domenica 18 marzo 2018

Corriere La Lettura 18.3.18
Michelangelo, tentazioni luterane
Dopo di lui credere diventa teatro
di Arturo Carlo Quintavalle


Due concezioni del divino, due modi di pensare il rapporto fra uomo e Dio attraversano il Cinquecento, il secolo dove è più duro il confronto fra religiosità diverse: Chiesa cattolica e chiese protestanti. Nella Vita di Michelagnolo Buonarroti , Ascanio Condivi nel 1553 scrive: «Fece anco, per amor di lei (Vittoria Colonna, ndr ), un disegno d’un Gesù Cristo in croce, non in sembianza di morto, come comunemente s’usa, ma in atto divino col volto levato al Padre».
Nella mostra L’Eterno e il Tempo tra Michelangelo e Caravaggio , curata da Antonio Paolucci e Gianfranco Brunelli e aperta fino al 17 giugno ai Musei San Domenico di Forlì, due dipinti di Marcello Venusti (1550) sembrano muovere dai disegni di Michelangelo dove il corpo di Gesù evoca il sublime della statuaria antica nel vuoto del paesaggio. Esposto c’è il grande Cristo Portacroce di Michelangelo ritrovato a Bassano Romano (1513-1515), prima versione del Cristo di Santa Maria sopra Minerva : il corpo che evoca l’antico, in una mano i simboli del martirio, un braccio lungo il corpo come nel David dell’Accademia, a Firenze. Il confronto che, fin dal secondo decennio, contrappone Michelangelo e Raffaello (meditazione sul divino da una parte, messa in scena e racconto di storia dall’altra) ricompare ancora ne La pesca miracolosa , l’arazzo vaticano disegnato (1515-1519) dall’urbinate.
Sono oltre duecento i capolavori esposti a Forlì: dall’ultimo Michelangelo a Caravaggio, passando per Rosso Fiorentino, Lorenzo Lotto, Pontormo, Sebastiano del Piombo, Bronzino, Vasari, Daniele da Volterra, El Greco, Federico Barocci, Veronese, Tiziano, Federico Zuccari, Domenico Beccafumi, Giuseppe Valeriano. Il racconto delle passioni è evidente nella Deposizione (1524) di Correggio recitata come in Niccolò dell’Arca, mentre Giorgio Vasari, in un’altra imponente Deposizione (1539-1540), cerca di unire storia, ritratto, paesaggio, insomma Raffaello, e vigore, densità dei corpi di Michelangelo. Ma il confronto fra le due concezioni delle immagini è chiaro dopo la presentazione del Giudizio di Michelangelo alla Sistina (1534-1541): spazio di nudi, spazio sospeso fuori della storia.
È tempo ormai di scontri frontali. Per rispondere alle critiche di Lutero, il Concilio di Trento (1545-1563) concepisce una nuova funzione delle immagini, Bibbia dei poveri, e la Compagnia di Gesù (1540), con Ignazio di Loyola, e la Congregazione di San Filippo Neri chiedono agli artisti una rappresentazione quasi tangibile delle passioni dei santi. Dunque, per i luterani, la giustificazione per fede, il diretto rapporto col divino, quel divino che Michelangelo rappresentava, evocando Savonarola, lontano da ogni orpello, il corpo umano come segno stesso di Dio; di contro una grandiosa macchina narrativa che diventa dominante dalla metà del secolo.
Le tracce di questi «conflitti» si ritrovano nel percorso della mostra. Così Marco Pino propone un Battesimo di Cristo (1564) ricco di citazioni della Maniera, così Federico Barocci racconta l’ Istituzione dell’Eucaristia (1607) come grandioso teatro di gesti e passioni; così Giovanni Battista Pozzo narra il Martirio di Santa Caterina (1588) con dovizia di corpi muscolosi e angeli volanti in azzurri cieli. Ma è verso la fine del secolo che la sintesi dei Carracci propone un nuovo modello dove il realismo dei dettagli si sposa alla simbologia della luce. Certo, a monte de La caduta di San Paolo di Ludovico Carracci (1587-1588) c’è sicuramente l’affresco di Michelangelo della Cappella Paolina, ma il sentiero di luce dell’affresco vaticano, che simboleggia la Grazia individuale, diventa qui luce diffusa, spazio per una messa in scena di gesti e moti d’animo.
Ormai il racconto della pittura usa le figure come statue, come nell’ Annunciazione di Giuseppe Valeriano e Scipione Pulzone (1586-1588) e, mentre tramonta la «maniera» del Cavalier d’Arpino come nel correggesco San Sebastiano di Napoli (1605-1608), Guido Reni nella Trinità (1607-1608) ripropone il corpo sublime del Cristo come una statua antica ormai velata di polvere. Certo Caravaggio, nella Madonna dei Pellegrini (1605), inventa una luce che viene da lato e che illumina, insieme, Madonna, Bambino e i due poveracci in ginocchio, ma ormai la vulgata narrazione cattolica la propone Peter Paul Rubens nell’ Adorazione dei pastori (1608), raffinata messa in scena di un controllato teatro. È lontana ormai la visione dell’assoluto di Michelangelo, è lontano il dialogo diretto col divino dei luterani. Credere è, da adesso e per due secoli, teatro di figure. E la mostra di Forlì lo prova con forza.