domenica 18 marzo 2018

Corriere La Lettura 18.3.18
L’arrivo di Trump ci ha dato la sveglia nel sogno di King
Parla Jesse Jacson
di Giuseppe Sarcina


«Ehi Ben, stasera mi suoni Take my Hand, Precious Lord ? Ah, ecco Jesse. Ehi Jesse, sei in ritardo…». Un colpo di fucile interrompe l’allegria di quella mattina e la vita di Martin Luther King. Cinquant’anni fa: il 4 aprile 1968. «Sono una delle ultime persone con cui ha parlato il dottor King», racconta a voce bassa quel «Jesse» cioè Jesse Jackson, 76 anni, nato a Greenville nella Carolina del Sud, leader storico della comunità afroamericana, candidato alle primarie democratiche per le presidenziali del 1984 e del 1988.
Il 3 aprile 1968 Martin Luther King era arrivato a Memphis, nel Tennessee. C’è una foto che lo ritrae sul balcone dell’hotel Lorraine, con due uomini al suo fianco: il reverendo Ralph Abernathy e Jesse Jackson. Sullo stesso terrazzino fu assassinato il giorno dopo da James Earl Ray, un fanatico suprematista bianco. La gigantografia di quell’immagine domina l’atrio della «Rainbow Push Coalition», l’organizzazione fondata da Jackson nel 1984. Un edificio basso sulla 50ª strada nel South Side di Chicago. A poche centinaia di metri c’è la casa di Barack Obama. Dalla 66ª strada comincia la terra degli omicidi e delle gang afroamericane: uno dei quartieri più pericolosi d’America.
In questi giorni Jackson è impegnato a sostenere i candidati in corsa per venti cariche: un senatore dell’Illinois, i deputati, il governatore, lo sceriffo e altri funzionari statali e comunali. Riceve «la Lettura» in jeans e maglia scura nel suo piccolo ufficio. Sulle pareti immagini degli anni Sessanta e Settanta. Qua e là scatoloni pieni di volantini, una pila di cappellini da baseball e un pallone da basket.
Ci racconta quella foto del 3 aprile 1968?
«Eravamo appena arrivati a Memphis. Era una delle nostre tappe per organizzare la “Campagna per i poveri”, una grande marcia da tenere più avanti a Washington. Molte persone, molti attivisti erano venuti davanti all’hotel Lorraine per salutare King. Lui si fermò sul balcone a rispondere. Si trovava più o meno nello stesso punto dove fu assassinato il giorno dopo, alle 18. Quella sera mi vide arrivare, stavo attraversando il cortile. Mi gridò: “Jesse, sei in ritardo”. In realtà era lui che aveva fatto tardi. Abbiamo riso. Poi si sporse verso una macchina parcheggiata lì sotto. Dentro c’era un amico musicista, con il suo sassofono. “Ehi Ben (Ben Branch, ndr ) stasera me la suoni la mia canzone preferita? Suonala bene, eh...”. A quel punto si sentì un colpo di fucile. Cominciai a urlare: “Stai giù, stai giù”. Corsi di sopra, tutti si disperavano: “Non ci lasciare ora, non ci lasciare”. Ma era già morto. Telefonai io a sua moglie: “Miss King, hanno ucciso Martin”».
Come lo aveva conosciuto?
«All’aeroporto di Atlanta nel dicembre del 1964. Stava andando a Oslo a ritirare il premio Nobel per la Pace. Io facevo parte del movimento studentesco, avevo letto i suoi scritti ed ero appena uscito di prigione per aver partecipato alle proteste. Gli dissi che volevo lavorare per lui e così cominciai. Poi nel 1966 venne a Chicago e mi chiamò per aprire e dirigere una Sclc (Southern Christian Leadership Conference, ndr ). Ma, mi scusi, ha detto che lei è italiano?».
Sì…
«Molte lingue, uno stesso messaggio. Era quello che diceva spesso King. Dobbiamo trovare un minimo comune denominatore di civiltà. Noi abbiamo globalizzato i capitali, le tecnologie, lo sport. Ma non abbiamo globalizzato i diritti umani, i diritti dei lavoratori e delle donne, la tutela dell’ambiente. L’opera della globalizzazione non è terminata. Ricordo uno degli ultimi compleanni che ho passato con King. Erano le nove del mattino del 15 gennaio. Convocò una mezza dozzina di noi collaboratori nel suo ufficio della chiesa. In quella stanza c’erano bianchi poveri dei monti Appalachi, afroamericani del profondo Sud, latinos del Sud Ovest, nativi americani, un ebreo di New York. Ci disse: “Siamo un gruppo multirazziale e multiculturale, lavoriamo insieme per pianificare la Campagna contro la povertà”. King non credeva nella supremazia di alcuna razza, di alcuna cultura sull’altra. Nel frattempo arrivò la torta e ridemmo, festeggiammo tutti insieme. Alle due del pomeriggio di quello stesso giorno mi disse che aveva intenzione di schierarsi contro la guerra in Vietnam».
E prese forma la dottrina dei «tre mali»: il razzismo, la povertà e il militarismo, formalizzata in un discorso del 10 maggio 1967. King stesso notò come molti attivisti lo criticarono per aver esteso la sua battaglia alla guerra nel Vietnam…
«King pensava che le bombe sganciate in Vietnam colpissero anche le parti più abbandonate delle nostre città. Voleva far rivivere la lotta alla povertà nella guerra in Vietnam, perché la spesa militare sottraeva risorse alla battaglia contro la miseria. È una lezione che vale anche oggi. Eccoci qui, cinquant’anni dopo, con circa il 50% del bilancio federale assorbito dalle spese militari (886 miliardi di dollari, la metà delle “spese discrezionali”, ndr ). Da una parte abbiamo ordigni sofisticati, direi esotici, per uccidere le persone, oltre a 8 milioni di armi semiautomatiche nelle mani della popolazione; dall’altra il 44% di tutti gli americani guadagna meno di 15 dollari all’ora; il 54% dei latinos e degli afroamericani meno di 15 dollari all’ora; c’è chi non arriva a 10 dollari all’ora. Le differenze sociali sono diventate ancora più profonde. I pochi hanno sempre di più e i molti hanno sempre di meno».
Nel 1963, nella lettera dalla prigione di Birmingham in Alabama, King descriveva la segregazione come fenomeno congenito nel sistema economico e sociale. Pochi giorni fa, il 27 febbraio 2018, durante l’audizione alla Camera del neopresidente della Federal Reserve, Jerome Powell, diversi deputati hanno chiesto perché le banche respingano più frequentemente le domande per un mutuo presentate da cittadini neri rispetto a quelle dei bianchi.
«È un problema reale. Durante la recessione le case dei neri e dei latino s sono state le più colpite. Il sabato i neri e i bianchi si trovano negli stadi: giocano insieme e insieme guardano le partite. Ma le comunità black non si sono ancora riprese dalla recessione. Donald Trump si vanta di aver ridotto il tasso di disoccupazione degli afroamericani, ma la percentuale è sempre il doppio rispetto a quella dei bianchi. Ciò significa meno risorse per le case, l’istruzione, la salute».
In questi cinquant’anni la battaglia degli afroamericani è sempre stata intensa come era nei piani di King?
«Quando fu ucciso, provammo la sensazione che sarebbe andato perso il momento per ridefinire le istituzioni della moralità e della politica americane. E quell’enorme responsabilità si scaricò su di noi. Non potevamo arrenderci. Non potevamo restare indifferenti. Ci concentrammo nella lotta contro la povertà, contro la guerra, organizzammo convention con migliaia di persone ad Atlanta, Detroit, Los Angeles, Cleveland e altre città. Organizzammo il campo della “Resurrection City” (accampamento sulla Mall di Washington, ndr ). C’era un clima difficile. Il governo era stato contro King e ora era contro di noi. Poi arrivò l’assassinio di Robert Kennedy. Boom, boom. Fu un doppio colpo in pochi mesi».
Sono arrivate altre epoche…
«Certo, e qualcuno delle nostre comunità si è trovato anche in condizioni più favorevoli. Io mi sono presentato due volte alle primarie del Partito democratico. Nel 1988 abbiamo fatto una grande campagna per provare a cambiare le regole del gioco e dare più peso al voto popolare. Ma non ci siamo riusciti. Poi abbiamo appoggiato Obama, che abita qui dietro l’angolo…»
E oggi Trump è alla Casa Bianca…
«Trump ha risvegliato la minaccia della supremazia bianca. Con la sua ristretta visione del mondo fondata sull’isolazionismo, con l’esaltazione delle forze a favore della guerra, simili a quelle che sostenevano l’intervento in Vietnam. Ma in realtà sta tornando il nostro momento, il “momento” degli anni di King. Nella storia queste cose vanno e vengono. All’epoca avevamo soprattutto la speranza. Ora abbiamo anche il voto, che cinquant’anni fa non avevamo. E abbiamo imparato come usarlo, adesso sappiamo che cosa dobbiamo fare per registrarci prima di ogni elezione. Abbiamo la coalizione: siamo con il movimento delle donne MeToo, siamo con i latinos che si battono per i Dreamers (i figli degli immigrati irregolari che il governo vorrebbe espellere, ndr ) . E inoltre abbiamo i dollari. Molti afroamericani sono manager nella Silicon Valley e in altre grandi aziende. Possiamo contare su più risorse finanziarie. Abbiamo vinto la competizione per il governatore della Virginia. Abbiamo sconfitto Roy Moore, il candidato di Trump per il seggio del Senato in Alabama. Sì, è il nostro “momento”».
King si confrontò e si scontrò con alcune correnti che ammettevano anche l’uso della forza, se non della violenza, come metodo politico. È una discussione ancora attuale?
«Non credo. Il metodo della non violenza, che King ricavò da Gandhi, è la strada maestra. E King come Gandhi si è sacrificato e ha sofferto, non ha mai avuto paura della prigione e della morte. Gandhi come King aveva la capacità di risolvere i conflitti senza la necessità non solo dello scontro fisico, o del linguaggio violento. La violenza è controproducente: serve solo a dare più forza a chi ha le armi, alla polizia che spara contro i neri, che porta i tank nelle strade. Lo ripeto: noi oggi sappiamo che c’è più potere nelle urne che nelle pallottole».