Corriere La Domenica 11.2.18
Miti
La grotta più famosa della filosofia
Platone insegna Il nostro destino è nella caverna
di Umberto Curi
«Strana
immagine — disse — e strani incatenati». È questo il primo commento
formulato da Glaucone, interlocutore di Socrate nell’esordio del libro
VII della Repubblica , dopo aver ascoltato la descrizione della «dimora
sotterranea a forma di caverna» e della condizione di coloro che in essa
sono prigionieri.
Tanto l’ immagine ( eikón ) complessiva che è
stata evocata, quanto coloro che in essa sono raffigurati avvinti da
catene ( desmótas ), appaiono strani ( atópous ), perché privi di un
luogo ( tópos ) a cui attribuirli, e che li renda perciò riconoscibili.
La nostra phýsis , ciò che ciascuno di noi è per «nascita», appare
dunque originariamente simile a quella «strana» eikón . Come quei
prigionieri, anche noi possiamo vedere e sentire soltanto skiái —
solamente «ombre». Inevitabile, quindi, la conclusione. Chiunque si
trovi in una situazione come quella ora descritta, crederà che la verità
consista nelle «ombre degli oggetti artificiali».
Se vogliamo
sapere quale sia la condizione umana originaria, prima che essa venga
profondamente modificata attraverso quel processo di formazione in cui
consiste la paidéia , dobbiamo avere in mente questa «strana» immagine,
riconoscendo che noi siamo in tutto e per tutto simili a quegli
incatenati. Come loro, anche noi siamo prigionieri di un mondo di ombre —
dei riflessi visivi e dell’eco delle voci.
All’origine, insomma,
il genere umano è caratterizzato dall’impossibilità di valorizzare
pienamente le potenzialità connesse con il vedere. Le catene impediscono
qualsiasi visione panoramica, impongono una fissità nel vedere che si
traduce in una vera e propria amputazione sensoriale, e dunque
conoscitiva. Ciò implica non solo una visione-conoscenza difettiva del
«mondo» esterno a noi, degli altri e di ciò che li circonda, ma anche di
noi stessi.
«Supponi ora — racconta Platone — che uno dei
prigionieri si sciolga». Questo passaggio della narrazione platonica ha
dato origine a innumerevoli equivoci, a vere e proprie rimozioni
collettive. Perché il filosofo non dice se il prigioniero si sciolga da
sé, o perché aiutato da altri. Perché non precisa che cosa induca
l’incatenato a privarsi dei suoi ceppi. Perché il percorso che conduce
fuori dalla caverna è descritto per ellissi e allusioni, più che
illustrato nei dettagli. Un punto, fra tutti, deve in ogni caso essere
chiarito, per fugare le più diffuse distorsioni interpretative. Il mito
non si conclude affatto con la fuoriuscita dalla caverna, come si è
sostenuto più volte, in contesti diversi. Ritenere che il tragitto possa
essere considerato compiuto nel momento in cui lo sguardo è in grado di
sollevarsi verso ciò che «produce le stagioni e gli anni e che domina
tutte le cose del mondo visibile ed è causa di tutto ciò che (il
prigioniero) vedeva», vorrebbe dire precludersi la possibilità di
comprendere in che cosa davvero consista l’essenza della paidéia , alla
quale Platone riconosce la capacità di determinare non soltanto una
generica «educazione», ma un rivolgimento completo dell’anima.
Affinché
l’itinerario avviato con lo scioglimento dalle catene possa giungere a
conclusione è infatti necessario che non solo il prigioniero ritorni
nella caverna dalla quale era uscito, ma che egli ingaggi una vera e
propria lotta con i desmótai , cercando in ogni modo — con la
«persuasione» ( peithói ) e con la «costrizione ( anánke )» – di
strapparli dalle tenebre della dimora sotterranea. Come ha sottolineato
Martin Heidegger nella sua opera L’essenza della verità (Adelphi, 1988),
la ridiscesa nella caverna non è un divertimento aggiuntivo che il
presunto «libero» possa concedersi così per svago, magari per curiosità,
per provare come si presenta l’esistenza della caverna vista dall’alto,
ma è, essa soltanto, il «compimento autentico del divenire liberi».
Da
tutto ciò consegue che la libertà coincide non con una condizione
pacifica, con l’estatica e solitaria contemplazione della verità da
parte di un singolo privilegiato che sia riuscito a sciogliersi dalle
catene, e dunque goda di questa straordinaria opportunità. Al contrario,
come Platone esplicitamente afferma, per potere essere veramente
libero, colui che si sia sciolto dalle catene dovrà ritornare nella
caverna e dovrà contendere con coloro che in essa sono rimasti, anche a
rischio della propria incolumità e della stessa vita. Non si è liberi,
se non si agisce come liberatori degli altri.
In quanto ricorda
ciò che ciascuno di noi è per nascita, il mito della caverna allude ad
una condizione di intrinseca ed ineliminabile duplicità come sigillo
specifico e inconfondibile della condizione umana. In quanto raffigura
le caratteristiche salienti di colui che ama contemplare lo spettacolo
della verità, esso mostra fino a che punto la verità stessa si presenti
non come un dato, o un oggetto, o una realtà definita, ma come un lotta
incessante e insuperabile, nel quale entrano in conflitto lo svelarsi e
il sottrarsi a questo svelamento. In quanto descrive quale debba essere
il compito del filosofo all’interno degli Stati, affinché essi conoscano
se non altro una «tregua» ai mali che li affliggono, esso indica nella
necessità della discesa nella caverna un dovere irrinunciabile per colui
che abbia ricevuto la migliore paidéia .
Infine, in quanto
illustra la peculiarità dello sguardo, il mito platonico — ripreso anche
nel romanzo del Nobel portoghese José Saramago La caverna (Einaudi,
2000) oltre che in varie opere cinematografiche di successo — consente
di comprendere che non può esservi visione che non sia accompagnata
dall’accecamento. Che mai, in nessun caso, è possibile godere di uno
sguardo che non sia in qualche modo offuscato dal persistere delle
ombre. Che mai è concesso andare oltre un incerto chiaroscuro, per
cogliere compiutamente la luce. Che mai a nessuno di noi può accadere di
uscire per sempre dalla caverna da cui proveniamo, e nella quale
dobbiamo comunque ritornare, per cercare in essa, nel conflitto
originario con gli altri come noi, di rintracciare una strada da
percorrere, forse al riparo da irrimediabili cadute, ma anche senza
illusioni di compiuta salvezza.