Corriere La Lettura 18.3.18
A caccia del nazista Mengele senza guardarmi l’ombelico
di Stefano Montefiori
In
casa di Olivier Guez ci sono due giradischi con il mixer e i vinili di
«disco» teutonica, mobili vintage, ricordi dei viaggi nei grandi
alberghi storici, dal Waldhaus nell’Engadina di Nietzsche al Parco dei
Principi progettato da Gio Ponti a Sorrento, dove Guez si è sposato con
la giornalista franco-tedesca Annabelle Hirsch; e poi tanti libri sul
calcio e sul Brasile (Guez ne ha scritto uno sul dribbling e Garrincha,
Eloge de l’ésquive ), sul resto del Sudamerica, l’ebraismo, la Germania,
il dopoguerra. Qualcuna di queste passioni e ossessioni è finita in La
scomparsa di Josef Mengele , pubblicato ora in Italia da Neri Pozza,
dopo il Prix Renaudot e uno straordinario successo in Francia.
Nato
nel 1974 in una famiglia ebrea di Strasburgo, Guez è scrittore,
giornalista e sceneggiatore ( Lo Stato contro Fritz Bauer ). Ha dedicato
il suo secondo romanzo al «pascià» e al «ratto»: l’ufficiale delle SS
Josef Mengele, il medico che ad Auschwitz torturava i bambini per i suoi
esperimenti mentre viveva piacevolmente con la moglie e che, grazie a
Juan Domingo Perón, fu trattato da pascià con villa e limousine anche a
Buenos Aires; quindi, a partire dal 1960, l’uomo mai pentito ma
finalmente vinto, costretto a nascondersi come un ratto in una fattoria
brasiliana aspettando la morte, giunta nel 1979. Il romanzo di Guez è il
racconto iper-documentato e secco del Mengele sudamericano,
protagonista per molti anni di una surreale nazi society argentina.
Perché la forma del romanzo?
«Lavoro
da molti anni su questi temi, per esempio ho scritto il saggio
L’impossible retour, “L’impossibile ritorno ” degli ebrei in Germania
dopo il 1945, e conosco bene l’America del Sud: a un certo punto ho
sentito che era il momento di raccontare la storia dei nazisti in
Sudamerica e il personaggio di Mengele si è imposto come un’evidenza. Ma
non sono uno storico, e poi volevo evitare l’inchiesta giornalistica».
Come mai ha voluto evitare il genere dell’inchiesta?
«Non
volevo mettermi in scena. Non mi piace quel genere
letterario-giornalistico nel quale l’autore espone le sue ricerche e
intanto ne approfitta per parlare di altro, essenzialmente del suo
ombelico. Penso che sia accettabile solo se vai veramente fino in fondo,
insomma funziona solo se sei Emmanuel Carrère. Il mio modello è stato A
sangue freddo di Truman Capote, un romanzo di non-fiction. La scomparsa
di Josef Mengele è un romanzo di non-fiction grazie al quale il lettore
può farsi un’idea precisa di chi era Mengele e della sua psicologia».
Ha fatto molte ricerche?
«Dietro
al romanzo ci sono circa 12 anni di letture, da quando nel 2005, mi
sono trasferito a Berlino e ho cominciato a lavorare sulla Germania del
dopoguerra. Mi sono abbuffato di Germania, ho letto letteratura, saggi,
storia, tutto».
E poi?
«Ho visitato la città dei Mengele,
Günzburg, in Baviera. C’è una piscina con una targa, la data del 1957 e i
ringraziamenti alla famiglia Mengele. Hanno finanziato tutto, in città,
e ancora alla fine degli anni Cinquanta erano considerati dei notabili
da omaggiare».
Quanto tempo in Sudamerica?
«Oltre ai molti
viaggi in passato, circa un mese e mezzo per le ricerche specifiche. A
Buenos Aires sono stato accolto molto gentilmente dal club tedesco, ho
mentito dicendo che dovevo scrivere una tesi sugli anni Cinquanta, poi
appena ho fatto il nome di Mengele tutti hanno perso la parola. Ho
visitato i luoghi dove ha vissuto, i bei quartieri».
La «nazi society»?
«Era
un universo completo. I nazisti riparati a Buenos Aires avevano il loro
giornale, “Der Weg” , i loro negozi. L’incontro tra Eichmann e Mengele,
che c’è stato davvero, l’ho ambientato al ristorante ABC, che esiste
ancora: stemmi dei Länder tedeschi, servizi di piatti con il logo
scritto in caratteri gotici, atmosfera da anni Trenta. Ci ho mangiato,
il gulasch non è tanto buono ma l’esperienza straordinaria. Poi ho
trovato l’ultimo nascondiglio di Josef Mengele in Brasile».
Nella prima parte c’è un’ottima descrizione dell’Argentina di Perón.
«Di
quel mondo abbiamo un’immagine infantile, molto legata al musical Evita
e al film con Madonna. Ma Perón aveva una visione strategica. Come i
nazisti che proteggeva, Perón pensava che la terza guerra mondiale
imminente avrebbe spazzato via Usa e Urss. E sperava che il suo Paese ne
avrebbe preso il posto».
La caccia ai nazisti sembra poco convinta.
«Di
solito si pensa che subito dopo la guerra sia cominciata la ricerca dei
criminali. Non è così, anche il Mossad aveva altre priorità. Mengele
passa in Sudamerica trent’anni, è convinto di essere braccato dai
servizi segreti di tutto il mondo ma in realtà, ed è qui la parte
romanzesca, gli danno la caccia per davvero solo negli ultimi tre anni,
ovvero un decimo del suo soggiorno tra Argentina, Brasile e Paraguay».
Anche
la presa di coscienza nell’opinione pubblica arriva negli anni
Settanta, con lo sceneggiato televisivo americano «Olocausto» e con
«Shoah» di Claude Lanzmann.
«Ero un bambino e ne sentivo parlare
per la prima volta ma anche gli adulti hanno scoperto con me quella
tragedia. Fino a quel momento l’impatto dei campi di concentramento
nell’immaginario europeo e mondiale è stato molto ridotto».
Voglia di rimozione?
«Fino
a quando i quadri del nazismo non sono andati in pensione, sì. Ci sono
stati i processi, Norimberga, ma la prima commemorazione della Notte dei
Cristalli è del 1978. Il vero lavoro di memoria comincia allora, non
prima. Anche in Germania si è preferito non mettere in pericolo le
strutture economiche, giudiziarie e accademiche della società».
I tedeschi dell’Est accusavano la Germania Ovest di essere erede morale del regime nazista, avevano ragione?
«Avevano
ragione sulla mancata epurazione, solo che la Germania Ovest a un certo
punto un lavoro di memoria lo ha pur fatto, mentre la Ddr si è sempre
autoassolta vantando un antifascismo che in realtà gli è piovuto in
testa».
Il nazismo è al centro di molta letteratura francese degli
ultimi anni: Jonathan Littell, Laurent Binet, Éric Vuillard vincitore
dell’ultimo Goncourt e lei vincitore dell’ultimo Renaudot. Perché?
«Facciamo
parte più o meno della stessa generazione, ci saranno al massimo 10
anni di scarto tra noi. Siamo ancora figli del dopoguerra. Il periodo
1914-1945 è la seconda grande guerra civile europea dopo la guerra dei
Trent’anni, e non è passato ancora abbastanza tempo per uscirne del
tutto. Poi i testimoni vengono a mancare, la letteratura prende il
testimone».
Il libro è dedicato alla memoria di Ada e Giuditta
Spizzichino, Grazia di Segni e Rossana Calò, e il primo nome nella
bibliografia è Dante. Perché?
«Per qualche mese, quando ho abitato
nel ghetto a Roma, ho letto tutti i giorni i loro nomi sulle lapidi
vicino a casa. Sono morte ad Auschwitz. Quanto a Dante, certe scene
della Divina commedia corrispondono all’universo concentrazionario. Cito
anche Bosch, fanno entrambi parte del patrimonio culturale europeo. Ne è
espressione anche lo spregevole Mengele. Che aveva fatto ottimi studi,
come la moglie storica dell’arte a Firenze, del resto. Mengele non è un
mostro ma un uomo, purtroppo».