Corriere La Lettura 25.3.18
Intellettuali
La militanza radicale nuoce all’antropologia
Sulla scorta di autori come Toni Negri e Agamben ha preso piede una visione per cui lo Stato è sempre diabolico
di Stefano Allovio e Adriano Favole
Un
evento certo non trascurabile nella storia dell’umanità è quello che
Hakim Bey, nel libro T.A.Z. Zone Temporaneamente Autonome (SheKe),
definisce la «chiusura della mappa»: da più di un secolo, piaccia o no,
gli esseri umani sono (in un certo senso) tutti inseriti all’interno di
istituzioni statali o lottano per o contro qualche Stato. Nessun angolo
di mondo è ormai fuori da qualche forma di Stato. Chi fugge senza avere
il diritto di entrare in un altro Stato vive in un limbo pericoloso: lo
sanno bene i 27 migranti che nel maggio del 2007 restarono in bilico
sulle passerelle di una gabbia per la pesca dei tonni nelle acque del
Mediterraneo.
Se gli umani non possono più scegliere se
appartenere o meno a qualche Stato, gli scienziati sociali possono
ancora scegliere a quale immagine dello Stato affidarsi. È qui che
irrompe una forte dicotomia: lo Stato come istituzione cattiva,
repressiva, violenta, produttrice di disuguaglianze e sopraffazione (lo
Stato diavolo) oppure lo Stato come buon padre di famiglia, garante del
bene comune e dei diritti individuali (lo Stato divino). A ben vedere,
entrambe le immagini sono univoche e ideologiche. Nonostante ciò, se gli
antropologi culturali hanno da tempo smascherato la caricatura
santificante (lo Stato buono) che le autorappresentazioni istituzionali
spesso producono, non si può dire che essi abbiano con ugual forza e
convinzione smascherato la caricatura demonizzante (lo Stato cattivo).
Eppure, in virtù del loro tipo di sguardo, spetterebbe agli antropologi
un’analisi attenta alla complessità, al contesto storico e sociale.
Questo
e molto altro denuncia Fabio Dei, con lucidità e un’accesa vis
polemica, in un saggio incluso in una recente raccolta da lui curata con
Caterina Di Pasquale, Stato, violenza e libertà (Donzelli). Il motivo
per cui molti antropologi (ma anche altri studiosi, dai sociologi ai
politologi) sono caduti nella trappola che consiste nell’idea che lo
Stato sia la fonte di tutti i mali — una visione alquanto essenzialista e
monolitica, in effetti — è l’irrompere di un codice espressivo che si
pretende engagé e politicamente radicale. È un simulacro di filosofia
che Barbara Carnevali ha definito Theory ( Contro la Theory ,
leparoleelecose.it), una sorta di scolastica che annovera, in un mix
caotico, frammenti di Marx, letture «pop» di Michel Foucault, Jacques
Derrida e Gilles Deleuze, citazioni di Giorgio Agamben, Gayatri Spivak,
Toni Negri e altri cantori del sospetto radicale: per quanto concerne in
specifico l’antropologia, la Theory è riconducibile ai post-colonial
studies e soprattutto alla critical anthropology . Gli autori che si
riconoscono in tali prospettive amano identificare le norme statali solo
con il loro ruolo repressivo e liquidare la «cultura» (il cui studio
rappresenta la storica ragion d’essere dell’antropologia culturale!)
come «puro rivestimento ideologico degli interessi di potere». Lo Stato
diviene così l’Impero del Male che contamina ogni simbolismo, ogni
possibilità di condivisione, ogni contesto di vita vissuta. Lo Stato
repressivo e i suoi camuffamenti, tra cui la democrazia progressista e i
diritti umani, divengono un’essenza e, paradossalmente, una sorta di
condizione «naturale» dell’umanità, priva di vie di fuga.
Il
cardine dell’antropologia critica — scrive Dei — è l’impegno militante
al fianco dei dannati della terra (colonizzati, migranti, proletari,
donne, neri, persone omosessuali o transessuali). Ne consegue che tutta
l’antropologia diventa antropologia politica e orienta — aggiungiamo noi
— i suoi interessi esclusivamente verso la sofferenza, e la violenza,
facendo calare una coltre tematica e interpretativa monocolore. Una dark
anthropology per dirla con Sherry Ortner.
Attenzione, spiega Dei,
è fuor di dubbio che le discriminazioni e le disuguaglianze verso i
soggetti subalterni sono uno dei grandi problemi del tardo capitalismo,
ma la Theory e il suo braccio antropologico (la critical anthropology )
usano toni totalizzanti, non ammettono ambivalenze e sfumature, non
tracciano vie di uscita. L’Impero si annida tanto nelle democrazie
quanto nei totalitarismi, nelle agenzie umanitarie come nei sistemi
repressivi, tutto è manifestazione del sistema «neoliberista» che deve
essere svelato e denunciato con forza.
L’impressione è che si
vada, lancia in resta, a lottare al fianco degli ultimi. In realtà il
radicalismo attuale non è così ingenuo da avanzare linee di azione, «gli
basta fornire gli strumenti della distinzione intellettuale e sociale
dei suoi proponenti». Tale postura produce «l’odierna marginalizzazione
dalla sfera pubblica delle discipline egemonizzate dalla Theory . Non
perché troppo eversive e temute dal Potere, come a molti piace pensare,
ma perché autoreferenziali e grandiosamente distaccate dal buon senso».
Si preferisce un gergo esoterico («forclusione», «nuda vita», «stati di
eccezione») alla mediazione con il linguaggio comune; si rinuncia in
realtà a instaurare ogni rapporto gramscianamente «organico» con i
gruppi che si vorrebbe difendere. L’esito pare essere una deriva
piuttosto preoccupante, già presente nelle riflessioni di fine millennio
degli antropologi-guru della svolta critica. Fabio Dei guarda
all’antropologia medica e porta l’esempio di Nancy Scheper-Hughes.
L’antropologa americana riduce la malattia a una implicita contestazione
del sistema di potere e gli interventi terapeutici ad azioni
controrivoluzionarie che, facendo evaporare gli «spiriti della
resistenza», inculcano gli «spiriti del capitalismo»; insomma, osserva
satiricamente Dei, «è bene che i poveri tagliatori di canna brasiliani
non si facciano curare perché gli accademici radicali nordamericani
possano parlare di rivoluzione».
Occorre ribadire che Dei non è
certo un negazionista rispetto ai crimini del colonialismo, né un
sostenitore del fatto che viviamo epoche di genuina decolonizzazione. Si
tratta anzi di uno dei più attenti studiosi della violenza, dei suoi
contesti e delle sue trasformazioni e mascheramenti storici. E qui sta
il punto. Il problema è che la Theory non ci permette affatto di capire
le nuove forme del colonialismo. Perché, come abbiamo detto, naturalizza
lo Stato diabolico. A differenza delle prospettive interpretative e
riflessive, la Theory prende congedo dai contesti di significato e
soprattutto nega il ruolo delle culture, intese in senso antropologico,
come snodi di poteri e simboli condivisi. Con il rischio che, liquidata
la cultura, liquidata ogni reale possibilità di riformare le
istituzioni, non rimanga che un simulacro di homo oeconomicus a definire
l’essere umano, producendo così un’imbarazzante convergenza tra la
Theory e la sua ossessione neoliberista. Di che riflettere oggi, e ben
aldilà dei recinti accademici.