domenica 11 marzo 2018

Corriere La Domenica 11.2.18
Miti
La grotta più famosa della filosofia
Platone insegna Il nostro destino è nella caverna
di Umberto Curi


«Strana immagine — disse — e strani incatenati». È questo il primo commento formulato da Glaucone, interlocutore di Socrate nell’esordio del libro VII della Repubblica , dopo aver ascoltato la descrizione della «dimora sotterranea a forma di caverna» e della condizione di coloro che in essa sono prigionieri.
Tanto l’ immagine ( eikón ) complessiva che è stata evocata, quanto coloro che in essa sono raffigurati avvinti da catene ( desmótas ), appaiono strani ( atópous ), perché privi di un luogo ( tópos ) a cui attribuirli, e che li renda perciò riconoscibili. La nostra phýsis , ciò che ciascuno di noi è per «nascita», appare dunque originariamente simile a quella «strana» eikón . Come quei prigionieri, anche noi possiamo vedere e sentire soltanto skiái — solamente «ombre». Inevitabile, quindi, la conclusione. Chiunque si trovi in una situazione come quella ora descritta, crederà che la verità consista nelle «ombre degli oggetti artificiali».
Se vogliamo sapere quale sia la condizione umana originaria, prima che essa venga profondamente modificata attraverso quel processo di formazione in cui consiste la paidéia , dobbiamo avere in mente questa «strana» immagine, riconoscendo che noi siamo in tutto e per tutto simili a quegli incatenati. Come loro, anche noi siamo prigionieri di un mondo di ombre — dei riflessi visivi e dell’eco delle voci.
All’origine, insomma, il genere umano è caratterizzato dall’impossibilità di valorizzare pienamente le potenzialità connesse con il vedere. Le catene impediscono qualsiasi visione panoramica, impongono una fissità nel vedere che si traduce in una vera e propria amputazione sensoriale, e dunque conoscitiva. Ciò implica non solo una visione-conoscenza difettiva del «mondo» esterno a noi, degli altri e di ciò che li circonda, ma anche di noi stessi.
«Supponi ora — racconta Platone — che uno dei prigionieri si sciolga». Questo passaggio della narrazione platonica ha dato origine a innumerevoli equivoci, a vere e proprie rimozioni collettive. Perché il filosofo non dice se il prigioniero si sciolga da sé, o perché aiutato da altri. Perché non precisa che cosa induca l’incatenato a privarsi dei suoi ceppi. Perché il percorso che conduce fuori dalla caverna è descritto per ellissi e allusioni, più che illustrato nei dettagli. Un punto, fra tutti, deve in ogni caso essere chiarito, per fugare le più diffuse distorsioni interpretative. Il mito non si conclude affatto con la fuoriuscita dalla caverna, come si è sostenuto più volte, in contesti diversi. Ritenere che il tragitto possa essere considerato compiuto nel momento in cui lo sguardo è in grado di sollevarsi verso ciò che «produce le stagioni e gli anni e che domina tutte le cose del mondo visibile ed è causa di tutto ciò che (il prigioniero) vedeva», vorrebbe dire precludersi la possibilità di comprendere in che cosa davvero consista l’essenza della paidéia , alla quale Platone riconosce la capacità di determinare non soltanto una generica «educazione», ma un rivolgimento completo dell’anima.
Affinché l’itinerario avviato con lo scioglimento dalle catene possa giungere a conclusione è infatti necessario che non solo il prigioniero ritorni nella caverna dalla quale era uscito, ma che egli ingaggi una vera e propria lotta con i desmótai , cercando in ogni modo — con la «persuasione» ( peithói ) e con la «costrizione ( anánke )» – di strapparli dalle tenebre della dimora sotterranea. Come ha sottolineato Martin Heidegger nella sua opera L’essenza della verità (Adelphi, 1988), la ridiscesa nella caverna non è un divertimento aggiuntivo che il presunto «libero» possa concedersi così per svago, magari per curiosità, per provare come si presenta l’esistenza della caverna vista dall’alto, ma è, essa soltanto, il «compimento autentico del divenire liberi».
Da tutto ciò consegue che la libertà coincide non con una condizione pacifica, con l’estatica e solitaria contemplazione della verità da parte di un singolo privilegiato che sia riuscito a sciogliersi dalle catene, e dunque goda di questa straordinaria opportunità. Al contrario, come Platone esplicitamente afferma, per potere essere veramente libero, colui che si sia sciolto dalle catene dovrà ritornare nella caverna e dovrà contendere con coloro che in essa sono rimasti, anche a rischio della propria incolumità e della stessa vita. Non si è liberi, se non si agisce come liberatori degli altri.
In quanto ricorda ciò che ciascuno di noi è per nascita, il mito della caverna allude ad una condizione di intrinseca ed ineliminabile duplicità come sigillo specifico e inconfondibile della condizione umana. In quanto raffigura le caratteristiche salienti di colui che ama contemplare lo spettacolo della verità, esso mostra fino a che punto la verità stessa si presenti non come un dato, o un oggetto, o una realtà definita, ma come un lotta incessante e insuperabile, nel quale entrano in conflitto lo svelarsi e il sottrarsi a questo svelamento. In quanto descrive quale debba essere il compito del filosofo all’interno degli Stati, affinché essi conoscano se non altro una «tregua» ai mali che li affliggono, esso indica nella necessità della discesa nella caverna un dovere irrinunciabile per colui che abbia ricevuto la migliore paidéia .
Infine, in quanto illustra la peculiarità dello sguardo, il mito platonico — ripreso anche nel romanzo del Nobel portoghese José Saramago La caverna (Einaudi, 2000) oltre che in varie opere cinematografiche di successo — consente di comprendere che non può esservi visione che non sia accompagnata dall’accecamento. Che mai, in nessun caso, è possibile godere di uno sguardo che non sia in qualche modo offuscato dal persistere delle ombre. Che mai è concesso andare oltre un incerto chiaroscuro, per cogliere compiutamente la luce. Che mai a nessuno di noi può accadere di uscire per sempre dalla caverna da cui proveniamo, e nella quale dobbiamo comunque ritornare, per cercare in essa, nel conflitto originario con gli altri come noi, di rintracciare una strada da percorrere, forse al riparo da irrimediabili cadute, ma anche senza illusioni di compiuta salvezza.