Corriere La Lettura 25.3.18
Filosofi? Solo nel weekend
Il
rapporto dialettico tra servo e signore, evocato da Hegel e analizzato
da Kojève, chiama gli intellettuali all’impegno fuori dai loro circoli
chiusi
Ma forse i pensieri più originali sono invece frutto dell’ozio, dei momenti in cui ci si distacca dalle preoccupazioni mondane
di Mario Bonazzi
«È
stato terribile. Alla conferenza si sono presentati più di 300 giovani,
si è dovuto cambiare sala, e ciò nonostante la gente era seduta per
terra. Se si pensa che una cosa del genere capita solo per le conferenze
di Sartre!». Gli inizi erano stati ben diversi. «E sì che quando ho
iniziato a parlare all’École (l’École Pratique des Hautes Études, una
delle grandi istituzioni francesi, ndr ) erano presenti a malapena una
dozzina di persone!». Ma che dozzina: in quell’auletta si confondevano,
tra occhiali rotondi, odore di lacca e colletti inamidati, con tutto il
loro bagaglio di piccole perfidie e grandi idee, Jacques Lacan e Hannah
Arendt, Raymond Queneau e Raymond Aron, Maurice Merleau-Ponty ed Eric
Weil, George Bataille e Roger Caillois, e forse anche André Breton e Leo
Strauss. Figure eccentriche, in quel momento, quasi tutti giovani, in
fuga da qualcosa o da sé stessi, ma destinati a ben altro futuro. Le
lezioni erano estenuanti — «il corso mi ha sfinito, annientato, ucciso
dieci volte», scriveva Bataille — un commento pressoché infinito di
alcune pagine di uno dei testi in assoluto più difficili mai scritti, la
Fenomenologia dello Spirito di Hegel.
A officiare, in un rito che
si sarebbe rinnovato ogni settimana per sei anni (dal 1933 al 1939),
era Alexandre Kojève, un giovane emigrato russo nato nel 1902, esule in
fuga dalla rivoluzione bolscevica, ma forse una spia dei servizi segreti
sovietici, nipote di Vasilij Kandinskij, seduttore implacabile — di lui
si è detto tutto e il contrario di tutto —, senza dubbio il signore
assoluto della scena filosofica parigina.
A questo gruppo, davvero
inimitabile, è dedicato il bel saggio di Massimo Palma, appena
pubblicato da Castelvecchi, Foto di gruppo con servo e signore .
Più
precisamente, tutto girava intorno a poche pagine. Pagine oscure,
astruse, a volte incomprensibili; ridicole e tragiche allo stesso tempo:
così come ridicola e tragica allo stesso tempo è la vita degli esseri
umani, che era poi il tema di fondo di quelle lezioni e di quel libro.
Si raccontava il viaggio della coscienza (che poi saremmo noi) in cerca
del significato della propria esistenza, di un posto nell’universo, e
del bisogno di essere riconosciuti: perché in un mondo senza più Dio,
senza più un Dio che ci osserva, è solo così, vale a dire nel
riconoscimento reciproco, che potremo dire di essere vissuti realmente.
Diversamente
è la natura che si ripete eternamente identica a sé stessa, bellissima
ma silenziosa, indifferente, estranea: «Senza alcun dubbio la singola
mosca muore, ma queste mosche qui sono le stesse dell’anno passato.
Quelle dell’anno passato sono forse morte? Può essere, ma nulla è
scomparso. Le mosche restano uguali a sé stesse come le onde del mare»
(Bataille). Non basta, non può bastare. La storia nasce come negazione
di questa unità indistinta della natura, quando questi esseri inquieti
che sono gli uomini iniziano la loro battaglia contro l’angoscia del
nulla, alla ricerca di sé stessi, per dimostrare che non siamo qui per
caso, come mosche o foglie.
Per questo cerchiamo gli altri, ne
abbiamo bisogno, come di uno specchio che rifletta e ci riveli nella
nostra inimitabile specificità, nel nostro valore. «La realtà umana è
sempre sociale», scrive Kojève, l’uomo è l’animale politico: solo gli
dèi e le bestie vivono da soli; «l’uomo reale e vero è il risultato
della sua interazione con altri». Il problema, però, è che questo
desiderio di riconoscimento è sempre foriero di conflitti e tensioni: la
mia affermazione, il riconoscimento della mia importanza, passa per la
negazione dell’altro. È la dialettica tra servo e padrone, il cuore
della Fenomenologia : solo chi osa, chi è pronto a mettere tutto in
discussione, potrà affermarsi. «Conflitto è padre di tutte le cose, e
alcuni li fa liberi altri schiavi»: persino l’oscuro Eraclito diventava
chiaro grazie a Hegel e Kojève. Con una sorpresa finale, un’inversione
paradossale dei ruoli: il padrone, affidando tutto al suo sottoposto,
finisce per dipendere da lui, che in questo modo scoprirà la sua forza,
prendendo il sopravvento. E via di seguito, di rovesciamento in
rovesciamento: così procede la storia, quando i vinti rialzano la testa.
Teorie
astruse? Forse, ma non prive di una loro attualità. Perché in fondo
trasmettevano un insegnamento molto semplice: che non esistono anime
belle, che quello che siamo dipende dal rapporto che costruiremo con gli
altri, dalla determinazione con cui affronteremo le sfide della vita.
Solo agendo, esponendosi al rischio dell’insuccesso (della morte,
scriveva Hegel), si può sperare di realizzare qualcosa.
Era anche
una critica sferzante agli intellettuali, chiusi nei loro giardini e
nelle loro parrocchie, sempre intenti a discutere tra loro: schiavi
dunque dei loro pregiudizi così come la tanto vituperata folla dei non
iniziati lo è dei propri; e per questo incapaci di comprendere la realtà
che li circonda; destinati a essere superati dal corso degli eventi.
Niente male come lezione, mentre le truppe naziste si apprestavano a
marciare su Parigi.
Poi tutto era cambiato. Sempre funambolico, ma
in fondo coerente con le sue idee, dopo la guerra Kojève aveva
repentinamente abbandonato il mondo accademico, entrando
nell’amministrazione, al ministero degli Affari economici, dove divenne
in breve tempo un’eminenza grigia della politica commerciale francese,
invincibile nelle negoziazioni internazionali («quando le altre
delegazioni vedevano arrivare Kojève, e in special modo se lo vedevano
arrivare solo, era il panico», ricordò dopo la sua morte un funzionario
che gli era stato collega per anni). Sembrava il Talete di cui aveva
parlato Platone, quello che cade nel pozzo perché assorto nella
contemplazione del cielo. Si era rivelato come il Talete di Aristotele,
che, grazie alla conoscenza del cielo e dei fenomeni atmosferici, aveva
preso il controllo di tutti i frantoi, «dimostrando che per i filosofi
avere successo è veramente facile — se solo lo vogliono». Per la
filosofia non restava ormai che il fine settimana: e «filosofo della
domenica» Kojève sarebbe diventato per tutti, secondo la folgorante
definizione di Raymond Queneau.
Del resto — e questo è l’ultimo
paradosso di un pensatore che viveva di paradossi — è in fondo proprio
la domenica il giorno decisivo, quando finalmente ci si ferma e la cosa
più importante forse si rivela. La saggezza, la serenità raggiunta.
L’avevano inseguita tutti, la trovò forse il solo Queneau, tra tutti
l’allievo più imprevedibile, lo scrittore capace di esprimere la
filosofia del maestro in forma di romanzi (ed è a lui che si deve tra
l’altro la trascrizione e pubblicazione dei corsi all’École Pratique — e
dunque la creazione del mito di Kojève). E se tutto questo affannarsi
nelle azioni e questo correre dietro alle parole non portasse da nessuna
parte? E se la saggezza non fosse altro che la capacità di sorridere
dello spettacolo d’arte varia (questo è Paolo Conte) e strampalata che
sono gli uomini e le loro vite? Né servi né padroni, senza bisogno di
essere riconosciuti o di riconoscere?
Lo aveva ammesso persino il
grande Hegel, in un momento di rara lucidità: «In questa sfrenatezza
priva di preoccupazioni è implicito il momento ideale: è la domenica
della vita, che tutto uguaglia e che allontana ogni cattiveria; persone
che sono così cordialmente di buon umore non possono essere del tutto
cattive o basse». Anche Kojève alla fine gli aveva dato ragione:
«Queneau ha riassunto la Fenomenologia dello Spirito scrivendo Zazie nel
metro . Zazie era venuta a Parigi per vedere la metropolitana. Ma la
sola volta in cui ci andò, s’addormentò e non vide nulla. Ecco il
romanzo della saggezza». Se fosse proprio così, e tutto qui? I pensieri
più impertinenti vengono quando si ozia — di domenica, insomma — e forse
sono i migliori.
O forse non è così, e neppure questa
soddisfazione — una «negatività senza impiego», diceva Bataille —
riuscirà a placare l’ansia tutta umana di agire, combattere, costruire?
La mosca non smette di ronzare, disturbando il pensiero; la storia
continua…