Corriere La Lettura 4.3.18
«Il capo di Facebook è il nuovo Napoleone »
Un saggio dello storico Niall Ferguson ricostruisce il conflitto secolare tra le strutture gerarchiche e le reti diffuse
Oggi
siamo di fronte a una rivoluzione dal basso, suscitata da internet,
paragonabile a quella causata dall’invenzionedella stampa. Ma da una
parte si rischia l’anarchia, dall’altra il ritorno a un forte
accentramento, anche per l’ascesa della Cina
Intervista di Massimo Gaggi
«Chi
può essere il Napoleone dei tempi moderni in quest’epoca di poteri
deboli che, con la diffusione del digitale, vede di nuovo prevalere
l’influenza delle reti rispetto alle gerarchie del potere temporale?».
Se lo chiede Niall Ferguson in una conversazione con «la Lettura»,
mentre sta per uscire in Italia La piazza e la torre (Mondadori), il suo
nuovo libro. E la risposta dello storico britannico, che oggi si divide
tra Oxford e la Stanford University in California, è abbastanza
sorprendente: «Certo non Donald Trump: molti ne temono le tendenze
imperiali, ma l’argine della Costituzione riuscirà a respingere i suoi
tentativi episodici e velleitari di iniettare autoritarismo nel sistema.
Ha più possibilità Xi Jinping, capo della Cina, la potenza oggi più
dinamica. Ma ci vuole il caos rivoluzionario per emergere come un
Napoleone, mentre Xi ha ereditato il potere dai precedenti leader del
Partito comunista. Il vero Napoleone è Mark Zuckerberg: non so come se
la caverà con i grossi problemi di responsabilità sociale che affliggono
Facebook, ma è passato in breve dalla totale oscurità a essere uno dei
leader più influenti della Terra. Domina le reti sociali più potenti che
l’umanità abbia mai conosciuto».
Da Colossus a Il grande declino ,
a Kissinger l’idealista , i saggi di Ferguson sono cavalcate
affascinanti, stimolanti, spesso provocatorie. Magari anche ardite, ma
sempre capaci di far riflettere. Stavolta l’accademico conservatore
(feroce critico di Barack Obama, è stato consigliere del repubblicano
John McCain alle presidenziali del 2008 e ha sostenuto Mitt Romney nel
2012) si spinge fino a una rilettura della storia degli ultimi 600 anni,
reinterpretata (anche usando le scienze sociali) come un’alternanza tra
ere dominate dalle gerarchie del potere temporale e periodi nei quali
prevale la forza delle reti sociali. Reti che, spiega Ferguson da
Stanford, «sono le strutture naturali che gli esseri umani hanno sempre
creato, ben prima di internet».
Nel suo racconto, che comincia
nella Mesopotamia del 2000 a.C., esamina diverse reti: dalla società
segreta bavarese degli Illuminati all’Isis, dalle organizzazioni
massoniche agli accademici marxisti di Cambridge che si misero al
servizio dell’Urss. Ma i momenti-chiave, quelli nei quali le gerarchie
cedono il passo al diffondersi del potere delle reti, sono due. E sono
legati alla comunicazione: Johannes Gutenberg con l’invenzione della
stampa intorno alla metà del Quattrocento e l’emergere della civiltà di
internet. Perché?
«Internet ha avuto sul mondo lo stesso effetto
che l’invenzione della stampa ebbe sull’Europa nel XV secolo. Gutenberg e
la Silicon Valley hanno aperto la strada a rivoluzioni delle reti che
prima erano impossibili. La prima ha avuto conseguenze durature, che si
sono dispiegate per diversi secoli: la Riforma luterana, la rivoluzione
scientifica, l’Illuminismo, la rivoluzione americana e quella francese
vengono dalla stessa matrice, reti basate su idee trasmesse con parole
stampate».
Che cosa pose fine alla prima era delle reti, all’inizio del XIX secolo?
«Con
la fine del Settecento assistiamo alla consunzione delle energie
rivoluzionarie. Dopo l’esperienza giacobina parte una reazione che dalla
Francia napoleonica si trasmette alle regioni europee circostanti. È il
momento della storia nel quale il pendolo comincia a muoversi nella
direzione opposta: rinascono i poteri centrali, le gerarchie temporali
tornano a prendere il sopravvento. Con la Francia sprofondata nella
violenza e nell’anarchia, Napoleone si presenta come l’unico in grado di
rimettere ordine. E quando, nell’Ottocento, uscirà di scena, avrà ormai
aperto la strada ad altre gerarchie, a partire da quelle emerse dal
Congresso di Vienna. Poi arriveranno alcune rivoluzioni tecnologiche,
tutte in varia maniera destinate a favorire le gerarchie del potere
centralizzato: vale per il telegrafo, la ferrovia, le navi a vapore e,
più tardi, per la radio. Tutti sistemi reticolari facilmente
controllabili dal centro. Una tendenza alla centralizzazione durata per
tutto l’Ottocento e buona parte del Novecento, comprese le due guerre
mondiali. Un ciclo che si è esaurito negli anni Sessanta del secolo
scorso».
Con l’era digitale lei vede risorgere il ruolo guida
delle reti dopo quasi due secoli di dominazione delle gerarchie. Come si
materializza questa riscossa?
«In molti modi, a cominciare
dall’elezione di Trump che è dovuta, almeno in parte, a un abile uso
delle reti: sapiente costruzione dell’immagine televisiva, bravura e
spregiudicatezza nel servirsi di Twitter e Facebook. Per non parlare
delle reti russe che si sono insinuate nel meccanismo elettorale della
democrazia americana e hanno aiutato Trump».
Il nuovo presidente è
arrivato alla Casa Bianca mentre i giganti tecnologici stanno prendendo
il sopravvento: può essere Trump, il nostalgico della forza militare e
politica della superpotenza americana, che non vuole certo farsi
scavalcare dalle aziende digitali, il leader di una controrivoluzione?
«È
arrivato al potere in un momento chiave: potrebbe fare la storia, ma,
come le dicevo, non credo che Trump abbia la forza e l’acume per
svolgere un simile ruolo. Il suo autoritarismo è velleitario. Il rischio
di un rilancio dei sistemi dominati da gerarchie rigide viene da
un’altra parte del mondo: dalla Cina. Qui le grandi piattaforme
tecnologiche, società come Alibaba e Tencent, sono ormai diventate
agenzie di Stato. Le reti risucchiate dalla gerarchia: con la loro
tecnologia il Partito comunista cinese può ottenere un livello di
controllo sui cittadini che i regimi totalitari del XX secolo non si
sono mai nemmeno sognati di poter avere».
Preferisce la creatività delle reti o la stabilità dei regimi basati su gerarchie rigide?
«Preferisco
le reti, motori d’innovazione. Ma bisogna sapere che un sistema
decentrato, con il potere trasferito alle reti, è a rischio anarchia.
Credo sia ormai necessario un intervento sui monopoli digitali. È
rischioso: può trarne vantaggio Pechino. Mentre infatti negli Stati
Uniti i due poteri, governo e Silicon Valley, sono in conflitto, in Cina
lavorano insieme. È rischioso ma necessario».
Che fare?
«Troppo
potere concentrato nelle mani di poche imprese: gran parte della sfera
pubblica è dominata da monopoli digitali come Amazon, Google e Facebook.
Queste società gestiscono servizi popolari, ma ciò dà loro un potere
eccessivo e la possibilità di abusarne. È pericoloso, anche perché ormai
il 45 per cento degli americani riceve le sue informazioni politiche da
Facebook. Lo status quo non è più sostenibile: servono regole. Non
credo si debbano scindere queste società troppo grosse, ma bisogna
impedire che si ripetano altri Russiagate. E occorre ricreare un terreno
livellato, eliminando i privilegi concessi a metà degli anni Novanta
alle imprese digitali, che continuano a non essere responsabili, a
differenza degli editori tradizionali, dei contenuti messi in rete».
Lei ammette, però, che gli Usa rischiano il sorpasso tecnologico della Cina.
«Se
fossi nei panni di Zuckerberg, direi che Facebook e le altre società di
Big Tech sono un importante patrimonio dell’America per tenere testa a
Badu, Alibaba e Tencent. Ma non è questo l’argomento usato dalla Silicon
Valley: vogliono costruire comunità globali, non avere a che fare con
Washington».
Il confine tra reti e gerarchie è labile. Lei stesso
dice che le gerarchie sono reti di altro tipo. Perché fin qui gli
storici hanno dedicato scarsa attenzione a questi fenomeni?
«Perché
scrivere la storia delle reti è molto difficile: non hanno archivi e
molte di esse non vogliono nemmeno farsi conoscere. La mafia non tiene
documenti, così come gli Illuminati. Neanche i massoni aiutano gli
studiosi. E poi questa è un’area nella quale gli storici si sentono a
disagio, perché attira i teorici delle cospirazioni: meglio restare sul
terreno sicuro degli archivi ufficiali. Ma è proprio portando il metodo
storico nelle reti che si disinnescano le visioni cospiratorie».
Il titolo del libro richiama un’immagine di Siena: Piazza del Campo con la Torre del Mangia. Perché?
«Ho
scritto il libro senza avere un titolo. Pensavo a Reti e gerarchie , ma
all’editore non piaceva la parola gerarchia. Poi, guardando le
riproduzioni degli affreschi del palazzo pubblico di Siena che da
trent’anni, da quando ero uno studente, ho davanti agli occhi nel mio
studio, mi sono reso conto che quella tra la piazza del popolo e la
torre del potere gerarchico era la perfetta giustapposizione».
I
conflitti nel mondo islamico e il terrorismo mediorientale hanno
rappresentato il battesimo del fuoco per la nuova era delle reti
digitali. L’Isis è divenuto un incubo planetario grazie al reclutamento
open source dei terroristi. E le tecnologie digitali sono state usate,
maldestramente, per tentare di democratizzare il mondo arabo.
«Silicon
Valley ha sbagliato la lettura degli eventi in Medio Oriente e in Nord
Africa durante e dopo le Primavere arabe. Il presidente di Google Eric
Schmidt e il manager Jared Cohen si erano detti certi che internet
avrebbe aiutato i movimenti democratici contro i regimi autoritari. Con
la deposizione di Hosni Mubarak le cose sembrarono andare in questa
direzione: ricordo dirigenti di Google in piazza Tahrir a festeggiare.
Invece la cacciata di Mubarak ha favorito un’altra rete più diffusa e
solida, ma ancora meno democratica: la Fratellanza musulmana. Ci si era
basati su ipotesi velleitarie: nella realtà strumenti come Facebook e
Twitter erano poco diffusi nelle grandi aree urbane dell’Egitto e
assenti nelle zone rurali».
Alla fine ritorneremo alle rigide
gerarchie verticali, dopo tante promesse di democrazia elettronica? È un
illuso chi punta sulla blockchain, la tecnologia di certificazione alla
base dei bitcoin, per una nuova stagione di decentramento del potere?
«È
lecito sperare, ma non mi faccio illusioni: le reti informatiche hanno
sempre finito per concentrare il potere, la blockchain è dominata da
pochi. Così come sono una ristretta élite coloro che beneficiano dei
bitcoin. E anche l’attività di mining , l’emissione di criptovalute, è
roba per pochi, concentrati soprattutto in Cina. Ma prima di rassegnarsi
all’idea di questo grande Paese asiatico che subordina totalmente la
piazza alla torre, è il caso di riflettere sull’esperimento rischioso
messo in campo da Pechino: la creazione di una gigantesca borghesia, il
più immenso ceto medio della storia. È gente che prima o poi chiederà
rispetto della legalità, rappresentanza politica, responsabilità
amministrativa, come avvenne in Europa nel XIX secolo. Se il popolo
uscito dalla povertà si comporterà come previsto da Karl Marx, come una
classica borghesia, allora per la Cina sarà più difficile andare avanti
col partito unico e imporre la sua gerarchia».