciato un proficuo dialogo con la nuova storiografia italiana che interpreta il fascismo come «via italiana al totalitarismo», e ne ricerca le peculiarità nella prassi politica, nelle concrete realizzazioni, nell’ossessivo impegno ad attuare una rivoluzione antropologica. A Milza si deve il primo importante convegno internazionale su «L’Uomo nuovo nell’Europa fascista fra dittatura e totalitarismo», organizzato a Parigi nel 2000.
Storico dell’età contemporanea, nella storiografia di Milza la «contemporaneità» non è solo un perimetro cronologico, ma esprime il senso di tutta la sua opera storica. Influenzato inizialmente dal marxismo e della metodologia della Ecole des Annales, Milza ha rinnovato la sua storiografia innestando nello studio delle forze profonde, delle mentalità collettive, della lunga durata, gli avvenimenti e i fattori individuali, come mostra il suo recente interesse per il genere biografico. Anche se non aveva simpatia per lo storicismo idealista di Benedetto Croce, la storiografia di Milza può essere definita “crociana”, almeno nel significato che Croce attribuiva alla «contemporaneità» intrinseca in ogni opera di vera storia, «perché è evidente che solo un interesse della vita presente ci può muovere a indagare un fatto passato», sicché «il fatto del quale si tesse la storia, vibri nell’animo dello storico». Nella storiografia di Milza la vita presente vibra sia quando egli racconta le vicende dei “ritals” nel travagliato e osteggiato processo di integrazione, vissuto da lui stesso fanciullo; sia quando racconta la storia delle estreme destre contemporanee, definite «nazionalpopulismo» piuttosto che «fascismo»; effetto e non causa della crisi della democrazia (Europa estrema. Il radicalismo di destra dal 1945 ad oggi, Carocci 2003). Oltre quindici anni fa, Milza ammoniva: «La democrazia è fondata su una esigenza di partecipazione attiva dei cittadini alla vita dello Stato. Lo spettacolo al quale assistiamo è al contrario quello di un disimpegno, di una disillusione che si traduce nell’ascesa dell’astensionismo e nel successo crescente di partiti che si proclamano apolitici, o almeno fuori del sistema […] non può esserci vittoria durevole della democrazia senza la ricostruzione della coscienza di cittadini» e «questa operazione implica una lotta di tutti i giorni contro la demagogia ordinaria».
Milza non mescolava la storiografia con la militanza politica, ma neppure concepiva l’opera dello storico come un prodotto di mera curiosità intellettuale. Insegnante di scuola elementare a ventuno anni, istruttore di judo durante ventisette mesi e mezzo di servizio militare, per un momento tentato dall’idea di diventare professore di ginnastica prima di dedicarsi interamente agli studi storici, Milza ebbe una genuina vocazione di pedagogia civile, animata da una non comune onestà intellettuale.
Ora che Pierre non c’è più, la sua storiografia continuerà a vivere nella «contemporaneità» delle sue opere. Nella memoria dell’amicizia, rimarrà l’immagine di una persona animata da una vitalità gioiosa, con lo sguardo sorridente, sornione, ironico. E qualche volta con un’ombra di malinconia.

Il Sole Domenica 4.3.18
Thomas Mann
L’Europa sia vigile
La denuncia del nazismo e il monito dello scrittore al popolo europeo, perché non si lasci soggiogare dal fanatismo, risuonano oggi quanto mai attuali
di Carlo Ossola


Il volume apparve nel 1947, a cura di Lavinia Mazzucchetti (esclusa durante il fascismo dall’insegnamento universitario) e riprendeva il titolo di uno dei saggi più impegnati e noti Achtung, Europa! [1935] pubblicati da Thomas Mann in esilio (ricordo la traduzione francese, a cura di André Gide, Avertissement à l’Europe, Gallimard 1937 e l’edizione in tedesco, Stoccolma 1938). Ai saggi erano e sono uniti i discorsi che Mann tenne, dalla Bbc, ai cittadini tedeschi dall’ottobre 1940 al 10 maggio 1945 e un’importante meditazione finale, pronunciata in occasione del settantesimo compleanno, alla Library of Congress di Washington, il 6 giugno 1945, La Germania e i Tedeschi, nonché una ferma lettera aperta Perché non ritorno in Germania.
Era la prima organica denuncia, da parte di uno scrittore tedesco di rilievo mondiale, degli orrori del nazismo, ed ebbe certo più risonanza in Italia che la prima uscita, lo stesso anno 1947, presso De Silva [nella «Biblioteca Leone Ginzburg»], Torino, di Se questo è un uomo di Primo Levi. È fondamentale che il libro sia ripubblicato oggi, a 70 anni di distanza, con un’acuta Introduzione storica di Giorgio Napolitano, perché alcuni dei temi di fondo che il libro propone tornano purtroppo rilevanti.
Nel discorso incipitario Della Repubblica tedesca, del 1922, Thomas Mann traccia quasi un programma per la giovane repubblica di Weimar, associando l’eredità spirituale di Novalis e quella sociale di Whitman; la formula che ne discende: «Comunità e pluralismo» sorreggerà poi sempre la riflessione sulla democrazia di Mann. Giorgio Napolitano ha opportunamente messo in luce quanto questo discorso corregga le Considerazioni di un impolitico del 1917 e quanto l’autore ricerchi una conciliazione tra i lasciti culturali del germanesimo romantico e l’universalismo insito in ogni posizione che faccia della dignità umana la base della democrazia.
L’impegno di Thomas Mann si fa più deciso dopo gli accordi di Monaco del 1938, che sembrano consegnare una remissiva Europa ai piani di Hitler; nella prefazione ai suoi scritti politici L’altezza dell’ora egli traccia una lucida analisi sulle «dominanti tendenze del tempo – che si raccolgono sotto il nome di “fascismo”», «distruttore della cultura», demagogico propugnatore della sopraffazione giunta con il nazismo all’apice più barbaro: «gli orrori dei campi di concentramento, le torture e gli assassinii, le persecuzioni degli ebrei e dei cristiani, l’eliminazione di ogni valore spirituale». Sin dal 1938, dunque, Thomas Mann segnala al mondo l’esistenza dei Lager e lo sterminio programmato degli Ebrei; lo farà sistematicamente nei discorsi da Londra agli «Ascoltatori tedeschi» descrivendo minuziosamente (gennaio 1942) quelle torture: «In numerose famiglie ebree olandesi, […] ad Amsterdam e in altre città, regna profondo lutto per la scomparsa di figli che sono morti di una morte atroce. Quattrocento giovani Ebrei olandesi sono stati portati in Germania per servire da oggetto d’esperimento per i gas velenosi». Ritornerà sul tema nel giugno 1942 (a proposito di Mauthausen): «l’inumanità nazista ha sempre superato tutto quello che le si rimprovera e si attribuisce; non si corre mai il rischio di esagerare». Più avanti, tramite fonti svizzere, fornirà – 14 gennaio 1945, ben prima che le armate russe arrivassero ai Lager – i dati dei morti (registrati dagli stessi nazisti) a Auschwitz e Birkenau: «Videro [gli inviati svizzeri] quello che nessun uomo sensibile è disposto a credere, se non l’ha visto con i propri occhi: le ossa umane, i recipienti di calce, i tubi di gas per il cloro, e gli impianti per la cremazione, inoltre i mucchi di vestiti e scarpe tolti alle vittime, molte piccole scarpe di bambini. […] Dal 15 aprile 1942 al 15 aprile 1944 solo in queste due installazioni tedesche sono stati uccisi 1.715.000 Ebrei. Da dove il numero? Ma è la vostra gente che ha tenuto il registro, con tedesco senso dell’ordine! La registrazione della morte è stata trovata; inoltre centinaia di migliaia di passaporti e carte personali di non meno di ventidue nazionalità d’Europa». Sono discorsi radiofonici: l’Europa sapeva…
Accanto alla denuncia costante del nazismo: «è una rivoluzione della vacua violenza, che significa: del nulla spirituale» (Il problema della libertà, 1939); «Il contrapposto alle uccisioni di massa col gas sono le “giornate di accoppiamento”, in cui soldati in licenza vengono comandati a bestiali matrimoni di un’ora con le ragazze BDM, per creare bastardi di Stato per la prossima guerra. […] Orrore e profanazione dell’umanità, dovunque guardiate» (agli Ascoltatori tedeschi, novembre 1941), cresce in Thomas Mann l’amarezza per la tenace obbedienza del popolo al dittatore; sono commoventi i messaggi in cui egli plaude, dal 1943 in poi, alla sollevazione popolare contro il nazismo in Italia, in Grecia, in Serbia; sollecita il popolo tedesco a ribellarsi a sua volta; constata – con sempre più grande sgomento – la cieca fedeltà a ciò che fu imposto e fino alla fine pervicacemente condiviso dal popolo tedesco.
In questa prospettiva è da leggere il saggio di bilancio storico, del giugno 1945, La Germania e i Tedeschi, nel quale con dolente coraggio egli evoca le radici (luterane) del “germanesimo”: «Ciò che è estremamente tedesco, separatista e antiromano, antieuropeo, mi sconcerta e mi spaventa anche quando si presenta come libertà evangelica». A ciò egli contrappone due altri pilastri, che vorremmo nostri, di una vera coscienza: la Innerlichkeit, «interiorità, cioè delicatezza, profondità d’animo, […] purissima austerità di pensiero» e una nuova visione di Europa, basata su «un umanesimo militante» che «si saturi della convinzione che il principio della libertà, della tolleranza e del dubbio non deve lasciarsi sfruttare e sorpassare da un fanatismo che è senza vergogna e senza dubbi» (Attenzione, Europa!).
Il volume non è solo un saldo documento storico, è monito all’oggi, a queste folate irrazionali, in cui tornano – in tutta Europa – parole d’ordine semplificate, violente, nutrite dal dispregio dell’altro: «Oggi ci si è convinti che è più importante e anche più facile dominare le masse, perfezionando sempre più l’arte grossolana di giocare sulla loro psicologia: dunque introducendo al posto dell’educazione la propaganda. […] la violenza è uno spirito straordinariamente semplificatore» (Attenzione, Europa!). La volgarità non è stata redenta, ma spinta più in alto, legittimandone la «potenza brutale»: è il 1935 e il 2017.
Da Ortega y Gasset a Thomas Mann, il miglior Novecento ha denunciato la «deshumanización» della politica e della vita civile; essa non si è arrestata e non ha bisogno di carri armati; semplificando all’eccesso, eliminando la pluralità, affermando la totalità dell’io, quel che resta della libertà è il moncherino del proprio corpo fatto megafono.
Thomas Mann, Moniti all’Europa , traduzione di Cristina Baseggio
e di Lavinia Mazzucchetti, introduzione di Giorgio Napolitano, Mondadori, Mondadori, pagg. 334, € 15