domenica 11 marzo 2018

Corriere La Lettura 11.3.18
Il leader del Cremlino sarà certamente confermato alle elezioni del 18 marzo
Il suo potere, che durada quasi vent’anni, si può definire una dittatura?
E va considerato una grave minaccia per l’Europa?Abbiamo messo a confronto due opinioni differenti
Guerre fredde (e guerre calde) dello zar Putin
colloquio tra Marcello Flores e Sergio Romano


In Russia si vota il 18 marzo e la rielezione di Vladimir Putin non è in dubbio. Di fatto il leader del Cremlino è al potere da quasi un ventennio, tanto da configurare un regime: una situazione sulla quale abbiamo chiamato a dibattere due studiosi collocati su posizioni diverse, Marcello Flores e Sergio Romano. L’interrogativo di fondo è come interpretare la leadership del presidente russo: una vera dittatura o una fase di transizione semiautoritaria, forse inevitabile in un Paese privo di tradizioni democratiche?
MARCELLO FLORES — Intanto l’era di Putin non si può considerare transitoria: è un significativo periodo storico, non il preludio a una ipotetica democratizzazione. Il presidente russo ha anticipato alcuni fenomeni che stanno prendendo piede nella crisi della globalizzazione e vengono accomunati sotto l’etichetta generica di populismo. Non è un dittatore, come di solito non lo sono i leader populisti, che hanno tendenze autoritarie, ma giocano su un terreno almeno parzialmente democratico. Però Freedom House, su una scala in cui il livello di autoritarismo più alto è 7, assegna alla Russia un punteggio di 6,5, peggiorato nel tempo. Quanto alla libertà di stampa, nelle classifiche internazionali la Russia è centoquarantottesima su 180 Stati. Non si contano i giornalisti minacciati, arrestati, spariti. Misure pesanti sono state prese per controllare internet. E non appena in politica emerge una personalità che sembra poter dare fastidio a Putin, il governo trova sempre il modo di sbarazzarsene con metodi ai limiti della legalità.
SERGIO ROMANO — Indubbiamente in Putin c’è un elemento di populismo, ma a mio avviso è in primo luogo un restauratore. Ha rilanciato l’unità dello Stato, il suo prestigio nel mondo, tutto quanto era stato reso precario prima del suo arrivo al potere. Non bisogna dimenticare che la Russia ha vissuto due grandi mutamenti falliti. Il primo fu il tentativo compiuto dal precedente leader Boris Eltsin di gestire la dissoluzione dell’Urss creando una sorta di Commonwealth panrusso con le ex repubbliche dell’Unione (a parte i Paesi baltici). Alcuni leader occidentali, tra cui George Bush padre, cercarono anche di aiutarlo, ma non fecero abbastanza e il progetto abortì. L’altro mutamento fallito fu il passaggio dall’economia di comando al libero mercato, da cui uscì una nidiata di oligarchi, ricchissimi affaristi senza scrupoli, che fecero strame del Paese. Ma se i mutamenti falliscono, che cosa possiamo aspettarci, se non una restaurazione? Putin è intervenuto nel momento in cui si trattava di recuperare la sovranità e l’autorità dello Stato, evitando ulteriori disgregazioni. C’è riuscito, e la Russia gli è riconoscente.
MARCELLO FLORES — Sono d’accordo nel definire Putin un restauratore, perché la coraggiosa trasformazione sperimentata negli anni Novanta non è andata in porto. La riconquista del prestigio e della potenza nasconde però, al di là della percezione positiva che ne hanno gli elettori, problemi molto gravi. Putin nel recente discorso alla nazione ha detto che lo Stato deve diminuire il suo intervento nell’economia, che però dal 2005 a oggi è raddoppiato. La Russia è il quarto Paese nel mondo per volume dell’economia sommersa rispetto al totale delle attività, superata solo da Nigeria, Azerbaigian e Ucraina. La quota della popolazione in stato di povertà è passata dal 10 per cento del 2010 al 14. Mosca ha concesso alla Cina lo sfruttamento delle risorse naturali della taiga siberiana, fondamentali per l’equilibrio ambientale planetario. Dietro i successi militari in Crimea e in Siria si avverte insomma una debolezza di fondo della restaurazione putiniana, che non ha le gambe per consentire al Paese di guardare al futuro con fiducia.
SERGIO ROMANO — La Russia ha un problema geografico che ne alimenta le paure e finisce per esporla troppo sul piano della potenza, ma bisogna ricordare che l’Occidente ha fatto il contrario di quello che avrebbe giovato alla stabilità di quell’area. E quindi non ha certo contribuito a modificare la linea politica di Mosca. Ci rendiamo conto che abbiamo imbarcato nella Nato Paesi che facevano parte prima dell’impero zarista e poi dell’Urss, come le repubbliche baltiche? E la Nato non è un’ordinaria alleanza diplomatica, ma un patto militare che serve a preparare la guerra e quindi ha bisogno di un nemico. Non ha alcun ruolo se non in funzione di un confronto bellico. Perciò quando uno Stato entra nella Nato, il suo vicino, in questo caso la Russia, deve concludere che ha un nemico in più. Non c’è da stupirsi che Mosca abbia deciso di reagire all’allargamento di un’alleanza che percepisce legittimamente come una minaccia. Ed è logico che cerchi di destabilizzare le componenti più fragili dello schieramento avverso.
MARCELLO FLORES — Senza dubbio gli Stati Uniti hanno sbagliato continuando a considerare la Russia un nemico. Ma ha pesato anche la debolezza dell’Europa, alla quale spettava di chiedere il superamento della Nato dopo la fine del regime comunista a Mosca. In quel caso l’ingresso nell’Unione Europea dei Paesi provenienti dall’impero sovietico avrebbe provocato meno tensioni. Questo però può giustificare la politica estera di Putin, non la sistematica violazione dei diritti umani all’interno della Russia.
SERGIO ROMANO — Lei ha ragione: gli europei avevano l’obbligo e anche l’interesse di sollecitare un riesame critico della Nato dopo gli eventi del 1989. Nella prima metà degli anni Novanta gli americani del resto erano incerti sull’argomento, poi prevalse l’idea di mantenere le basi militari in Europa sotto l’ombrello della Nato. E noi abbiamo lasciato fare. Del resto l’Ue è stata incapace di affrontare la crisi jugoslava e ha affidato una delega sui Balcani agli Stati Uniti, che se ne sono serviti per vincere, piegando la Serbia, quella che di fatto è stata una guerra contro la Russia. Pensiamo anche alla Georgia: quando nel 2008, in un vertice a Bucarest, George Bush figlio propose l’ingresso di quel Paese e dell’Ucraina nella Nato, Angela Merkel avanzò delle obiezioni, ma non si oppose risolutamente come avrebbe dovuto. Così gli Stati Uniti andarono avanti, tant’è vero che in Georgia, quando scoppiò il conflitto con l’Ossezia, c’erano 800 istruttori militari americani. Mettetevi nei panni di chi stava al Cremlino. Bisognava essere dei santi per non intervenire.
MARCELLO FLORES — Tutto ciò vale in un’ottica di potenza tipica della guerra fredda. Ma c’è anche un principio di autodeterminazione dei popoli, ci sono le norme del diritto internazionale. Nel momento in cui le ex repubbliche sovietiche sono diventate Stati indipendenti, è una forzatura da parte di Mosca pretendere di continuare a tenerle sotto tutela. Se il comportamento dei russi in Georgia e Ucraina è spiegabile, ciò non significa che si debba giustificarlo. Penso a questioni come la discriminazione verso i tartari, nella Crimea tornata sotto il controllo di Mosca, che non possono essere passate sotto silenzio. È giusto cercare soluzioni diplomatiche, ma va anche condannato il disprezzo delle regole internazionali da parte di Putin.
SERGIO ROMANO — Ma è stata in primo luogo Washington a conservare la logica della guerra fredda. Il problema della Russia è che ha ereditato, tra il Seicento e l’Ottocento, territori di tre imperi decaduti: ottomano, persiano e cinese. Così è diventata un enorme Paese multietnico e multireligioso, che si può tenere insieme solo con un forte governo centrale. Inoltre la Russia è circondata da piccoli Paesi, per esempio la Georgia, che non diventeranno mai come la Svizzera, non saranno mai capaci di mantenersi del tutto indipendenti e neutrali, ma andranno sempre alla ricerca di un protettore esterno. Se lei guarda a quegli Stati da Mosca, si accorge che essi sono destinati a essere vassalli di qualcuno: o della Russia o di altri, degli Stati Uniti nel caso della Georgia. Mi piacerebbe che il mondo funzionasse secondo le regole di civiltà ricordate da lei, ma purtroppo non è così. Se la Georgia mi scappa di mano, io al Cremlino so che diventerà un satellite di qualcun altro. Quanto all’Ucraina, è sempre stata parte dell’universo ortodosso russo. Io ho vissuto per diversi anni a Mosca e trovavo difficile distinguere i russi dagli ucraini, che appartenevano alla stessa cultura ed erano largamente presenti ai vertici del potere sovietico.
MARCELLO FLORES — Anche i georgiani lo erano: basti pensare a Stalin.
SERGIO ROMANO — Invece non si è mai visto un primo ministro indiano a Londra. Soltanto adesso, finito l’impero britannico, c’è un sindaco di origine pakistana.
MARCELLO FLORES — Di fatto però negli ultimi vent’anni in Ucraina si è costituita una coscienza nazionale. E non si tratta di uno staterello: Kiev può riallacciarsi a una tradizione importante, così come fa Putin in Russia. Si tratta di un Paese diviso, che può essere governato solo assicurando i diritti di tutte le comunità, ma se questo non è avvenuto la responsabilità è anche dell’Occidente e della Russia, che hanno soffiato sul fuoco. Però, se posso comprendere l’intervento di Mosca in Crimea, cioè in una regione storicamente russa che era stata posta sotto la giurisdizione di Kiev soltanto nel 1954, lo smembramento dell’Ucraina è un altro discorso. Certo, in questo conflitto le due parti fanno a gara nel violare i diritti umani, l’una peggio dell’altra. Ma credo che l’indipendenza e l’integrità del Paese vadano tutelate.
SERGIO ROMANO — Sin da quando si disgregò l’Urss, si pose il problema dei rapporti tra Mosca e Kiev, in particolare per via dell’importantissima base navale che la flotta russa ha a Sebastopoli, in Crimea. Negli anni Novanta Eltsin prese in affitto la base, pagandola lautamente. E Putin rinnovò la convenzione. C’era una volontà di convivenza. Ma quando nel 2004 esplose la prima sommossa di piazza Maidan contro il governo del filorusso Viktor Janukovyc, subito arrivarono a Kiev il presidente polacco Aleksander Kwasniewski e George Soros per appoggiare i dimostranti. Che cos’era, se non un’interferenza negli affari interni ucraini? E come poteva Mosca restare inerte? Passiamo al secondo conflitto: nel 2014 a Kiev i ministri degli Esteri della Russia e dei principali Paesi europei negoziarono con Janukovyc una transizione concordata. Ma poi in Parlamento l’intesa venne fatta cadere con una sorta di colpo di Stato, che l’Occidente avallò.
MARCELLO FLORES — Mi sembra improprio parlare di colpo di Stato, quando si pronuncia il Parlamento.
SERGIO ROMANO — Non sempre i Parlamenti sono tutori della democrazia. Comunque non ci siamo resi conto di come la Russia avrebbe percepito quegli eventi. E quando Mosca si è ripresa la Crimea, avremmo dovuto capire le ragioni di Putin, cercare un’intesa.
MARCELLO FLORES — Non so se il Cremlino si sarebbe accontentato. Ma se è giusto comprendere le preoccupazioni della Russia, bisogna considerare anche quelle della Polonia.
SERGIO ROMANO — Per carità. Secondo me dare retta a Varsavia è deleterio per l’Occidente. Troppo spesso la Polonia, a partire dalla fine della Prima guerra mondiale, quando attaccò la Russia sovietica, si è comportata in modo irresponsabile.
MARCELLO FLORES — Tuttavia la Polonia di oggi, che è una democrazia e fa parte dell’Unione Europea, mi pare abbia tutto il diritto di sentirsi inquieta di fronte all’atteggiamento di Putin verso l’Ucraina.
SERGIO ROMANO — Varsavia ha il diritto di avere una voce in capitolo nella crisi di Kiev, ma ne ha fatto un pessimo uso. E gli Stati Uniti l’hanno appoggiata per esercitare un ruolo egemone anche in quella parte del mondo.
MARCELLO FLORES — Però Putin non fa nulla per risultare rassicurante, forse anche perché la situazione economica va peggiorando. La Russia è al dodicesimo posto nel mondo tra le potenze industriali e per competitività è addirittura trentottesima. Le promesse di benessere sono rimaste sulla carta e quindi il Cremlino inasprisce la repressione. Bolla come agenti di potenze straniere le Ong come Memorial, che si batte per far conoscere i crimini di Stalin. Chiunque critichi il potere rischia l’arresto con accuse di terrorismo. È una deriva illiberale da non sottovalutare.
SERGIO ROMANO — Mi pare tuttavia che il nostro sguardo occidentale non colga appieno il problema di governare uno spazio così enorme. Se lei fosse russo, avrebbe capito perfettamente la guerra in Cecenia. Se quella piccola nazione fosse diventata indipendente, la Russia avrebbe rischiato una progressiva frammentazione. È un Paese che o si governa da un centro forte, o si lascia andare.
MARCELLO FLORES — Però l’appoggio dell’opinione pubblica alla guerra in Cecenia crebbe dopo una serie di attentati terroristici sulla cui reale natura sono rimasti diversi dubbi. In precedenza i cittadini russi parevano disposti a fare concessioni ai ceceni.
SERGIO ROMANO — La crisi cecena intervenne in una fase di collasso dell’esercito russo ed è comprensibile che l’opinione pubblica fosse sfavorevole alla linea dura. Tuttavia anche in Cecenia, pur con mezzi non sempre onorevoli e appoggiandosi a un satrapo brutale come Kadyrov, Putin ha avuto successo in veste di restauratore. Così come ha ristabilito l’autorità dello Stato rispetto ai governatori delle regioni, che non volevano più versare le tasse a Mosca. A noi non piace come agisce Putin perché pensiamo che l’alternanza al potere sia un bene in sé, ma se per la Russia fossero più importanti la continuità e la stabilità?
MARCELLO FLORES — Anche senza arrivare all’alternanza, bisognerebbe almeno garantire un vero confronto democratico, con un’opposizione lasciata in condizione di operare.
SERGIO ROMANO — Oggi però c’è una libertà di stampa che la Russia in passato non ha mai conosciuto.
MARCELLO FLORES — Diversi giornalisti sono stati uccisi, imprigionati o ridotti al silenzio nell’era di Putin.
SERGIO ROMANO — Anna Politkovskaja non era una giornalista. Era una sacerdotessa della pace. E quando si combatte una guerra sporca come quella cecena, persone del genere finiscono per rimanerne vittime.
MARCELLO FLORES — Noi però riconosciamo come una pagina di libertà la pubblicazione in America dei documenti del Pentagono sulla guerra sporca in Vietnam, ora rievocata dal film The Post.
SERGIO ROMANO — All’epoca molti negli Stati Uniti considerarono un tradimento la pubblicazione di quelle carte. Ci volle una pronuncia della Corte suprema per legittimarla. E comunque si trattava di una situazione ben diversa, in una democrazia consolidata, mentre in Russia la libertà di stampa sta muovendo da poco i primi passi, a mio avviso rilevanti, dopo secoli di rigida censura.