domenica 18 marzo 2018

Corriere 18.3.18
Martin Luther King
Nella storia Il grande predicatore nero raccolse l’eredità di lunghe battaglie per l’emancipazione
Un pastore battista coerente discepolo di Cristo e Gandhi
di Tiziano Bonazzi


Ai primi di aprile del 1968 Martin Luther King era a Memphis, nel Tennessee, per sostenere lo sciopero dei lavoratori neri della nettezza urbana. Il 3 aprile tenne uno dei suoi discorsi più famosi: «Sono stato in cima alla montagna», quasi una profezia, nel quale disse che, al pari di Mosè che aveva visto la Terra promessa dal monte Nebo, ma non aveva potuto entrarvi, forse neppure lui vi sarebbe entrato; ma Dio gli aveva consentito di salire in cima alla montagna e di vederla, la Terra promessa del popolo nero, per cui: «Sono felice stasera. Non ho paura di nulla e di nessuno». Il giorno dopo King, che aveva ricevuto molte minacce di morte, venne ucciso da James Earl Ray, un assassinio ancora in parte avvolto nel mistero.
Martin Luther King con la sua azione e la sua morte è diventato l’icona della lotta degli afroamericani per la libertà e i diritti civili. Tuttavia non so fino a che punto siamo pronti ad accettare che King sia stato un afroamericano, con una visione che da lì è partita, dalla cultura nera americana nata dalla distruzione delle tante tradizioni ed etnie degli africani ridotti in schiavitù. Una enorme devastazione culturale alla quale schiavi e neri liberi risposero creando una cultura nuova che era nera e americana assieme, perché i neri nella quasi totalità hanno sempre voluto essere americani, liberi negli Stati Uniti. Fare di King un simbolo universale implica l’esigenza di non togliergli la sua storia specifica di afroamericano e di americano.
Nel nostro Paese ateo e cattolico non si ama neppure ricordare che King fu, innanzitutto e sempre, un pastore battista, figlio e nipote di pastori battisti, la Chiesa nera per eccellenza, con una fede estatica e poca teologia; la Chiesa che ha sempre visto nel ritorno di Israele a Canaan la figura della raggiunta libertà dei neri e questa come un’uscita dal peccato e un ritorno a Cristo. Battendosi per i diritti civili King si batteva per Cristo e così lottava per l’America. Voleva essere il pastore della nazione come hanno detto tanti che lo hanno conosciuto. Intendeva redimere l’anima dell’America. Parole che Oltreatlantico pesano.
King incarna il movimento per i diritti civili, che, però, non si riduce a lui, anzi, egli ne è il frutto perché il movimento era già vivo molto tempo prima, con la resistenza silenziosa alle cosiddette leggi di Jim Crow, che a fine Ottocento stabilirono la segregazione razziale negli Stati del Sud e subito vennero dichiarate costituzionali dalla Corte suprema. L’impegno continuò con la nascita nel 1909 della National Association for the Advancement of Colored People (Naacp), un’associazione di neri e bianchi per garantire l’uguaglianza di tutti i cittadini. Quel movimento crebbe e si divise fra un’ala integrazionista, sotto la guida di Booker T. Washington, e una radicale, con il grande attivista e intellettuale W. E. B. Dubois. Negli anni Trenta il giamaicano Marcus Garvey gettò ad Harlem, quartiere afroamericano di New York, le basi del nazionalismo nero che sarebbero state riprese trent’anni dopo dal Black Power di Stokely Carmichael.
Una storia di cui il movimento per i diritti civili degli anni Cinquanta e Sessanta è un capitolo fondamentale, ma solo un capitolo. La storia, soprattutto, di un movimento di base, una rete di attività e associazioni locali che a centinaia apparivano, scomparivano, tornavano continuamente in vita.
Nel 1954, a 25 anni, King divenne pastore della chiesa battista di Dexter Avenue a Montgomery, in Alabama, una delle città dove la segregazione e la resistenza nera erano più aspre, e venne subito assorbito dalle attività politiche degli afroamericani in quella situazione difficile. Nello stesso anno un caso giudiziario di test promosso dalla Naacp portò la Corte suprema, nella causa denominata Brown contro Board Education («ufficio scolastico»), a dichiarare incostituzionale la segregazione nelle scuole. Fu la prima grande vittoria del movimento. Nel dicembre 1955 a Montgomery la sarta e attivista nera Rosa Parks rifiutò di cedere il posto a un bianco su un autobus segregato della città e venne arrestata. Le organizzazioni afroamericane guidate dal pastore Ralph Abernathy diedero allora vita a un boicottaggio dei bus cittadini a guidare il quale fu chiamato King, che venne a sua volta arrestato, ebbe la casa incendiata da una bomba, ma non arretrò. Dopo oltre un anno di lotta, gli autobus di Montgomery furono desegregati e King era diventato una figura di rilievo nazionale.
Mentre maturava come leader politico, egli elaborò la teoria della non violenza a partire dalle parole di Gesù: «Chi di spada ferisce di spada perisce» arricchite dall’incontro con il pensiero di Gandhi già propalato da altri attivisti neri. Gesù, Gandhi e David Thoreau, il grande filosofo e poeta antischiavista che scelse il carcere pur di non appoggiare la guerra di aggressione contro il Messico del 1846, furono i pilastri del suo pensiero. Vari leader afroamericani come Robert F. Williams, prima delle Pantere nere degli anni Sessanta o anche di Malcolm X, praticavano invece la resistenza armata come forma di autodifesa.
King li contrastò; ma non fu un pacifista assoluto. La non violenza era per lui un sistema di vita, un atteggiamento etico che lo portò a non rispondere mai alle ripetute aggressioni che subiva; ma, come per Gandhi, essa era uno strumento di lotta, uno strumento dei forti per ottenere risultati. Fu il metodo che seguì in tutte le manifestazioni che organizzò, come, ad esempio, le marce del marzo 1965 da Selma a Montgomery per il diritto di voto ai neri, in cui le violenze della polizia contro migliaia di manifestanti pacifici suscitarono una tale protesta da consentire l’approvazione nello stesso anno del Voting Rights Act, la legge che pose fine alla discriminazione razziale che impediva ai neri di votare alle elezioni.
King, con Gandhi e Nelson Mandela, è l’icona di un conflitto che ha posto i bianchi faccia a faccia con la loro eredità politica più preziosa e non di rado dimenticata, quel principio di uguaglianza delle Rivoluzioni americana e francese che abbiamo ormai capito non essere il portato necessario del progresso o di un atto rivoluzionario. Sono conquiste che si perdono facilmente e per le quali occorrono una lotta, pacifica ma vera, e una sorveglianza continua.