Corriere La Lettura 18.3.18
A Vichy il primo asse franco-tedesco
Petain e i suoi pensavano ad una stretta integrazione con la Germania
di Sergio Romano
Benito
Mussolini dichiarò guerra alla Francia e all’Inghilterra nel giugno del
1940 per riparare a un errore commesso qualche mese prima. Nel
settembre del 1939, quando la Germania invase la Polonia, era giunto
alla conclusione che il Terzo Reich e la Francia avrebbero combattuto,
come cinque lustri prima, dietro le rispettive linee fortificate
(Maginot e Siegfried), una lunga e logorante guerra di posizione.
L’Italia perciò sarebbe stata a guardare e avrebbe fatto le sue scelte
non appena le sorti del conflitto fossero divenute più chiare. Dunkerque
e la clamorosa avanzata tedesca, nel maggio e giugno del 1940, lo
colsero di sorpresa. Entrò in guerra per partecipare alla spartizione
del bottino e soprattutto per diventare il condomino mediterraneo di
un’Europa destinata a essere in larga parte germanica.
Non fu il
solo a sbagliare. Con motivazioni diverse la Francia, dopo la vittoria
tedesca del 1940, giunse a conclusioni simili. Il maresciallo Philippe
Pétain, gli ambienti industriali, molti uomini politici e parecchi
intellettuali erano convinti che la sconfitta fosse una meritata
punizione per lo stato politico e morale del loro Paese. Pensavano che
il regime parlamentare avesse reso la Francia rissosa, ingovernabile e
corrotta, che le leggi sociali adottate dal Fronte popolare (una
coalizione formata nel 1936 da socialisti, comunisti e radicali)
avessero regalato potere ai sindacati e intaccato l’autorità dei patron .
Per qualcuno di loro (Charles Maurras ad esempio) la morte dello Stato
repubblicano era addirittura una «divina sorpresa», una occasione da
cogliere per ripulire il Paese dalle impurità che la rivoluzione
francese e il regime parlamentare avevano depositato sulle istituzioni
nazionali.
In questo clima presero corpo anche nuove politiche
economiche. Riapparve sotto nuove spoglie la Francia colbertista e
dirigista di Luigi XIV, il Re Sole. Una nuova generazione di tecnocrati
sostenne che alla crisi del capitalismo, dopo il grande naufragio di
Wall Street nel 1929, occorreva dare una risposta ispirata dalle
economie corporative che alcuni regimi autoritari (Italia e Portogallo
in particolare) stavano applicando in quegli anni. Il risultato fu la
creazione di numerosi enti governativi per la gestione dei diversi
settori economici e di associazioni professionali che il governo avrebbe
usato per inquadrare le energie della nazione. Il nuovo sistema avrebbe
avuto il merito di sintonizzare l’economia francese con l’economia
tedesca e di gettare fra i due Paesi una sorta di ponte economico.
Qualcuno si spinse sino a proporre che Francia e Germania divenissero
membri di una grande unione doganale.
È arrivata nelle librerie
francesi in queste settimane una Histoire économique de Vichy ,
pubblicata dall’editore Perrin, in cui tre studiosi (Fabrice Grenard,
Florent Le Bot, Cédric Perrin) descrivono il volume e l’importanza degli
scambi franco-tedeschi che si svilupparono sotto il regime
collab0razionista. Chi ancora lo ignorava apprende così che la Francia,
durante l’occupazione tedesca, fornì alla Luftwaffe parecchie migliaia
di aerei da trasporto, che il Vallo Atlantico, voluto da Hitler quando
gli Stati Uniti entrarono in guerra nel dicembre 1941 («la più grande
fortificazione militare costruita dopo la grande muraglia cinese»), fu
realizzato da imprenditori francesi; che lo stesso accadde per le basi
sottomarine tedesche della costa atlantica; che il Servizio del lavoro
obbligatorio forniva alla Germania, nel giugno 1944, 750 mila operai
francesi; che le risorse economiche dell’impero coloniale francese
furono messe a disposizione dell’occupante; che Biserta, in Tunisia, fu
offerta dalla Francia per rifornire l’Afrika Korps di Erwin Rommel
durante la campagna condotta insieme alle forze italiane nell’Africa del
Nord.
Dietro l’economia, naturalmente, vi era un disegno
politico. I vertici della Francia di Vichy erano convinti che Hitler
avrebbe vinto la guerra mondiale, che l’Europa sarebbe stata in gran
parte «germanica» e che la collaborazione con gli occupanti avrebbe
permesso a Parigi, dopo la fine del conflitto, di recitare accanto al
Terzo Reich il ruolo del comprimario. La Carta del Lavoro, pubblicata
sul «Journal Officiel» del 26 ottobre 1941 fu un omaggio ai fascismi
europei e l’arianizzazione della Francia, in questa prospettiva, fu
anche la rivendicazione di una comune cultura razziale.
Anche se
Hitler sembrò spesso trattare le aperture francesi con cautela e
diffidenza, esisteva ormai, verso la fine della guerra, un asse
franco-tedesco. Il suo cervello fu un «Centro francese di collaborazione
economica e culturale europea», creato nel settembre 1941. Aveva la sua
sede al numero 92 dei Champs Élysées, nella casa abitata da Thomas
Jefferson durante la sua missione diplomatica a Parigi dal 1785 al 1789,
e aveva duemila soci che rappresentavano l’intellighenzia, la finanza e
l’industria francese. Molti appartenevano alla nidiata europeista di
Aristide Briand, il grande ministro degli Esteri dell’anteguerra. Altri
finirono di lì a poco di fronte a un magistrato o a un plotone di
esecuzione.
Quell’asse non è morto. Il generale Charles de Gaulle
ha fatto con la Germania di Konrad Adenauer ciò che il maresciallo
Pétain e Pierre Laval avevano cercato di fare con Adolf Hitler. Lo
spirito delle due politiche è alquanto diverso, ma in entrambi i casi la
Francia aveva capito che i due Paesi, se non volevano distruggersi a
vicenda, dovevano andare d’accordo.