lunedì 5 marzo 2018

Corriere 5.3.18
La teoria dei giochi d’amore All’asta l’appunto di Einstein per una giovane italiana
Albert provò a invitare la chimica Piccini, lei era timida
di Davide Frattini


GERUSALEMME Quasi 100 mila documenti tra lettere, saggi, cartoline, bigliettini sparsi nelle biblioteche delle facoltà, in qualche soffitta o dentro scatole da scarpe. I fogli con la scrittura a inchiostro nero di Albert Einstein sono custoditi dall’università ebraica di Gerusalemme come aveva voluto alla morte nel 1955. Altri spuntano alle aste e sono stati acquistati anche per milioni di dollari: domani la casa israeliana Winner’s mette in vendita un cartoncino con poche righe sopra e per colorare l’evento si è inventata il titolo «La teoria dei giochi romantici di Einstein».
Perché le frasi del genio che formulò la Teoria della relatività sono indirizzate a Elisabetta Piccini, chimica e figlia di chimico: «Alla ricercatrice scientifica, ai cui piedi sono stato e ho dormito per due giorni interi, come amichevole souvenir».
Nell’ottobre del 1921 Einstein è ospite della sorella Maja a Firenze, nell’appartamento al piano di sopra vive Elisabetta, che il fisico e filosofo chiede di conoscere. La ragazza italiana — «timida e introversa» scrivono gli studiosi della casa d’aste — si rifiuta di incontrarlo. Prima di partire Einstein le lascia il biglietto scritto in tedesco — incollato a uno più grande che riporta i versi di una poetessa —, adesso quel cartoncino ha un prezzo iniziale di 3 mila dollari ed è stimato fino a 40 mila, cifra che potrebbe essere superata di molto.
Cinque mesi fa sempre la Winner’s ha messo all’asta una lettera di Einstein che in venticinque minuti è passata da 2 mila a oltre un milione e mezzo di dollari. Sono le parole annotate subito dopo essere stato informato di aver ricevuto il Nobel per la Fisica nel 1922 a 43 anni: «Una vita calma e modesta porta più felicità della ricerca del successo abbinata a una costante irrequietezza».
In viaggio in Giappone per un ciclo di conferenze Einstein è lusingato dalle folle che lo accolgono — e colpito dalla loro gentilezza: «Di tutte le persone che ho incontrato, i giapponesi sono quelli che mi piacciono di più perché sono umili, intelligenti, premurosi, e hanno senso dell’arte» — ma anche scombussolato dalla fama. Nella tranquillità della stanza all’hotel Imperial di Tokyo cerca una formula per ritrovare la quiete, il biglietto è stato pubblicizzato come la sua «Teoria della felicità». Lo consegna al fattorino dell’albergo che gli ha portato un messaggio e gli promette — indovinando — che «un giorno varrà molto denaro». Una seconda nota scritta nello stesso momento («Quando c’è una volontà, esiste una via») è stata battuta per 240 mila dollari.
L’università ebraica di Gerusalemme e quella di Princeton, dove Einstein ha soggiornato dal 1933 fino alla morte, sono impegnate dal 1986 nello studio e nella catalogazione di tutti i documenti lasciati dallo scienziato. L’obiettivo è anche raccoglierli in volumi (una trentina alla fine dell’impresa) e di renderli disponibili in digitale, quasi 10 mila sono già consultabili. L’ateneo israeliano ha da poco approvato un progetto da 5 milioni di dollari per la costruzione di Casa Einstein nel planetario ormai abbandonato del campus a Givat Ram dalle parti del parlamento israeliano. Le luci della Via lattea sul soffitto torneranno a illuminarsi: «Guarda le stelle, e da loro impara. In onore del Maestro devono tutte girare, ciascuna nella sua orbita, senza un suono, in perenne memoria della ragione di Newton».

il manifesto 5.3.18
Groko, la base Spd sceglie l’«usato sicuro»
Germania. Con il 66%, una maggioranza ben oltre le previsioni, gli iscritti ratificano la Grosse koalition. Partecipazione oltre il 78%
di Sebastiano Canetta


BERLINO Via libera della base socialista alla terza Groko con Angela Merkel e i bavaresi. Con oltre il 66% dei consensi, gli iscritti Spd hanno ratificato il contratto di coalizione che vincola al governo comune fino al 2021.
Maggioranza netta, ben oltre le previsioni, legittimata dall’alta partecipazione al voto (più del 78%) e certificata ieri dal tesoriere Dietmar Nietan alla Willy Brandt Haus, quartier generale dei socialdemocratici a Berlino.
«Ora abbiamo la certezza: la Spd entrerà nel prossimo esecutivo» è l’annuncio ufficiale del segretario ad interim Olaf Scholz, soddisfatto per la soluzione che archivia un’impasse istituzionale durata 161 giorni.
IMMEDIATE le congratulazioni della cancelliera, pronta ad accendere il suo nuovo mandato entro nove giorni. Già il 14 marzo al Bundestag “Mutti” potrebbe essere rieletta per la quarta volta. «I miei complimenti alla Spd per il risultato chiaro. Attendo con impazienza di rinnovare la cooperazione per il benessere del Paese» riassume Merkel via social.
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Massima delusione, invece, per il leader dei Giovani socialisti (Juso) Kevin Kühnert, che ha lottato invano per boicottare la geometria politica già bocciata dagli elettori il 24 settembre.
«Io e molti altri giovani iscritti siamo delusi dal risultato di ieri più di qualsiasi altra cosa» taglia corto l’uomo-icona degli Juso, pur riconoscendo il risultato stabilito dai 363mila tesserati che hanno espresso voto valido. «Comunque, siamo di fronte a una decisione democratica che accettiamo. Non faremo certo la parte dei loser addolorati».
Dichiarazione antitetica alle parole del “perdente-felice”, Martin Schulz, senza più la poltrona di segretario e privo della carica-paracadute di ministro degli Esteri trattata per sé al tavolo con Merkel. «Sono contento perché il voto rafforzerà la Spd. Grazie all’accordo potremo fare avanzare la Germania ma anche l’Europa» precisa Schulz, rivendicando così la sua parte di vittoria. «Certamente ho contribuito a tutto ciò: il programma di governo ha un forte carattere socialdemocratico».
Da qui l’accelerazione Spd sulla nomina dei ministri di competenza. Entro la fine della settimana il partito ufficializzerà tutti i nomi della squadra di governo. Tre uomini e tre donne destinati a occupare i dicasteri di Immigrazione, Lavoro e Affari sociali, oltre alle Finanze già assegnate al vice-cancelliere Scholz e agli Esteri, “casella” liberata dal dietro-front di Schulz.
SI ATTENDE – tra oggi e domani – anche la lista della Csu. Oltre al governatore bavarese, Horst Seehofer, ministro dell’Interno in pectore, restano da individuare i titolari di Edilizia pubblica e Costruzioni.
L’unica ad aver assolto tutti i compiti è la cancelliera Merkel che da una settimana ha reso nota la formazione Cdu nel suo governo. Dal fedele ex capo di Gabinetto Peter Altmaier all’Economia, al “rivale” interno Jens Spahn alla Salute; da Ursula von der Leyen riconfermata alla Difesa, alla semi-sconosciuta Anja Karliczek all’Istruzione; fino alla giovane Julia Klöckner all’Agricoltura e a Helge Braun alla Cancelleria.
In parallelo “Mutti” ha impostato la sua successione, spingendo alla segreteria generale Cdu la premier del Saarland, Annegrett Kramp-Karrenbauer (detta “Akk”) la «numero due» dal 2015.
Proprio “Akk” ieri è stata tra le prime a celebrare il sì-Groko degli iscritti Spd. «Decisione saggia per i socialdemocratici e per la Germania. Ora sia noi che loro siamo pronti a prederci la responsabilità di un governo congiunto».
È LA LUCE VERDE che attendeva anche l’Ue, legata a doppio filo alla governance tedesca, ma anche lo “starter” per accendere l’esecutivo immaginato dal presidente federale Frank-Walter Steimeier, vero vincitore del referendum.
Eppure, secondo l’opposizione, il via alla nuova Groko restituisce lo stato di salute dei due maggiori partiti tedeschi che, sommati, hanno perso il 14% rispetto a cinque mesi fa. Secondo la co-segretaria Linke, Katja Kipping, i social-democristiani tornano al potere «indeboliti e apatici», mentre per i liberali «le preoccupazioni di Merkel sono finite, ma la Germania non avanza: si muove solo di lato» spiega Nicola Beer, segretaria generale Fdp. Fa il paio con i Verdi, pronti a rammentare l’orizzonte di provvedimenti urgenti.
«Ora si dovranno colmare le lacune su clima e lotta alla povertà» ricorda Annalena-Charlotte Baerbock, co-presidente dei Grünen.
Alzano la cresta anche i fascio-nazionalisti di Afd, staccati dalla Spd di un solo punto nei sondaggi. Ieri gli “alternativi” hanno diffuso la foto di Merkel con Andrea Nahles (segretaria Spd dal 22 aprile) accompagnata dalla didascalia: «Altri quattro anni da incubo per la Germania. Ne pagheranno il prezzo, al più tardi nel 2021».
Esattamente due anni prima è previsto il primo test di tenuta della nuova Groko. Stando alle intenzioni della Spd, nel 2019 dovrebbe esserci una sorta di verifica “midterm” sul grado di attuazione delle 177 pagine del contratto di coalizione.

il manifesto 5.3.18
Russia, la diseguaglianza cresce, 20 milioni sotto al livello di povertà  Russia. E nel suo comizio elettorale Putin deve fare i conti con la scarsa partecipazione
di Yurii Colombo  


La gente al comizio moscovita di Putin è arrivata alla chetichella. Del resto il clima meteorologico delle ultime settimane non è quello adatto per una manifestazione in uno stadio all’aperto. All’ingresso vengono distribuiti cartelli stile presidenziali americane con scritto: «Un presidente forte per una Russia più forte!»  LE BANDIERE TRICOLORI della Federazione, la gente invece se le è portate da casa. Sugli spalti si parla di tutto meno che di politica: va forte il tema «cosa fare questo sabato sera». Alle 13 in punto inizia la manifestazione. Salgono sul palco i vincitori delle medaglie alle recenti olimpiadi invernali di Corea. Applausi convinti mentre sui maxi-schermi passano le immagini degli hockeisti che hanno sconfitto la Germania. Il programma, visti i -13 gradi – che leggende a parte non amano neppure i russi – è ridotto all’osso. Putin arriva sul palco alle 13,15 e parla per non più di 20 minuti.  SUPERBOMBA E SIRIA vengono lasciati negli spogliatoi dello stadio. Gli argomenti sono tutti di politica interna e le promesse non sono poche: riduzione della povertà, una sanità più efficiente, infrastrutture, pioggia di rubli per le donne che faranno molti figli.  A ogni promessa la gente sventola le bandiere, ma non c’è grande convinzione. «Qui hanno vissuto i nostri avi, qui viviamo noi e i nostri figli e vivranno i nostri nipoti. E noi faremo tutto perché essi siano felici!» urla nel microfono il presidente. Inno nazionale, tutti in piedi, e poi la gente sciama via rapidamente. Russia Unita in serata parlerà di 10mila presenze, ma per i cronisti ce ne saranno state sì e no la metà. Si dice che lo staff di Putin, più si avvicina al 18 marzo e più sia nervoso. Sulla partecipazione al voto dei russi ci sono ancora poche certezze mentre alcuni sondaggi darebbero il candidato comunista Pavel Grudinin, che ha battuto il tasto delle diseguaglianze della corruzione per tutta la campagna elettorale, al 15%. Dettagli si dirà, che però non piacciono a Putin.  MOTIVI per una certa insofferenza nel Paese del resto ce ne sono. La Vneshekonombank ha rivelato qualche giorno fa che i guadagni dei russi si sono ridotti del 6,9% nel 2017. Si tratta del quarto anno consecutivo di riduzione dei redditi: -5,8% nel 2016, -3,2% nel 2015 e -0,7% nel 2014. Ora il governo promette che dal 2018 le entrate dei russi cresceranno del 2,3% ma pochi ci credono.  Quello che preoccupa di più i russi è la crescente divaricazione delle ricchezze e la scarsa mobilità sociale. Dal «World Inequality Report 2018» recentemente pubblicato da Thomas Piketty e dal suo team, risulta che la forbice della ricchezza in Russia è tornata ai livelli del 1905. Se ai tempi della prima rivoluzione russa il 10% più ricco della società riceveva il il 47% delle entrate nazionali, il 50% più povero il 17% e il lo strato intermedio del 40% possedeva il restante 36%, nel 2016 il 10% dei benestanti ottiene il 45,5%, il 50% dei meno abbienti è rimasto fermo al 17% mentre la «classe media» ha rosicchiato appena un 1,5% in più (37,5%).  NON ESISTONO DATI comparativi, ma lo 0,01% più agiato della popolazione guadagna ben 2524 volte più della media nazionale (23mila dollari). Molti russi per ovviare svolgono 2-3 lavori contemporaneamente: la Russia è il quinto paese in cui ci si lavora di più al mondo. Nel 2017 i russi che vivono sotto il livello di povertà sono più di 20 milioni: il 13% dell’intera popolazione (concentrata soprattutto in Siberia) se la cava con 170 dollari al mese. Troppo pochi, anche se in provincia gli orti delle dacie garantiscono ancora a molti frutta e verdura.

il manifesto 5.3.18
Netanyahu a Washington per invitare Trump ad inaugurare l’ambasciata
Israele/Usa. In agenda anche il nucleare iraniano. Intanto in Israele si aggravano i guai giudiziari del premier e il governo vacilla.
di Michele Giorgio


GERUSALEMME Si è lasciato alle spalle i suoi guai giudiziari e una coalizione di governo che vacilla Benyamin Netanyahu giunto ieri negli Stati Uniti per una visita di cinque giorni che lo vedrà a colloquio con Donald Trump e intervenire all’annuale conferenza dell’Aipac, la lobby americana filo-Israele. Il premier israeliano prima della partenza ha annunciato che con il suo stretto alleato Trump discuterà del programma atomico iraniano. Perciò è probabile che faccia pressioni affinché il presidente americano, tra qualche settimane, non certifichi il rispetto da parte di Tehran dell’accordo internazionale sul nucleare firmato nel 2015 dai cinque Paesi membri del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, quindi anche dagli Stati Uniti, più la Hermania. Trump ha già avvertito che non darà più il suo via libera se il Congresso da una parte e l’Unione europea dall’altra non emenderanno l’accordo e imporranno all’Iran il rispetto di nuove misure, in particolare lo stop allo sviluppo del suo programma missilistico. Una linea del pugno di ferro approvata in pieno Netanyahu che reclama anche sanzioni per colpire quello che Tel Aviv descrive come “l’espansionismo” di Tehran e la presenza in Siria e altri Paesi della regione della Guardia Rivoluzionaria iraniana.
Netanyahu alla partenza ha parlato di colloqui con Trump anche sull’Accordo del secolo, il piano di pace dell’Amministrazione americana di cui però non vi è ancora traccia visibile. Se ne conoscono solo alcuni punti grazie alle indiscrezioni riferite dalla stampa israeliana che hanno già provocato la reazione rabbiosa dei palestinesi. Netanyahu più di tutto a Washington spingerà per ottenere a maggio la presenza di Trump all’inaugurazione dell’ambasciata degli Stati Uniti a Gerusalemme, dopo il riconoscimento di Gerusalemme come capitale di Israele fatto unilateralmente dalla Casa Bianca lo scorso 6 dicembre tra le forti proteste dei palestinesi.
Netanyahu in America cerca anche il sostegno personale di Trump. Spera che riesca ad influenzare il procuratore generale israeliano Avishai Mandeblit chiamato a prendere una decisione sulla richiesta della sua incriminazione per corruzione presentata il mese scorso dalla polizia. Venerdì scorso Netanyahu e la moglie sono stati interrogati nell’ambito delle indagini su corruzioni legate all’azienda israeliana di telecomunicazioni Bezeq, un nuovo caso che si aggiunge alle altre inchieste che lo vedono coinvolto e che rischiano di travolgerlo. Il governo intanto scricchiola. Due partiti religiosi hanno annunciato che la settimana prossima non sosterranno alla Knesset la finanziaria per il 2019, presentata dal ministro delle finanze Moshe Kahlon. «Non vi sono ragioni per un ritorno alle urne, se c’è buona volontà la legislatura potrà finire come previsto l’anno prossimo» dice il premier ma, tra i suoi guai giudiziari e i fermenti nella maggioranza, il voto anticipato non è mai stato così vicino.

il manifesto 5.3.18
Internazionale  
Ilan Pappe: «Parlare di Palestina è decolonizzazione»
Palestina. Intervista allo storico israeliano Ilan Pappe, ospite della rassegna Femminile Palestinese: «L’accademia riproduce il discorso sionista»
di Chiara Cruciati


SALERNO «Parlare di Palestina non è mero esercizio di libertà di espressione. È una forma di lotta per la liberazione del popolo palestinese dal colonialismo di insediamento israeliano. Se ne parli non solo in nome della libertà accademica, ma come dovere di fronte alla catastrofe di un popolo».
Lo storico israeliano Ilan Pappe, autore di fondamentali ricerche storiche sul progetto sionista e i suoi effetti sul popolo palestinese, ha di fronte una platea nutrita e particolare: gli studenti dell’Università di Salerno, richiamati da un evento importante. Insieme all’antropologa palestinese Ruba Salih e ai professori Gennaro Avallone e Giso Amendola, la rassegna «Femminile Palestinese» curata da Maria Rosaria Greco ha portato nel campus un tema centrale, decolonizzazione e libertà accademica, affrontato dagli ospiti in chiavi tra loro connesse, dalla privatizzazione dell’accademia al rapporto con lo spazio urbano fino ai legami di potere e visione neocoloniale tra atenei ed élite economiche neoliberiste.
«Il discorso sionista è fondato su basi fragili: la realtà non coincide con la narrazione – spiega Ilan Pappe – Per questo il mondo accademico israeliano si è mobilitato: si dovevano rafforzare quelle basi. Identificare i materiali con cui la narrazione sionista è stata costruita non è solo un esercizio intellettuale, perché quel discorso ha un impatto sulla vita di un popolo. Il primo materiale utilizzato è l’assorbimento della Palestina all’interno della storia dell’Europa. Dalla dichiarazione Balfour, passando per il piano di partizione dell’Onu del 1947 fino alla dichiarazione di Trump su Gerusalemme, l’Europa e l’Occidente percepiscono la Palestina come un affare interno. E questa falsa rappresentazione è stata traslata su Israele. In tale visione i palestinesi, in quanto arabi e musulmani, sono visti come migranti e non come nativi».
«Il secondo materiale è la natura del progetto coloniale sionista: un colonialismo di insediamento del tutto simile a quello perpetrato in Nord America, Australia e Sudafrica. La presenza di popoli indigeni che non corrispondevano alla popolazione desiderata dai coloni europei si è tradotta in genocidio nei primi due casi, in apartheid in Sudafrica e in pulizia etnica in Palestina. L’idea che gli indigeni siano gli invasori sta alla base di questo tipo di colonialismo ed è riprodotta dall’accademia che narra la storia della Palestina in questi termini. E quella israeliana si spinge oltre quando discute di questione demografica, legittimando le politiche di riduzione del numero di palestinesi sul territorio. In atto c’è lo stesso processo di disumanizzazione che il neoliberismo applica ai lavoratori».
Dei legami tra Occidente e Israele abbiamo discusso con lo storico israeliano a margine dell’incontro di Salerno.
Il 6 dicembre il presidente Usa Trump ha riconosciuto Gerusalemme capitale di Israele. Un atto meramente simbolico, che non modifica lo status della Città Santa, o un atto con effetti concreti?
Non è simbolismo. L’importanza di tale dichiarazione sta nel messaggio inviato alle Nazioni Unite e al mondo: il diritto internazionale, nel caso di Israele e Palestina, non conta più. Lo status di Gerusalemme è protetto dal diritto internazionale e per questo nemmeno gli Stati uniti avevano mai trasferito l’ambasciata a Gerusalemme. È vero che il diritto internazionale non è stato mai rispettato da Israele, ma la comunità internazionale ha sempre sperato che quella legge avesse un significato. La dichiarazione di Trump ha un effetto concreto: se il diritto internazionale non ha valore a Gerusalemme, allora non ha valore nemmeno nel resto della Palestina. Qui sta il cuore del riconoscimento: costringere a un cambio di marcia e di riferimenti politici e dire a chi ha sempre creduto nel diritto internazionale, nella soluzione a due Stati, nel processo di pace che tutti questi strumenti non saranno d’aiuto nella lotta contro il colonialismo di Israele. Si deve dunque pensare a un approccio diverso, simile a quello che venne adottato contro il Sudafrica dell’apartheid.
Israele è assunto come modello securitario, sia nel sistema di controllo che nella logica della separazione tra un «noi» e un «loro», che nella fortezza-Europa si traduce nella chiusura ai rifugiati.
La cosiddetta guerra al terrorismo ha aiutato moltissimo Israele. A Francia, Belgio, Stati uniti e così via, Israele ha dato consigli e sostegno sul modo di gestione della comunità musulmana e su come sovvertire o aggirare il sistema legale per affrontare la cosiddetta minaccia islamica. È diventato il guru globale della lotta al cosiddetto pericolo islamico. È scioccante perché la competenza israeliana deriva dalla lotta a un movimento di liberazione nazionale e non al terrorismo. Eppure questo ruolo è fondamentale per Israele perché crea l’equazione lotta di liberazione uguale terrorismo. È nostro compito smentire questa falsa equazione.
Da cosa deriva l’impunità di cui gode Israele per le violazioni contro il popolo palestinese? È l’effetto dell’auto-assoluzione del colonialismo europeo, che ha preso parte alla nascita di Israele, o il sionismo è ormai sfuggito al controllo occidentale?
In Europa l’impunità di Israele ha a che fare con l’Olocausto e con la questione ebraica che non è stata mai realmente affrontata. L’antisemitismo europeo non è mai stato sviscerato. Per cui per certe generazioni europee Israele è uscito dai radar, un capitolo nero da risolvere lasciandolo fare. A questo vanno aggiunti oggi l’islamofobia, l’eredità coloniale, il neoliberismo che ha un’alleanza strategica con Israele. Per gli Stati uniti è diverso: qui l’impunità è figlia del potere delle lobby ebraiche, cristiano-sioniste e ovviamente di quello dell’industria militare. Penso che l’eredità coloniale sia solo una delle cause di questa immunità. Quello che sarà interessante vedere è se le future generazioni occidentali si porteranno ancora dietro il senso di colpa europeo per l’Olocausto e se gestiranno la questione Israele allo stesso modo.
Quanto si è modificata nel tempo la società israeliana? Oggi siamo di fronte ad un popolo sempre più spostato a destra, come la leadership.
Era inevitabile che la società israeliana si spostasse a destra. La possibilità che un colonialismo di insediamento potesse essere anche democratico o socialista era nulla. Il vero Israele si sta mostrando oggi. È un inevitabile processo storico, sebbene Israele provi a giocare la carta della democrazia. Passerà del tempo prima che la società israeliana cambi o si trasformi. Anche se il primo ministro Netanyahu sarà cacciato a causa degli scandali corruzione che affronta oggi, la natura del regime non cambierà.

La Stampa 5.3.18
Quelle melodie rossiniane sulle quali Leopardi amava “lagrimare”
Nel 2018 ricorre il 150° anniversario di Gioachino Rossini. Il poeta amò la sua musica e prese le distanze dagli intenditori che in alcuni scritti definì «intendenti»
di Rita Italiano


Il 2018, si sa, è anno rossiniano. Anniversario di quelli che contano nell’ufficialità: 150 anni dalla morte del compositore. Per onorarlo, torniamo al febbraio del 1823. Al Teatro Argentina di Roma si rappresenta «La donna del lago», opera appunto del maestro Gioachino Rossini. In un palco siede, attentissimo e in qualche momento commosso, uno spettatore d’eccezione: Giacomo Leopardi.
Nonostante le discutibili consuetudini organizzative dei teatri romani che avevano reso «intollerabile e mortale la lunghezza dello spettacolo, che dura sei ore, e qui non s’usa d’uscire dal palco proprio», Leopardi fu assai dilettato da ciò che vide e soprattutto da ciò che ascoltò. Una serata interamente dedicata alla musica rossiniana. Testimonianza di questa esperienza è in una lettera al fratello Carlo che era stato coinvolto ed emozionato a sua volta da uno spettacolo rossiniano.
Il 5 febbraio 1823 Giacomo gli scriveva: «Mi congratulo con te dell’impressioni e delle lagrime che t’ha cagionato la musica di Rossini, ma tu hai torto di credere che a noi non tocchi niente di simile. Abbiamo in Argentina “La donna del lago”, la qual musica eseguita da voci sorprendenti è una cosa stupenda, e potrei piangere ancor io, se il dono delle lagrime non mi fosse stato sospeso».
Rapide annotazioni che sono quasi preludio a un denso passo, un raffinatissimo micro-saggio dello «Zibaldone» nel quale, tra il 20 e il 21 agosto dello stesso anno, Leopardi prendeva le mosse proprio da Rossini. Con precisione e chiarezza ne analizzava la musica che, affermava, risulta «universalmente grata» perché le sue melodie sono «totalmente popolari, e rubate, per così dire, alle bocche del popolo». L’intelligenza compositiva di Rossini risiede infatti nel nutrire la propria ispirazione di quelle sequenze di toni «che il popolo generalmente conosce». Si prestano perciò ad abitudini di ascolto che «non hanno regola determinata» e possono variare a seconda dell’epoca, del luogo e delle preferenze del singolo.
Il gusto musicale, del resto, si affina nell’ascolto. Senza appellarsi a principi indefettibili, e magari contravvenendo al loro dettato. Al riguardo, Leopardi riferiva la sua esperienza personale. A partire dal suo «primo udir musiche». Allora «io trovava affatto sconvenienti, incongrue, dissonanti e discordevoli parecchie delle più usitate combinazioni successive di toni, che ora mi paiono armoniche, e nell’udirle formo il giudizio e percepisco il sentimento della melodia». Descriveva così il suo rapporto spontaneo e felice con la musica, rispondente alla disposizione di spirito nella quale si pongono coloro che «non hanno altra regola e canone che l’orecchio».
Leopardi considerava, prendendone le distanze, il comportamento degli intenditori di musica (che lui chiamava «intendenti»). Essi si rifanno tutti a un metro di giudizio comune che vuole «un’arte uniforme, distinta in regole, universalmente abbracciata e riconosciuta, co’ suoi principii fissi e invariabili e universali».
In breve, gli intendenti «giudicano e giudicando sentono». All’opposto, i non intendenti «sentono e sentendo giudicano». Per cui accade che quelle che «per il popolo sono squisitissime, carissime, bellissime, spiccatissime e dilettosissime melodie», per gli intenditori «non siano neppur melodie». Anzi, essi finiscono per respingere e non comprendere «melodie distintissime, evidentissime, notabilissime e giocondissime».
L’atteggiamento degli intendenti, tutto rivolto al rispetto delle convenzioni stabilite, chiuso al presente e alle potenzialità di nuovi modi di composizione, era una sorta di stigma che non risparmiava il Maestro pesarese. Era evidente «nel giudizio degl’intendenti circa il comporre di Rossini», almeno un errore di valutazione.
Nei suoi confronti essi ostentavano distacco, trincerandosi nel loro conservatorismo difensore a oltranza degli schemi. Più in generale, la loro critica colpiva «il modo della moderna composizione» che dichiaravano non in grado di «reggere in grammatica» e, in aggiunta, «scorrettissima e irregolare». In sostanza, roba popolare da non prendere in considerazione.
Un parere dal quale Leopardi dissentiva convintamente: il «ravvicinamento al popolare è non solo buono, ma necessario, e primo debito della moderna musica; in questo ravvicinamento, dico, vediamo quanto l’effetto della musica abbia guadagnato e in estensione, cioè nella universalità, e in vivezza, cioè nel maggior diletto, ed anche talor maggior commovimento degli animi».
I profani sono ascoltatori più inclini ad accogliere il nuovo, «ignorando o trascurando più o manco i canoni dell’arte». C’è quindi da augurarsi che possa sempre più affermarsi un modo emancipato e franco di comporre, così da avere una creazione artistica vicina a ciò che è noto e caro al grosso pubblico. L’arte della musica, del resto, ebbe come atto di nascita lo scopo di «proporzionare, adornare, nobilitare, perfezionare insomma le melodie popolari».
E questa è la sua sfida vincente. Sfida persa, invece, ogni qualvolta la pratica compositiva si chiude in se stessa e riducendosi in un ripiegamento sempre più angusto a mero esercizio cerebrale, trascura «il suo primo e proprio fine, cioè di dilettare e muovere l’universale degli uditori ed il popolo». Se dimentica di questo, la musica diviene materia d’esclusiva applicazione delle regole, riuscendo a «dilettare, o meravigliare, o costringere a lodare e applaudire una sola e sempre scarsissima classe di persone, cioè quella degl’intendenti». Un circolo elitario.
Questa invece la prova regina del valore dell’arte del compositore Gioachino Rossini secondo Giacomo Leopardi: il talento vero dei compositori si riconosce «quando le loro melodie son tali che il popolo e generalmente tutti gli uditori ne siano colpiti e meravigliati come di melodia nuova» e liberamente «sentano al primo tratto ch’ella è melodia».

La Stampa 5.3.18
Silenzio indispensabile per riuscire a concentrarsi? No, musica e suoni naturali aiutano
Molte persone non riescono a lavorare o a concentrarsi se non hanno un certo sottofondo: c’è chi predilige la musica, chi l’audio della televisione e in quest’era, dove tutti siamo iperconnessi, la maggior parte degli studenti di qualunque età lavora spesso «in compagnia» del proprio smartphone. Ci si concentra, dunque, con il sottofondo dei social network o di un video di youtube.
di Angela Nanni


Non sempre il silenzio aiuta la concentrazione, anzi alcuni suoni possono non solo favorirla, ma riescono persino ad affinare alcune capacità come quella del calcolo matematico. A evidenziarlo ci ha pensato uno studio condotto presso l’Università di Milano Bicocca e pubblicato su Plos One.
La professoressa Alice Mado Proverbio coordinatrice dello studio in questione spiega: «In alcuni casi la concentrazione può essere favorita dall’ascolto della musica classica a volume non molto elevato. Per esempio molti brani di J.S Bach risultano particolarmente adatti a stimolare ritmicamente il sistema acustico per la loro metrica rigorosa e ordinata, unita a linee melodiche mutevoli e spesso intrecciate in un dialogo intenso dai toni variegati. A prescindere dai gusti estetici personali la musica non deve essere familiare, né deve essere quella preferita: il rumore della pioggia scrosciante o di un temporale risultano altresì ottimali nel favorire la concentrazione poiché focalizzano le nostre risorse attentive verso l’esterno (per esempio sui calcoli che dobbiamo fare o sulla scrittura di un report).
Quando una persona non è focalizzata sul mondo esterno il cervello è a riposo- continua la professoressa Proverbio - Secondo i neuroscienziati si attiva una modalità di default, la default mode network che è tipica di quando sogniamo a occhi aperti o rimuginiamo sui nostri problemi. L’ascolto della musica o della pioggia ci aiuta a focalizzarci sul mondo esterno facendoci dimenticare di noi stessi».
COME È STATA CONDOTTA LA RICERCA
Il lavoro di ricerca condotto presso l’università di Milano Bicocca si è focalizzato sulla capacità degli studenti universitari di eseguire a mente delle operazioni aritmetiche in base alla presenza di diversi sottofondi di tipo musicale o suoni della natura come lo scrosciare della pioggia o le onde dell’oceano.
Nello specifico il team di ricerca ha selezionato 50 studenti volontari, 25 maschi e 25 femmine, afferenti sia a facoltà umanistiche che scientifiche, selezionati, però, in base a un minore o maggiore grado di socievolezza, riflessività e capacità di concentrazione.
A tutti i volontari sono state presentate 180 operazioni aritmetiche come divisioni, moltiplicazioni, addizioni e sottrazioni più o meno semplici. Per tutti svolgere tali operazioni in silenzio è risultato più difficile piuttosto che farlo con un sottofondo sia musicale sia di suoni della natura, in pratica la stimolazione uditiva ha determinato una migliore attivazione cerebrale in risposta al compito che dovevano svolgere.
GLI INTROVERSI RISULTATI PIU’ BRAVI
A favorire una migliore risoluzione dei calcoli non è stato solo il sottofondo, ma anche la propria propensione caratteriale, poiché gli introversi hanno risolto più velocemente le operazioni degli estroversi. Come l’essere estroversi o introversi può influenzare la capacità di eseguire operazioni matematiche?
La professoressa Proverbio ancora una volta chiarisce: «Il tratto dell’introversione si associa di solito a una minore socievolezza, ma si correla anche a una maggiore capacità riflessiva e analitica e a più bassa impulsività. Non vi sono studi che dimostrano una maggiore abilità matematica degli introversi, ma si pensa che siano più rapidi a elaborare le informazioni a livello pre-motorio e ad analizzare gli stimoli più rapidamente. Proprio i soggetti con queste caratteristiche potrebbero inoltre trovare confortante interagire con macchine e numeri piuttosto che con persone, per ridurre l’intensità dell’eccitazione provocata dalla stimolazione sociale.
Gli introversi hanno livelli di allerta cerebrale tipicamente maggiori degli estroversi e beneficerebbero di meno dell’effetto del Neuronal entrainment to the beat ovvero sincronizzazione dell’elettroencefalogramma cerebrale EEG con la stimolazione acustica, avendo un EEG già di per sé più rapido. Più l’EEG è rapido più siamo svegli sia in senso letterale che metaforico».

Leda Galiuto, cardiologa e medico dello sport del Policlinico Gemelli di Roma
La Stampa 5 .3.18
“Per certe patologie cardiache non bastano i test di routine”
La specialista: “Italia prima al mondo nella prevenzione ma il rischio di morte improvvisa sfugge ai controlli”
di Fabio Di Todaro


L’esercizio più difficile, nelle ore successive alla morte di Davide Astori, è mettere in un angolo la fantamedicina. L’unica affermazione che si può riportare nero su bianco è la seguente: «Astori è stato vittima di una morte improvvisa, cioè non preceduta da sintomi - dice Leda Galiuto, cardiologa e medico dello sport del Policlinico Gemelli di Roma -. L’arresto cardiaco può essere l’evento finale, ma per individuare ciò che lo avrebbe causato occorre attendere l’autopsia: sarà dirimente per formulare una diagnosi corretta».
Che cosa può essere accaduto al capitano della Fiorentina?
«L’ottanta per cento di questi decessi ha un’origine cardiovascolare. La morte può giungere per un difetto delle coronarie, i vasi che portano il sangue al cuore: problema che nei giovani può non essere preceduto da sintomi. O per una malattia del muscolo cardiaco: una cardiopatia congenita o acquisita, spesso per cause infettive. Oppure per un problema al sistema elettrico del cuore che determina l’alterazione del ritmo e l’insorgenza di una fibrillazione ventricolare. I restanti due casi su dieci sono dovuti alla rottura di un aneurisma, ovvero di una dilatazione delle pareti di un’arteria. Questa determina una emorragia, che può essere fatale nel momento in cui si verifica nel cervello, a livello toracico o addominale».
Come mai casi simili possono colpire anche un calciatore di 31 anni di una squadra di serie A?
«Dal 1971 la prevenzione cardiovascolare a cui sono sottoposti gli atleti italiani non ha eguali nel mondo. I calciatori, due volte all’anno, vengono sottoposti a un elettrocardiogramma, a un test da sforzo massimale, a un ecocardiogramma e a una spirometria. Con questi esami è possibile valutare il ritmo, la struttura e la funzionalità del muscolo e delle valvole, l’irrorazione del cuore durante un’attività più intensa. Un simile screening riduce del 90% il rischio di morte improvvisa negli atleti, che sono più esposti a eventi simili rispetto al resto della popolazione giovanile».
Ciò vuol dire che c’è una piccola quota che rischia di sfuggire alle maglie dei controlli?
«Ci sono anomalie congenite del cuore che possono essere impossibili da verificare con lo screening. In questi casi servirebbe un test genetico o una risonanza magnetica del cuore: esami che non rientrano nel protocollo così come la coronarografia, con cui si evidenziano le alterazioni delle coronarie».
Quanto è sorprendente che Astori sia morto riposando e non durante una competizione?
«Questa è l’unica anomalia, poiché di solito le morti improvvise degli atleti si verificano quando sono sotto sforzo: perché il cuore lavora di più e l’adrenalina aumenta le sue contrazioni. Al momento non siamo ancora in grado di trovare una causa a tutti i casi di morte improvvisa giovanile, come quella di Astori. Un’ipotesi su cui dovremo lavorare è quella dell’eccessivo allenamento: al momento non ci sono riscontri a riguardo, ma quest’ultimo caso dovrebbe portarci a valutare anche questa eventualità».
Sarebbe cambiato qualcosa se Astori non fosse stato da solo in camera?
«In attesa di riscontri chiari, non è possibile addentrarsi in alcuna ipotesi. Astori stava bene e avrebbe dovuto giocare. Basta questo per definire un’assurdità la sua scomparsa precoce».

La Stampa 5.3.18
Accordo Netflix-Sky, che cosa cambia per gli abbonati?
Conviene oppure no e perché i due colossi dell’intrattenimento hanno deciso così all’improvviso di allearsi
di Gianmaria Tammaro


Che Netflix e Sky potessero arrivare a stringere un accordo e a condividere (con – attenzione – i dovuti accorgimenti) archivi e abbonati non era una cosa così prevedibile come qualcuno potrebbe pensare. E non lo era perché i due colossi sono competitor; perché Sky, recentemente, si sta sempre più spingendo online e perché Netflix ha sempre rifiutato di scendere a compromessi, di frenare la sua “rivoluzione”, per trovare un accordo con una parte esterna alla società. In sé, questa notizia non cambia niente. Non effettivamente, almeno. E non per Sky o Netflix. Che non si fondono, né – come altrove è stato scritto – si sposano. Ha un impatto importante, sul mercato. E ha anche un suo peso (fondamentale, probabilmente). Ma rientra in un’idea più ampia, più avanzata, di “servizio”. Le due società restano distinte e separate, e però si preparano a lanciare un pacchetto con cui gli abbonati di Sky Q possono vedere anche Netflix. Tutto, in teoria, dovrebbe partire nel 2019. Prima nel nord-Europa, UK in testa. Poi il resto dei paesi dove è presente Sky. Qui in Italia ancora non si conoscono i dettagli. Bisognerà aspettare ancora un po’, per capire.
Il senso di un’operazione del genere
Perché Netflix e Sky abbiano deciso di unirsi può essere spiegato sotto diversi punti di vista. Dalla prospettiva di Netflix, innanzitutto. Perché così può avere accesso agli abbonati di Sky, abbonati che sono più ricchi, più esigenti in fatti di contenuti; abbonati che sono europei e quindi meno abituati, rispetto agli americani, ad usare la piattaforma di streaming. Per Sky, invece, è un discorso diverso. Più ampio. C’è un chiaro interesse economico (alleandosi con Netflix ha più contenuti e rafforza la propria posizione, specie ora che tutti vogliono comprarla). Ma c’è anche un’idea che guarda al futuro dell’intrattenimento. Perché Sky Q, che per il momento funziona via parabola e decoder, si prepara a diventare altro. Nel Regno Unito, per esempio, ospiterà anche Spotify, dando ai suoi abbonati un pacchetto diversificato, completo, con tutto quello di cui – in teoria – hanno bisogno. Sky pensa al quadro più grande; pensa a fare quello che altrove stanno provando a fare Canal+ (quindi Vivendì) e Telecom. Creare un polo di intrattenimento europeo. Un servizio che vada oltre il semplice abbonamento ad un canale via cavo. Che diventi altro, di più. Non la prima cosa che lo spettatore controlla, appena sveglio (semplificando, è questo quello che vuole Netflix). Ma un punto di riferimento. Se hai Sky Q hai quello che ti serve. Paghi una certa cifra ogni mese, se puoi permettertelo, e hai accesso ai programmi Sky, ai contenuti Netflix e alla musica di Spotify.
Alla ricerca di nuovi abbonati
Questa nuova offerta è rivolta a chi ha già Sky o a chi deciderà di abbonarsi a Sky. Quindi, in un certo senso, va in un’unica direzione. Se ti abboni a Netflix, infatti, non potrai vedere i contenuti Sky. Tuttavia resta comunque un passo in avanti importante per la piattaforma streaming. Perché, così, ha accesso a una fetta di pubblico che, almeno fino a pochi mesi fa, con un’offerta così generalista, difficilmente poteva avvicinare. Parliamo di consumatori di media-alta fascia; di persone pronte a spendere diverse decine di euro ogni mese. Persone con un’idea particolare di cosa vedere e fare. Che non subiscono, la televisione. Ma che la scelgono. Sembra poco, forse, ma non è così. In questo modo, poi, Netflix potrà aumentare il proprio numero di abbonati, perché, di fatto, quelli Sky che sceglieranno questo particolare pacchetto e questa particolare offerta diventeranno anche suoi. Si elimina la scelta “Netflix o Sky?” e si riunisce tutto sotto un unico tetto: quello, appunto, di Sky Q.
Ma come funziona Sky Q?
Al momento, questo particolare abbonamento Sky funziona ancora con la parabola – niente di complicato a livello d’installazione – e il decoder. Ma presto potrebbe funzionare anche attraverso la connessione Internet. Queste, almeno, sono le intenzioni di Sky Europa, che lo scorso gennaio, in una nota diffusa dalla BBC, ha annunciato di voler offrire ai propri abbonati la possibilità di scegliere tra fibra e satellite. Che non è poco. Soprattutto perché oggi l’on demand è fruibile specialmente su Internet (e di piattaforme come Netflix continueranno ad arrivare, questo è poco ma sicuro).
E poi c’è NowTv
Attenzione, però. Non è detto che per accedere a questo pacchetto, Sky+Netflix, ci sia per forza bisogno di abbonarsi a Sky Q (che ha un’offerta consistente e che può rappresentare, almeno a prima vista, uno svantaggio tecnico). Vi si potrà accedere anche attraverso NowTv, che è la piattaforma streaming – con la permette di vedere i programmi anche live e non solo on demand – di Sky. Che non rientra nella tipica offerta d’abbonamento, ma che ha comunque i suoi costi. Assolutamente più accessibili e variabili a seconda dei contenuti a cui si è interessati. Qui in Italia, NowTv ha ancora qualche problema legato alla qualità della connessione. Ma resta comunque uno degli investimenti e potenziamenti più importanti per Sky, che in Spagna ha lanciato un servizio derivato, chiamato “Sky Espana”, che funziona solo in streaming.
Conviene accedere al pacchetto Netflix+Sky?
Alla fine quello che succede – con le dovute differenze di paese in paese, e con le dovute variazioni di costi – è che all’abbonato Sky, o al futuro abbonato Sky, viene data la possibilità di pagare due servizi (altrove, contando anche Spotify, tre) al costo di uno – ancora da definire. È sicuramente più vantaggioso, dal punto di vista economico. Ed è pure un modo per avvicinare fasce di pubblico diverse: chi è stato conquistato dai prezzi e dalle serie e film di Netflix, e chi invece vuole seguire anche altro, come l’intrattenimento e lo sport di Sky e cerca un’idea diversa, almeno dal punto di vista editoriale, per i contenuti seriali. È una grande intuizione, per i due colossi. Ed è un passo in avanti importante nel riunificare, tecnologicamente e contenutisticamente, più servizi.