Corriere La Lettura 11.3.18
Anteprima Esce in Italia il
carteggio tra i due filosofi. L’amarezza dell’esule espatriato per
sfuggire al nazismo, un silenzio abissale durato vent’anni
Gelo tra Heidegger e Löwith Il legame spezzato da Hitler
di Donatella Di Cesare
Quando
ha inizio il carteggio Martin Heidegger era appena trentenne mentre il
suo brillante allievo Karl Löwith aveva solo ventiquattro anni.
Anzitutto poche righe, datate 22 agosto 1919, con cui Heidegger
ringrazia per un paio di cartoline.
Uscito in Germania nel 2017,
all’interno di un monumentale progetto che prevede la pubblicazione
dell’intera corrispondenza di Heidegger (trenta epistolari di carattere
privato e cinque di stampo istituzionale), il carteggio con Löwith,
tradotto ora in italiano per le edizioni Ets di Pisa, si estende per un
lungo arco di tempo, fino al 1973. E comprende 124 lettere o cartoline,
di cui 76 scritte da Heidegger e 48 da Löwith. La corrispondenza, come
avverte Alfred Denker che ha curato l’edizione critica, non è completa:
mancano qui e là alcuni tasselli andati perduti.
È bene avvertire
il lettore: comunque lo si voglia interpretare, il carteggio si
interrompe bruscamente il 29 luglio 1933. Con poche e imbarazzate parole
Heidegger si congeda dal suo allievo rallegrandosi con lui, che ha
ottenuto una borsa di studio. Löwith, che ha un cognome scomodo e un
padre ebreo, è costretto dall’ascesa di Hitler a lasciare la Germania.
Ma tutto appare come se si trattasse quasi di una vacanza. Il maestro
neppure lo saluta: «Per via del mio breve soggiorno a Marburgo, non mi è
stato possibile passare da lei». Con amarezza Löwith lo ricorderà nelle
sue memorie: La mia vita in Germania prima e dopo il 1933 (Il
Saggiatore, 1988).
Su 261 pagine dell’edizione italiana solo le
ultime dieci sono successive al 1936, l’anno del fortuito incontro a
Roma, dove Heidegger si reca per tenere la sua conferenza sulla poesia
di Friedrich Hölderlin. Il silenzio abissale dal 1937 al 1958 è
interrotto solo da un biglietto di auguri che Löwith invia da New York
il 20 settembre 1949. In seguito i toni restano freddi; l’epilogo non è
una riconciliazione. Mai Heidegger avverte il bisogno di condannare la
Germania del Terzo Reich che aveva inflitto al suo allievo un esilio
penoso tra Italia, Giappone, America, rovinandogli la vita. Solo a pochi
giorni dalla morte di Löwith, il 5 maggio 1973, gli manda una lettera a
tratti commossa: «Gadamer mi ha scritto della sua malattia (…). Alla
nostra età pensiamo all’addio e insieme all’inizio dei nostri cammini».
Conclude con un verso di Rainer Maria Rilke: «Sii oltre ogni addio…».
Il
carteggio non è solo uno spaccato storico. Mette in luce la personalità
dei due filosofi, fa emergere un sodalizio mancato. Protagonista è
Löwith, che scrive molto di più: pagine lunghe e impegnative. Sicuro di
sé, convinto della sua vocazione filosofica, legge gli esponenti
dell’idealismo tedesco, Hegel e Schelling, studia Nietzsche, di cui
sarebbe divenuto grande interprete. Impossibile non ricordare il suo
splendido libro del 1941 Da Hegel a Nietzsche (Einaudi, 2000). Non
stupisce che si senta così attratto da Heidegger, quel genio
rivoluzionario che va mettendo a soqquadro l’esangue filosofia
accademica del tempo. Quale fortuna avere un maestro così! Si percepisce
la soddisfazione di Löwith, si indovina la sua speranza. Si sente
privilegiato anche perché sa di essere l’allievo preferito. La stima di
Heidegger, quella certa complicità che si va instaurando tra loro, lo
rafforza nella sua scelta. Le lettere sono perciò anche un encomio della
filosofia. «Un mondo intero separa il filosofo dai piccoli profeti
letterari», commenta Löwith, un abisso lo divide dagli scienziati. La
filosofia è inscindibile dalla vita. Ma proprio per ciò il prezzo è
alto. Löwith parla di «malessere». Quando le cose non vanno, a fine
giornata si rifugia allora nell’amicizia. E lo rivendica. Tutto quel che
di grande ha vissuto, dalle gioie ai tormenti, ha a che fare con la
filosofia e con l’amicizia. Questo è il tema del carteggio. Ma
Heidegger, no, non sa di amicizia, o non vuole saperne. Già presto
Löwith gli rimprovera «un’asprezza scomposta», un’indefinibile capacità
di oltrepassarsi che finisce per isolarlo. Il maestro ribatte: «Conduco
una vita da eremita, ritirato nel lavoro». Aggiunge: «La filosofia non è
un passatempo; si può andare in rovina». Chi non la assume con questo
rischio non sa neppure cosa sia. Come si sottrae ai suoi allievi, così
evita Löwith il quale, dopo averne invano cercato l’amicizia, critica
Essere e tempo , dove mancano l’altro e quell’esser con l’altro che
diventerà il tema della sua tesi di libera docenza L’individuo nel ruolo
del co-uomo (Guida, 2007).
C’è chi a sproposito parla di
«risentimento» di Löwith nel dopoguerra, magari prescindendo da tutto
ciò di cui era stato vittima. Certo è che, quando nel 1952, grazie a
Gadamer, che era il suo miglior amico, riesce a rientrare in Germania, a
Heidelberg, Löwith comprensibilmente non solo non dimentica, ma punta
l’indice contro il vecchio maestro pubblicando, l’anno successivo, la
prima pubblica denuncia: Heidegger, Denker in durftiger Zeit ,
«Heidegger pensatore nel tempo di povertà» (in italiano nel volume Saggi
su Heidegger , Einaudi, 1966).