Corriere 8.2.17
Centrodestra unito solo in apparenza e dem nel caos
di Massimo Franco
Quando il leader leghista Matteo Salvini insinua un accordo «tra Paolo Gentiloni e Luigi Di Maio a partire dalle poltrone per arrivare al governo», gioca di sponda con i malumori montanti nel Pd. Accredita gli stessi sospetti lanciati nelle ultime ore dal segretario dimissionario, Matteo Renzi, verso esponenti del suo stesso partito. E sotto sotto spera che alla fine alcuni settori dem facciano un accordo con il M5S, lasciando alla Lega la prateria dell’opposizione e l’intero voto di centrodestra. La pressione del Pd su Renzi e sull’intero gruppo dirigente perché si dimetta «davvero» dopo la disfatta del 4 marzo sembra in aumento. Lo chiede per tutti l’ex sottosegretario Angelo Rughetti. Il vertice del partito assicura che il segretario lo ha fatto «formalmente» già il 5 marzo, ma lasciando aperte molte incognite. Renzi ha raggiunto almeno un risultato: a parole, quasi tutto il partito giura di essere contro il dialogo con il movimento di Di Maio. Ma la sinistra rimane nel caos, e nessuno può prevedere gli sviluppi nei prossimi giorni. È più chiaro quanto accade nel centrodestra, con un cambio di lessico che rivela i nuovi equilibri di potere. Nei comunicati della Lega, Salvini non è più il segretario e candidato premier ma il «leader del centrodestra». Per la prima volta dal 1994, vuole far sapere che la guida è passata di mano. Ora esiste una diarchia, ma si presenta sbilanciata a favore di Salvini. Eppure, il fondatore di FI si dichiara «regista» della coalizione. E i tre gruppi che la compongono continueranno a andare separati alle consultazioni al Quirinale.
Ma fino a qualche anno fa, il primato berlusconiano si rifletteva nella capacità di incidere nei giochi interni della Lega; di muovere pedine che mostravano una sorta di doppia lealtà: all’allora capo del centrodestra e al partito di appartenenza. Ora, invece, si indovina il contrario. L’avanguardia della colonizzazione di FI da parte della Lega salviniana è stata l’elezione in Liguria del presidente berlusconiano Giovanni Toti, due anni fa: vittoria che non prefigurava più un rapporto asimmetrico tra un berlusconismo «grande» e alleati «piccoli». Lo schema ligure racchiudeva le ambizioni di primato di Salvini, esaltate ora da una controversa riforma elettorale e da una radicalizzazione a destra dell’elettorato.
L’intuizione ulteriore è stata quella di «snaturare» il Carroccio, depurandolo almeno nominalmente delle radici nordiste e nazionalizzandolo. Salvini continua a elencare le città del centro e del sud Italia dove il leghismo ha preso consensi. Sembra dire a FI che il leader del centrodestra nazionale è lui. E alcuni parlamentari berlusconiani del Nord si sono subito allineati. I dubbi sull’estremismo anti-immigrati, l’antieuropeismo che faceva dire a Berlusconi «garantirò io per Salvini in Europa», sono evaporati.
Il problema è che rimangono, corposi, a Bruxelles e negli Stati Uniti, dove l’ ipotesi di un Salvini premier viene bollata come un favore al presidente russo, Vladimir Putin, di cui è ammiratore. Ma l’impressione è che il capo leghista sia pronto a governare come a rimanere all’opposizione, sicuro di ereditare il voto berlusconiano. Il presidente dei suoi deputati, Massimiliano Fedriga, non esclude nemmeno elezioni anticipate: pur vedendo spuntare, alla fine della crisi, un governo tra M5S e parte del Pd.
Repubblica 8.3.18
La battaglia nel partito
La lettera di dimissioni dalla segreteria firmata da Matteo Renzi è stata recapitata
I rivoltosi sono certi che il segretario non si presenterà in direzione. E giurano che i gruppi parlamentari, plasmati come una riserva di puro renzismo, stiano già cambiando bandiera. Quello del Senato sarebbe ormai in mano ai suoi nemici, quello alla Camera traballante. E proprio lì, tra i banchi dem, che si giocherà la vera sfida per il controllo del Pd.
La galassia renziana, indebolita fin quasi alle soglie dell’implosione, è davvero a un bivio. . Molti dei delegati, però, sono vittime di queste elezioni, dunque schegge impazzite pronte a rivoltarsi. E anche nei futuri gruppi la fluidità correntizia è fuori controllo.
Renzi potrebbe decidere di spaccare i gruppi parlamentari. Così gli chiede l’ala dura. Una scelta senza ritorno. Con quale destinazione? Oltre il Pd. Per rimettersi in marcia.
Repubblica 8.3.18
Colloquio con Prodi
“Quant’è dura però il Pd non è finito in politica si rimedia”
di Tommaso Ciriaco
ROMA In aeroporto bisogna abbassare il tono della voce. Ma non ce ne sarebbe bisogno, perché quella di Romano Prodi è già provata.
La batosta elettorale ha colpito la creatura che ha fondato, non c’è nulla da festeggiare. Prodi è l’Ulivo, la continuità del centrosinistra, l’unico ad aver vinto davvero un’elezione politica contro Silvio Berlusconi. Ma questo 18, 72% è davvero troppo. «Come sto?
Come vuole che stia... Come pensa che l’abbia presa? I miei sentimenti sono chiari, è un momento difficile, difficile».
Difficile è naturalmente un eufemismo.
È in Italia, in queste ore. Gira come sempre moltissimo, tra una conferenza e un’altra.
Dopo il 4 marzo chi lo ferma, per strada o in aeroporto, gli chiede sostanzialmente una cosa, un quesito brutale come lo scrutinio di domenica scorsa: il Pd è finito, è tutto irrimediabilmente compromesso? «No, non c’è nulla di irrimediabile in politica, c’è sempre un futuro.
Non tutto è irrimediabilmente compromesso».
Non è andato bene praticamente nulla, in questo passaggio senza preavviso dalla Seconda alla Terza Repubblica. Il “suo” Partito democratico si è schiantato sul muro grillino nel Mezzogiorno, pagando un prezzo altissimo anche al Nord contro il fronte unitario del centrodestra.
Prodi, comunque, è ombroso, dispiaciuto, quasi addolorato.
Tutto, ma non sorpreso: «Io alla vigilia ero il più pessimista, ne avevo parlato con tutti».
L’aveva detto anche a Matteo Renzi, che infatti andava dicendo in giro: «Sì, le previsioni peggiori sono quelle di Romano». Eppure, neanche lui ipotizzava un tale disastro.
«Purtroppo i dati hanno dimostrato che sono stato comunque infinitamente più ottimista del dovuto», è l’ironia amara dell’ex premier.
Dovesse intervenire pubblicamente, allora, come si rivolgerebbe a un mondo intero sotto choc, un’intera galassia erosa nel tempo chiamata a lungo comunità?
«Dico che ci sono, nel senso che seguo con tanta attenzione e partecipazione questo momento così difficile».
Ci ha provato anche prima delle elezioni, a dare una scossa. È salito sullo stesso palco di Paolo Gentiloni, l’ha investito di lodi. Ha pure bocciato l’operazione di Liberi e Uguali, chiedendo di votare la coalizione di centrosinistra. E di dare una mano alla lista ulivista, Insieme. È andata male, se si considera che quel progetto non è riuscito neanche a superare la soglia dell’1% e i suoi fedelissimi - a partire da Sandra Zampa - non sono riusciti a rientrare in Parlamento. Ma il Professore per adesso non va oltre, non è tempo di dire altro.
Lunedì scorso, però, a seggi appena chiusi uno dei big del Partito democratico ha telefonato a Prodi. A lui, l’ex premier ha confidato il suo ovvio dispiacere. Ma di fronte ai dati, riferiscono, ha ribadito anche una costante della sua storia: «Una cosa comunque è importante: - è stato il senso del suo ragionamento - non ha vinto Berlusconi». Forse anche da lì è possibile ripartire.
Alla vigilia ero il più pessimista di tutti.
Purtroppo i dati hanno dimostrato che ero stato più ottimista del dovuto. Che direi alla nostra gente? Che ci sono e partecipo a questa fase così difficile
Il Fatto 8.3.18
Il Pd è già oltre: Renzi non controlla più i gruppi
La conta - Le manovre per la formazione del governo partono da Palazzo Madama: ma lì Matteo può contare solo sulla metà dei senatori
di Wanda Marra
Matteo Renzi si è “formalmente dimesso lunedì”, con tanto di lettera scritta: è Matteo Orfini a farlo sapere, nel tardo pomeriggio di ieri, mentre il resto del gruppo dirigente già discute e litiga su come gestire il dopo. Nel Pd e nelle trattative per il governo. Tra Senato e Camera, i big dem – diversamente divisi – stanno facendo i conti degli eletti. Perché comunque vada lunedì in direzione, saranno i gruppi parlamentari che permetteranno o affonderanno la nascita di un governo. Il Pd è l’ago della bilancia per qualsiasi tipo di esecutivo, a parte quello Cinque Stelle – Lega, che, pur essendo l’unico che avrebbe i numeri, non sembra essere nei radar. La prima cosa che balza agli occhi è che – nonostante la blindatura fatta con le liste – Matteo Renzi in Senato (dove ha scelto di candidarsi, insieme ai fedelissimi) può mettere la mano sul fuoco solo su meno della metà dei 57 eletti (tra Pd e coalizione) nel gruppo. A Montecitorio, i calcoli sono più complessi, ma la proporzione è ancora meno renziana. In entrambi i rami del Parlamento, comunque, Renzi dovrebbe arrivare ai 20 eletti alla Camera e 10 al Senato, quelli che potrebbero consentirgli di formare gruppi autonomi.
In attesa della direzione di lunedì, ieri Carlo Calenda, è andato al Nazareno, si è fatto fotografare con il vice segretario Maurizio Martina, poi ha preso la tessera. Il tutto chiarendo: “Il leader naturale del partito è Paolo Gentiloni”. E soprattutto, mettendo in chiaro: “Siamo alternativi al Movimento Cinque Stelle. Altrimenti, la tessera la riconsegno subito”. Seguito a ruota da Andrea Orlando: “Il 90 per cento del partito è contro il governo con M5s o il centrodestra”. Ma: “Nessun traccheggiamento. Lo statuto dice che se cade il segretario si dimette tutto il gruppo dirigente”. Tutti i big del Pd (tranne Michele Emiliano), mentre si attestano (almeno a parole) sulla linea di Renzi, chiedono la sua testa. Che a un certo punto pare arrivare definitivamente per bocca di Orfini.
Lunedì, dunque, Renzi cesserà formalmente di essere segretario. Il reggente dovrebbe essere Martina (che è pur sempre il suo vice). La minoranza (e non solo) chiede che sia affiancato da una “cabina di regia”. Per adesso, da Orfini arriva un no. Poi sarà convocata l’Assemblea. A quel punto, parte il percorso congressuale. La prima partita che si apre è nel Pd: Renzi si ricandida? In questi giorni lo ha smentito categoricamente. E chi si prepara ad assumerne la leadership? E Renzi rimarrà in minoranza? Oppure cercherà di ricominciare da un suo partito?
Molto si capirà nelle prossime settimane, durante le elezioni dei capigruppo (che Renzi vuole scegliere) e dei presidenti di Camera e Senato. Si parte da Palazzo Madama. Al momento, una trattativa con Luigi Di Maio vede favorevoli a Palazzo Madama solo gli uomini di Emiliano, ovvero Assuntella Messina e Dario Stefano. I senatori M5s sono 112: per la maggioranza serve quasi tutto il gruppo del Pd. In un primo momento Dario Franceschini aveva sperato di essere il prescelto, in questo schema, per una presidenza di garanzia di Montecitorio. Ci ha pensato Renzi a stoppare l’operazione. Per ora.
Poi c’è l’opzione di un appoggio al governo di centrodestra. Guidato da Matteo Salvini. O da qualcuno di Forza Italia che potrebbe subentrargli se lui dovesse fallire. Basta la metà del gruppo dem, sia alla Camera che al Senato. Contando su Renzi o facendo fuori Renzi? La prima operazione, che si sta testando in quest’ottica è quella che vuole Zanda presidente del Senato con Renzi fuori. Numeri incerti.
Passando ai raggi x i senatori dem, quelli prontissimi a seguire gli ordini di Renzi sono in tutto poco più di una ventina: i più noti, Francesco Bonifazi, Davide Faraone, Ernesto Magorno, Simona Malpezzi, Daniele Manca, Andrea Marcucci, Salvatore Margiotta, Tommaso Nannicini, Dario Parrini, Valeria Sudano, Teresa Bellanova. Oltre allo stesso Renzi. In partenza, ma con tenuta dubbia, anche Tommaso Cerno, Edoardo Patriarca, Gianni Pittella, Roberto Rampi, Matteo Richetti. Su Alessandro Alfieri, Valeria Fedeli, Mauro Marino, c’è un punto interrogativo. Mentre Emma Bonino, Pierferdinando Casini, Luigi Zanda veleggiano verso altri lidi. Ascrivibili all’area Zanda-Franceschini sono almeno in 5, tra cui Roberta Pinotti. Poi ci sono 3 orfiniani (Valeria Valente, Vincenzo D’Arienzo e Francesco Verducci) e 3 orlandiani (Antonio Misiani, Anna Rossomando, Monica Cirinnà). Basta qualche rapido calcolo per capire che la situazione è fluida.
Repubblica 8.3.18
I due vincitori e l’impossibile analogia del ’76
di Stefano Folli
Fra i problemi dell’inizio di legislatura ce n’è uno che sovrasta tutti gli altri: mancano analogie e termini di paragone con il passato. Tutto o quasi è senza precedenti. È questo l’aspetto che rende così complesso il compito del presidente Mattarella. L’unica analogia che qualcuno ha proposto è con il 1976, l’anno dei due vincitori delle elezioni (Dc e Pci) e del governo Andreotti cosiddetto della “non sfiducia”. In quell’occasione democristiani e comunisti, premiati entrambi dal voto, decisero di sostenere l’esecutivo senza stringere un patto politico allora improponibile, ma ricorrendo a un meccanismo parlamentare fatto di astensioni strategiche. Così tenevano in piedi il presidente del Consiglio senza far parte insieme di una maggioranza vincolante.
Altri tempi e altri protagonisti. Nel quadro della solidarietà nazionale, quel bipolarismo Dc-Pci si fondava su forze strutturate e calate nella storia politica del Paese. Forze, tra l’altro, che avevano già governato insieme nell’immediato dopoguerra. Oggi lo scenario è del tutto diverso. Il nuovo bipolarismo si regge su Movimento Cinquestelle e Lega, partiti radicali nati dalla perdita di credibilità della classe dirigente e vittoriosi contro Renzi e Berlusconi, la coppia che sperava di avere i voti per governare in condominio. La fantasia della storia ha deciso altrimenti.
Di fatto i due vincitori del 2018 non hanno alcun interesse a mettersi d’accordo fra loro, come fecero i loro antenati del 1976. Sono rivali, cercano di sottrarsi voti l’un l’altro, competono per lo stesso elettorato; l’unica differenza è geografica: Nord leghista contro Sud pentastellato. Quindi è da escludere un esecutivo fantascientifico Di Maio-Salvini o viceversa. Anche le prospettive sono diverse. Al di là dei proclami, Salvini sembra mirare alla conquista di una definitiva leadership sul centrodestra prima di dedicarsi alla scalata di Palazzo Chigi. Quest’ultimo obiettivo, pur irrinunciabile, oggi è prematuro: gli mancano i voti e Berlusconi è ancora in grado di mettergli i bastoni fra le ruote, logorandolo. Prova ne sia che al leader leghista non riuscirà di andare al Quirinale con una delegazione comune di tutto il centrodestra. Il che indebolisce non poco l’immagine della coalizione agli occhi del capo dello Stato.
Di Maio invece vuole giocarsi subito e fino in fondo la sua possibilità di formare il governo. Ne ha tutto il diritto, avendo ottenuto i voti di un terzo degli elettori.
Tuttavia per riuscirci ha bisogno di una maggioranza e quindi di un’intesa politica con il Pd. Con l’intero Pd, non con il cinquanta per cento frutto dell’ennesima scissione. Gli indizi delle ultime ore dimostrano che il partito respinge le sirene a Cinquestelle. Quali che siano le tentazioni di qualcuno, il gruppo di vertice non può farsi strattonare e travolgere dalle tattiche grilline. Per cui il “no” di Orlando si aggiunge a quelli pronunciati da Franceschini, Gentiloni, Zanda, Calenda. E si capisce: la priorità in queste ore è allontanare Renzi dalla segreteria.
Dando per scontato che resterà sulla scena politica come un fantasma ingombrante, ma almeno non sarà più il capo a cui dover obbedire. Solo in seguito il Pd comincerà ad agire per non essere tagliato fuori dagli sviluppi della legislatura. Farà in modo di aiutare Mattarella, il quale chiede che le forze parlamentari non rinuncino a dialogare.
Qualsiasi passo il Pd lo farà per allargare e non restringere i margini di manovra del capo dello Stato. La crisi sarà lunga e il M5S dovrà accettarne i bizantinismi.
Corriere 8.3.18
Neppure il 30% di donne tra i nuovi parlamentari
La legge elettorale prevedeva norme precise per la parità di genere, che sono state con precisione aggirate: sono così 185 (su 630, il 29%) le elette alla Camera e 86 (su 315, il 27%) al Senato. Nessun aumento di senatrici (il numero è identico alla legislatura precedente), deputate addirittura in calo (ne furono elette 198 nel 2013). I numeri non sono definitivi, visti i complessi meccanismi del Rosatellum. In ogni caso, le quote previste dalla legge (non più del 60% di candidati dello stesso sesso, almeno il 40% di donne capolista e l’alternanza uomo/donna in lista) sono state aggirate candidando le donne capolista in più collegi (ogni eletta favoriva l’accesso al seggio di fino a 5 candidati uomini). Il gruppo con più donne è del M5S: 42 su 112 eletti.
Il Fatto 8.3.18
Governo, per evitare di sparire il Pd deve parlare con Di Maio
di Peter Gomez
qui
https://www.ilfattoquotidiano.it/premium/articoli/vedrete-pochi-mesi-ancora-dattesa-e-ci-sara-lesecutivo/
il manifesto 8.3.18
Il malessere del sud covava da 15 anni
Sinistra all'anno zero. Dopo questa sconfitta dobbiamo cambiare tutto e cambiare tutti. Un’avventura con tanti rischi ma che potrebbe essere meno triste del presente uscito dal voto
di Aldo Carra
Il Pd ha perso, LeU non ha sfondato, PaP non si è affermata. La sinistra ha toccato il minimo storico. Il voto misura i consensi ai partiti in un preciso momento. Ma quando i risultati sono pesanti e omogenei, il voto fa vedere anche quali fenomeni covavano da tempo e non sono stati avvertiti in tempo.
Il voto del 4 marzo ha queste caratteristiche e mostra il punto di arrivo di due fenomeni diversi in atto nelle due grandi aree del paese. Al centro-nord si tratta del fenomeno migratorio e del suo intreccio con la crisi economica degli ultimi 10 anni, un mix di insicurezza che cresce e di disperazione che arriva. Al centro-sud della crescita della disoccupazione e delle povertà accentuate dalla stessa crisi e della contestuale fine dei tradizionali ammortizzatori clientelari. Un mix di bisogni che crescono e risposte che calano.
I due fatti clamorosi che registriamo oggi – il successo della Lega al centro nord e l’affermazione ancor più clamorosa del M5s in tutto il mezzogiorno (ma nel voto proporzionale anche nel settentrione – sono la risultante dei processi che hanno agito nel corso degli ultimi 10-15 anni. Il loro effetto è visibile nella carta d’Italia con i colori che evidenziano le aree di sfondamento della Lega e del M5s. Sembra di essere tornati indietro di 150 anni, al tempo del Regno delle Due Sicilie!
Sul voto al sud hanno scritto cose che condivido Michele Prospero e Piero Bevilacqua. Vorrei integrarle con alcune possibili implicazioni per il futuro.
I fenomeni di disoccupazione e povertà sono endemici nel sud. Essi sono stati attenuati con le politiche clientelari dell’era democristiana e con la catena della distribuzione dei profitti dell’economia criminale soprattutto nella fase di sviluppo dell’edilizia privata e dei lavori pubblici. Erano i tempi in cui Dc e spesa pubblica svolgevano la funzione di ammortizzatori sociali. Dopo, queste risorse e questi canali si sono indeboliti: le politiche di austerità hanno chiuso il rubinetto della spesa pubblica, le mafie, in parte sconfitte, si sono spostate nel nord ed oltreconfine specializzandosi in droga e finanza e delocalizzando. Così sempre di più oggi i giovani sono costretti a fuggire e chi resta ha prospettive buie aggravate dalla preoccupazione per gli effetti prossimi dei processi di automazione e robotizzazione. In questo quadro il divario tra il malessere dei molti impoveriti dalla disoccupazione e il benessere dei pochi arricchiti – tra i quali si collocano gli strati sociali dei politici ai diversi livelli istituzionali – costituisce una miscela esplosiva conservata in un serbatoio di rabbia.
Le classi politiche che si sono succedute al potere non hanno saputo né dare una risposta né essere di esempio. E nelle politiche e nella gestione del potere, le distinzioni tra sinistra e destra non si sono viste anticipando così lo slogan del loro superamento. Questo il terreno fertile ben seminato e coltivato dal M5s con le parole d’ordine dell’onestà e della riduzione dei costi della politica. Un Partito Etico come risposta alla crisi! Un eresia per alcuni, un bisogno per altri.
Stando fuori si pensa che un’arma importante di penetrazione del M5s sia stata la proposta di reddito di cittadinanza. Questa ipotesi confermerebbe lo stereotipo dei meridionali che aspettano assistenza. Ma in realtà non sembra sia questa la leva principale del consenso: sono state la rabbia e la convinzione che peggio di così non potrà essere.
Il M5S ha prima contenuto la fuga verso l’astensione. Oggi ha un compito ancora più grande.
La rabbia che sfocia nel voto è anche un grande investimento in speranza. Il doppio voto di protesta e di speranza è una scommessa da far tremare i polsi. Esso non potrà essere deluso.
Torniamo alla sinistra. I voti in più al M5S vengono in buona parte da sinistra (adesso il 20% dei voti persi dal Pd) e si aggiungono a quelli che già erano transitati. Può sembrare paradossale, ma proprio mentre si afferma una leadership più moderata, rassicurante e realistica come quella di Di Maio, il corpo elettorale è sempre più costituito da persone con storie di sinistra alle spalle. Abbiamo cercato di andarli a prendere nel bosco, ma loro si sono accasati nel M5s.
La sinistra ha davanti a sé un compito enorme. Rinnovarsi o rigenerarsi sono forse termini moderati che esprimono continuità. Più probabilmente la sinistra dovrà rinascere. In forme nuove, con modalità di azione nuove, con forze nuove.
Le aree di malessere prima indicate dovrebbero essere il terreno di una nuova pratica politica. Una pratica in cui ci si confronta con i problemi e con le soluzioni, ci si sfida, si compete e si collabora, si fa politica per le persone e con le persone. Si costruisce una comunità e insieme una nuova identità. Dopo questa sconfitta dobbiamo cambiare, cambiare tutto e cambiare tutti. Un’avventura, con tanti rischi? Sì. Ma potrebbe essere meno triste del presente.
La Stampa 8.3.18
Calenda e il rischio di una bella scorciatoia
di Federico Geremicca
Nettamente battuto nelle urne e in uno stato di evidente confusione (accentuata dalle dimissioni a tappe di Matteo Renzi) il Pd ha avviato la sua discussione post elettorale concentrandola, per ora, su due questioni che - in tempi di lucidità - avrebbe risolto in mezza mattinata: parliamo della possibilità di affidare al neo-iscritto Carlo Calenda il ruolo di salvatore della Patria (in opposizione al segretario) e dell’opportunità di avviare trattative per la formazione di un governo Cinque Stelle-Pd.
Lo stato maggiore democratico sta affrontando entrambe le questioni in maniera evidentemente strumentale: ciò nonostante, il fatto che non ci si renda conto del disorientamento che il solo discutere di ipotesi simili produce tra simpatizzanti ed elettori, è un segnale che dovrebbe preoccupare. Per ora, l’unico che chiede apertamente di sostenere un ipotetico governo-Di Maio è Michele Emiliano, che già ai tempi delle primarie contro Renzi e Orlando nella corsa alla segreteria fu definito “il più grillino dei candidati”: la sua posizione, dunque, non sorprende. Stupisce, invece, che il gruppo dirigente democratico stia faticando ad archiviare quella proposta come chiaro sintomo di una sorta di sindrome di Stoccolma: tanto che le parole più nette le ha dovute pronunciare proprio Calenda, invocando «onore e dignità». Calenda, appunto: che giusto il tempo di annunciare l’iscrizione al Pd e si è ritrovato nel ruolo di possibile segretario: tanto che ha dovuto chiarire che «se cercano un anti-Renzi, non sono io». È almeno un anno che le analisi degli oppositori interni del segretario - al netto dell’insofferenza verso certi metodi di direzione - elencano le seguenti criticità: sottovalutazione del crescere delle disuguaglianze, lontananza dai ceti più deboli, scarsa identità come partito di sinistra o del centrosinistra, celebrazione esagerata delle eccellenze italiane e totale identificazione con l’establishment.
Che a qualcuno possa venire in mente che la risposta a tutto questo sia nel volto, nel profilo e nelle idee di Carlo Calenda è stupefacente: per formazione, cultura e modo d’intendere l’azione politica, infatti, non ha nessuna delle caratteristiche che servirebbero a superare le criticità segnalate (ammesso sia quello il punto da cui ripartire). Immaginare Calenda nei panni del “rifondatore”, insomma, contraddice quanto addebitato in questi anni al segretario. Certo, il suo è un bel nome. Ma la sensazione è che il tempo delle scorciatoie e delle belle trovate, per il Pd sia definitivamente finito.
Corriere 8.3.18
«M5S di sinistra? Non scherziamo» Da Rossanda a Macaluso quei no a Scalfari
Dopo l’apertura del giornalista
di Tommaso Labate
ROMA «È una cosa schifosa. Ma come si può dire una cosa simile? Sono anni che i Cinquestelle dimostrano di essere inaffidabili. E di certo non sono di sinistra». A Rossana Rossanda basta un filo di voce per mettere a verbale che no, no e poi no. Non le piace affatto la suggestione, affidata a Di Martedì su La7 da Eugenio Scalfari a Giovanni Floris, di una maggioranza M5S-Pd come embrione di una «nuova sinistra». Per la ragazza del secolo scorso, fondatrice del manifesto , è una soluzione «a cui è impossibile anche solo pensare. E comunque, quella non sarebbe la sinistra».
In fondo, pur partendo da posizioni storicamente distanti, è lo stesso punto di approdo del ragionamento di Emanuele Macaluso. «M5S nuova sinistra? Ma non scherziamo. Sono contro la democrazia parlamentare, contro l’Europa. Non vedo cambiamenti negli ultimi giorni se non la voglia di mettere una serie di pezze per provare ad andare al governo», è l’analisi dell’ex senatore del Pci e direttore dell’ Unità , che nel suo corsivo quotidiano su Facebook («Em.Ma in corsivo») ha messo in fila le ragioni per cui il Pd dovrebbe — al bivio con l’offerta di Di Maio — imboccare un’altra strada. «Per quel che riguarda il governo, lasciamo a Mattarella il compito di sbrogliare la matassa. In ogni caso, le responsabilità primarie vanno a chi ha vinto le elezioni». Punto.
Governo o non governo, anche Fausto Bertinotti è convinto che non si possa — come ha fatto Scalfari — ascrivere i M5S alla sinistra: «La sinistra è morta, non c’è più». «E non la si può certo ricostruire uscendo fuori dai confini del movimento operaio. Già la si era snaturata con quello che chiamavamo per convenzione “centrosinistra”. Ma come si fa a snaturare ulteriormente quello che non esiste più?». Massimo Cacciari, l’ha detto alla trasmissione Tagadà su La7, non dà ragione a Scalfari. Ma sul governo ammette che «se fossi Mattarella affiderei l’incarico ai Cinquestelle, che sono i vincitori delle elezioni. E se fossi il Pd – aggiunge – li manderei al governo da soli con un’astensione». Tesi che, però, non pare in cima alla visione di Carlo Freccero. «Renzi è un arrogante che è stato sconfitto. Ma la mossa di non fare accordi è stata azzeccata. I grillini vogliono spolpare il Pd». Sì, va bene, ma la nuova sinistra? «La sinistra voleva cambiare il mondo ma i media hanno cambiato noi. Non c’entrano nulla né il Pd, che nasceva come partito americano. Né Di Maio, che rappresenta il sincretismo della Rete».
Sandra Verusio, proprietaria del salotto più frequentato dalla sinistra italiana, dice che «Scalfari magari avrà ragione, forse l’accordo Pd-M5S è l’unico sbocco della crisi. Ma i grillini non mi convincono». Se inviterebbe Di Maio nel suo salotto? «Invito i miei amici, Di Maio non lo conosco. E poi magari non vorrebbe essere invitato, si annoierebbe». Sipario.
Corriere 8.3.18
Renzi e l’accanimento dei suoi nemici
Con rispetto parlando (del calcio e dell’asino )
di Claudio Magris
Il calcio dell’asino al leone morente non è l’unica delle menzognere calunnie scagliate per secoli contro il paziente e caparbio animale e rigorosamente e gustosamente smentite nell’ Asino caro di Roberto Finzi. Secondo quell’antica favola calunniosa l’asino, dopo aver vilmente tremato di fronte al leone rampante e potente, quando quest’ultimo sta morendo ed è privo di ogni forza gli sferra un calcio. Se tale apologo è falso per quel che riguarda gli asini, non lo è affatto nei confronti degli uomini, per i quali quel calcio è uno dei gesti abituali, quasi un tratto distintivo.
Una sconcia infamia che rischia talora di deturpare anche momenti grandi e gloriosi, come l’indelebile e bestiale macchia di Piazzale Loreto sul grande momento della Liberazione e della rinascita nazionale. Ora, più modestamente e con minor rischio di passare alla Storia, sembra essere la volta di Renzi, oggetto di calci non asinini se non in senso improprio. Non intendo affatto discutere o valutare né men che meno difendere il suo operato. Quello che è oggi il primo partito è stato più intelligente e credibile e ha conseguentemente vinto. Renzi ha perduto, insieme al partito da lui guidato, ed è ovvio ne debba portare le conseguenze. Quando il Pds fu sconfitto alle elezioni del 1994, Achille Occhetto, che lo guidava, si ritirò e così fecero in altre circostanze altri leader, anche se non tutti, ad esempio non Berlusconi dopo la sconfitta del 1996. Perfino il più grande politico che abbiano avuto l’Europa e l’Occidente dopo la Seconda guerra mondiale, de Gaulle, si ritirò nel 1969 dopo aver perso il referendum da lui voluto.
Gli errori si pagano, anche se purtroppo non sempre. Quello che colpisce, soprattutto in certe trasmissioni televisive, è l’accanimento non solo e non tanto politico, come è giusto e legittimo, ma vischiosamente personale nei confronti di Renzi. Politologi e giornalisti si improvvisano psicologi e psicoanalisti, vogliono penetrare l’inconscio e le interiora del leader oggi sconfitto, ne diagnosticano complessi e nevrosi, quasi appropriandosi del mestiere e del potere del medico — specie quello dell’analista dell’anima, qualsiasi cosa si intenda con tale termine — ben più inquietante del potere del politico vittorioso per 10 o 15 punti alle elezioni.
Alla tv, mentre belle presentatrici sorridono compiaciute come le spettatrici alla corrida quando il toro viene infilzato, sulle facce di alcuni commentatori si vede non la fredda e pacata espressione del giudizio dell’interesse politico, come sarebbe ovvio. Si vedono piuttosto sorrisetti e smorfiette di piacere, quasi un piccino e furbetto godimento sessuale, ancorché ben lontano dalla potenza erotica giustamente celebrata nell’Asino di cui nel grande romanzo di Apuleio pure l’esigente signora di Corinto è ben soddisfatta. Con rispetto parlando, dicevano i Dalmati quando pronunciavano una parola un po’ disdicevole o scurrile.
Di quali leader cui la vittoria stampa una faccia feroce, scura non per nascita ma per odio, sarebbe bene pronunciare il nome accoppiandolo sempre a quella sana espressione dalmata, che si ritrova peraltro in tanti altri dialetti?
La Stampa 8.3.18
Pomigliano, dietro il boom dei 5 Stelle
La fine del sogno di una Torino del Sud
Nel ’68 gli studenti ci andavano per studiare la classe operaia
La crisi delle fabbriche ha decretato la lenta morte della sinistra
di Lucia Annunziata
Luigi Di Maio viene da Pomigliano, un paese che gli ha tributato onori da Cesare, e a cui è tornato nel giorno della vittoria, in un lodevole sfoggio di lealtà. Ha fatto bene a festeggiare lì - c’è infatti un filo non casuale tra Pomigliano, Luigi Di Maio e la fortuna elettorale dei pentastellati.
Nelle cronache recenti il paese viene spesso descritto con il termine «periferia» e in questa scelta delle parole si misura tutta la distanza che il ceto intellettuale ha maturato con il territorio. Forse per capire perché il voto del Sud è andato ai cinquestelle basta raccontare qualcosa di più su questo centro urbano.
Lì a Pomigliano noi andavamo nel 1972. Ero studentessa con l’eskimo in pieno caos dell’università di Napoli occupata. Ci accalcavamo nelle Cinquecento, pacchi di volantini sulle ginocchia, nelle mattine umide delle città di mare, verso il nostro personale paradiso, il contatto con la classe operaia, la sede della rivoluzione.
A Pomigliano, già allora uno dei poli industriali più grandi del Sud, c’era l’AlfaSud, gemella di Arese, rinata per l’opera degli azionisti Alfa Romeo (88%), Finmeccanica(10%) e Iri (2%), più Cassa del Mezzogiorno e Banco di Napoli. Il 28 aprile del 1968, alla posa della prima pietra c’era il presidente del Consiglio Aldo Moro.
A Pomigliano c’erano «le Fabbriche», quelle vere, metalmeccaniche, grandi, circondate da piazzali di cemento, fari gialli, cancelli e tornelli, da cui ogni otto ore una marea umana entrava e usciva, notte e giorno. Sembrava di stare a Torino, a Milano, e per noi era la prova che il Sud non era più una regione, ma era come tutto il resto del Paese. Anni dopo, negli anni 2000, quelle orgogliose fabbriche erano ridiventate un simbolo della vergogna del Sud. Finite irrilevanti, nella nuova era della globalizzazione, competizione con nuovi mercati del lavoro, erano piagate da assenteismo, calo di produttività, un assurdo numero di invalidi.
Pomigliano, diventa così il luogo di un’altra svolta politica: vi si svolge il primo referendum su un diverso contratto di lavoro voluto dall’amministratore della Fiat, per testare le acque di un nuovo ciclo di modernizzazione. Il referendum diventa Marchionne contro la Fiom dell’appena eletto Maurizio Landini. Lo scontro è in realtà tra la difesa di un mondo del lavoro finito, e le nuove flessibilità del lavoro odierno.
La Fiom ne esce sconfitta: il 62 per cento degli operai vota sì. Quelle fabbriche oggi sono molto ridotte, e i primi a saperlo sono quelli che ci lavorano. Da quel mondo di speranze interrotte del Sud, dalla fine stessa della industrializzazione, nasce Luigi Di Maio.
Il Mezzogiorno è tornato negli ultimi anni il luogo in cui chi lavora è passato dal posto fisso, alla accettazione dei lavoretti vari. La sinistra cade con la fine del modello industriale con cui era nata. I M5S nascono nel mondo frammentato di un Sud in cui ognuno è sempre più solo di fronte alle proprie soluzioni di vita.
Non è dopotutto un grande mistero quello che è successo. È un mondo che finisce e uno che si riaggiusta.
Il fatto strano, colpevole se volete, è che questa svolta non è stata mai avvertita dal Pd, nemmeno nelle zone come queste, che erano dopotutto aree simbolo.
Di questa cecità vorrei fare un altro esempio. Da anni polemizzo, nel mio piccolo, ogni anno, con i dati nazionali sulla disoccupazione giovanile nel Sud: il 56% , cioè il doppio delle regioni settentrionali (2017, Istat); la cifra dei giovani inattivi, i Neet, è di 1,8 mln (Confindustria-Srm, 2017). Ma voi davvero credete che ci sia una popolazione al Sud della portata di milioni che se ne sta a casa? Se così fosse immaginate che segni dovremmo vedere di una catastrofe così grande.
Se venite al Sud, invece, non vi troverete nulla di paralizzato. Da anni il Sud rimane, anche nei dati statistici, una fucina di piccole attività, la reinvenzione del lavoro - dalla distribuzione delle mozzarelle fresche spedite ai grandi consumatori, tipo la Regina di Inghilterra, ai vinai che hanno inventato nuove marche e prodotti di gran successo, alle attività urbane di recupero e a quelle del turismo. Non vedrete in giro nessun giovane nel Sud con le mani in mano. Il fatto vero, che tutti sappiamo, è che quasi tutte queste nuove attività sono in nero. E dunque anche i suoi lavoratori non sono emersi. Essi vivono nel mercato parallelo della evasione fiscale, delle regole aggirate, dei pagamenti cash. E che la malavita, la corruzione, trovi un suo forte posto in questo mondo non è sorprendente.
Il concetto di Sud fu fissato nella coscienza nazionale all’epoca del governo Giolitti, con le leggi speciali del 1904 che finanziarono la industrializzazione del Sud. Lo Stato arriva in questa regione fin dall’inizio come elargitore di denaro, padrone e padre, la cui richiesta di voti, in cambio di tanto interesse, diventa il paradigma di un secondo livello della politica. Negli anni questa dipendenza e scambio diventerà sempre più pressante, e imbarazzantemente familista. Producendo il fenomeno che anche oggi scontiamo di un Sud politico avvitato intorno a una casta di mandarini, cacicchi che tengono sotto scacco gli apparati nazionali dei partiti.
Eccetto che lo Stato da anni non ha più soldi, e la rete dei signori del voto meridionale è diventata tanto più impotente quanto più ingombrante.
I meridionali queste cose le sanno. E da popolo furbo, ambizioso e industrioso, quali sono, hanno continuato la loro strada, sentendosi sempre meno legati alle lealtà precedenti, e sempre più desiderosi di trovarne di nuove.
Il voto ai M5S è il segnale più recente di questo loro distacco. E, se mi si permette un paragone azzardato, in fondo questo è il ritratto, magistralmente raccontato da J.D Vance, nel libro Hillbilly Elegy, anche del Sud degli Stati Uniti che ha votato Trump.
È tutto, come si vede, abbastanza semplice. Non ci sono mai misteri in politica. Ma una lezione viene da questa storia: i pentastellati che oggi indossano il lauro del vincitore, devono stare ben attenti a non sedersi su quello stesso alloro.
il manifesto 8.3.18
Omicidio Diène, tutto porta al razzismo
Neri per caso?. L'omicida Pirrone, pistola in tasca, ha camminato per circa un chilometro in una zona densamente abitata, incontrando svariate persone, prima di sparare e dare il colpo di grazia all'ambulante senegalese. Sabato manifestazione antirazzista, anche se il sindaco Nardella non nomina mai la parola tabù. Prendendosela con "gli estremisti fiorentini, centri sociali e forze politiche di sinistra".
di Riccardo Chiari
FIRENZE Roberto Pirrone non ha sparato al primo uomo che ha incontrato in strada: uscito di casa con in tasca la pistola, ha camminato per circa un chilometro in una zona densamente abitata fino ad arrivare al ponte Vespucci, dove ha fatto fuoco per sei volte contro Idy Diène, colpendolo una prima volta, e poi finendolo con un colpo di grazia alla testa. “Credo che sia stato un omicidio premeditato”, aveva subito tirato le somme Mame Diarra Fam, deputata senegalese arrivata in città dopo l’omicidio.
Quanto al razzismo, gli investigatori che lo hanno ascoltato, e che non hanno notato alcun segno di pentimento, partono dal dato di fatto che Pirrone non può non aver incrociato svariate persone nel suo cammino. E, lavorando per verificare ogni parte della sua verità (dal desiderio di suicidarsi all’ “ammazzo il primo vecchio che incontro, così me ne vado in carcere”), stanno anche analizzando i filmati delle telecamere presenti in zona. Dalle quali, con tutta probabilità, la versione del “primo vecchio che capita” sarà spazzata via.
Intervistata da alcuni quotidiani e ieri dal telegiornale regionale della Rai, la moglie della vittima, Rokhaya Kene Mbengue ha fatto una domanda cui andrà data risposta: “Tocca sempre ai senegalesi. Perché? Ora io ho paura anche a camminare da sola per strada”. Rokhaya era stata moglie anche di Samb Modou, uno dei senegalesi trucidati nel dicembre 2011 dal suprematista di Casa Pound, Gianluca Casseri. “Prima è toccato al mio primo marito che mio figlio di 19 anni non ha mai potuto conoscere, ora è toccato a Idy. Questa non è vita, in questo momento vorrei morire”. Va da sé che, anche secondo lei, c’è stato un movente razzista alle origini dell’omicidio.
Nonostante i continui tentativi di allontanare la matrice razzista dell’omicidio, sabato pomeriggio (ore 15) dal ponte Vespucci partirà una manifestazione antirazzista. “Stiamo lavorando per organizzare sabato la manifestazione nazionale per Idy e contro il razzismo – ha raccontato all’agenzia Ansa il portavoce dell’associazione dei senegalesi, Mamadu Sall – vogliamo farla anche per non lasciare alcun spazio agli estremisti che ieri al presidio hanno rovinato tutto. Non c’entrano nulla con noi, vogliamo isolarli”.
Se per “estremisti” Sall ha inteso i (pochi) uomini di pelle bianca al presidio, può stare tranquillo: la polizia ha reso noto che, oltre al giovane che ha sputato addosso al sindaco Nardella, accusato di oltraggio e resistenza, altri due manifestanti (con la formula oggi di rito “dell’area antagonista e vicini ai centri sociali”) sono stati denunciati per resistenza, dopo essere intervenuti cercando di impedire agli agenti di fermare il responsabile dello sputo.
Se invece Sall si riferisce ai non pochi senegalesi che hanno inveito e dato qualche spinta a Nardella, e di cui il portavoce dell’associazione ha dato la patente di estremisti (“sono alcuni senegalesi che però non conosciamo e con i quali non abbiamo nulla a che spartire”), c’è da sottolineare la concomitanza fra le sue dichiarazioni, quelle di un’assessora senegalese al comune di Scandicci, e naturalmente quelle del sindaco Nardella.
L’erede di Matteo Renzi in Palazzo Vecchio ieri ha fatto il giro delle tv. Stando ben attento a non parlare mai di razzismo, ha invece puntato l’indice contro “gli estremisti” fiorentini: “In questa comunità si sono infiltrate frange estreme, pericolose, a cominciare dai centri sociali, da estremisti, da forze politiche di sinistra che hanno poco a che fare con la sinistra democratica, che hanno letteralmente strumentalizzato questo fatto grave”.
A seguire, in risposta alla (sacrosanta) richiesta di una giornata di lutto cittadino, fatta con una mozione dai gruppi consiliari di Firenze riparte a sinistra-Potere al Popolo, M5S, Mdp, Al, e dalla consigliera Cristina Scaletti (“una richiesta già avanzata dalla comunità senegalese”), Nardella ha glissato, proponendo invece “una cerimonia funebre con una preghiera interreligiosa”. La mozione, appoggiata anche dal gruppo regionale Toscana a Sinistra, è stata però “congelata” dal Pd. Unica concessione, un minuto di silenzio per Diène oggi a Palazzo Vecchio e alle Gallerie degli Uffizi. Nel giorno di lutto per il capitano viola Davide Astori.
Il Fatto 8.3.17
Firenze, senegalese ucciso. Potere al popolo: “Pd nega il lutto cittadino per Idy Diene”
La denuncia arriva da Miriam Amato, che in un comunicato spiega come il capogruppo dem in consiglio comunale abbia rifiutato di sottoscrivere la mozione che riguardava l'ambulante freddato su Ponte Vespucci
“Il capogruppo del Pd, Angelo Bassi, si è rifiutato di sottoscriverla impedendoci quindi, in base alle norme, di presentare l’atto e votarlo in aula. Un chiaro diniego al lutto cittadino per Idy Diene“. Miriam Amato, la consigliera comunale di Potere al Popolo di Firenze, in un comunicato stampa parla della mozione di cui lei insieme a Firenze riparte a Sinistra, Mdp, M5S e consigliera civica Cristina Scaletti voleva chiedere l’indizione. Riguardava la proposta di lutto cittadino per la morte dell’ambulante senegalese ucciso nel capoluogo toscano da un 65enne che voleva suicidarsi. Un omicidio a seguito del quale si sono verificati disordini durante il presidio su Ponte Vespucci, luogo dell’omicidio, e contestazioni al sindaco Dario Nardella. “Nonostante un lungo dialogo e le sollecitazioni da parte dell’opposizione – spiega Miriam Amato – il gruppo del Partito democratico e l’assessore Funaro non hanno speso una parola in merito, neanche per giustificare il diniego”.
il manifesto 8.3.18
Non Una di Meno sciopera in 40 città: «Siamo marea, diventiamo tempesta»
8 marzo è sciopero. Da Roma a Milano, da Sud a Nord, il movimento femminista Non Una di Meno rivendica il «reddito di autodeterminazione». Potenza dello sciopero nel XXI secolo: contro la violenza maschile, le molestie sessuali, la precarietà. Oggi sciopero generale nazionale indetto da Usb a Usi per 24 ore dalla scuola ai trasporti locali
di Roberto Ciccarelli
Il movimento femminista «Non una di meno», una delle più significative novità della politica italiana, torna oggi a sfilare in 40 città in occasionedello sciopero globale delle donne dell’otto marzo. Da Roma (ore 17 da Piazza Vittorio) a Milano (due cortei: 9,30 Largo Cairoli; 18 piazza Duca d’Aosta), e poi Torino e Bologna, Bari, Salerno, Reggio Calabria, tutta la penisola sarà invasa da quella che si è definita una «marea».
«MAREA» è un concetto molto preciso che indica l’espansione, e l’imprendibilità di un movimento con le forme tradizionali del «politico» e della «rappresentanza». «Marea» è, in sé, la forma della potenza, elemento primario della politica.
«SCIOPERARE È una grande sfida perché ci scontriamo con il ricatto del lavoro precario o del permesso di soggiorno – affermano le attiviste – Scioperare può sembrare impossibile quando siamo isolate e divise e sappiamo che il diritto di sciopero subisce quotidiane restrizioni». Come quella che oggi impedirà a diverse categorie di lavoratori di aderire allo sciopero a causa delle limitazioni imposte dalle franchigie elettorali che impediscono di incrociare le braccia nei cinque giorni che hanno seguito il voto di domenica scorsa.
CONTRO QUESTE DIFFICOLTÀ la spinta di questo movimento non si è fermata. Alla giornata globale, e italiana, di sciopero hanno aderito tra gli altri Greenpeace e l’Arci, e poi Usb, Slai Cobas, Usi e Usi-Ait. I sindacati di base hanno indetto un’astensione generale nazionale di 24 ore nel lavoro pubblico e in quello privato. Parliamo di trasporto pubblico locale, treni, aerei, scuole e uffici. La saldatura con il sindacalismo è decisiva, e non è stata priva di difficoltà. In occasione dell’8 marzo dell’anno scorso ci sono state polemiche sia con la Cgil che altri sindacati di base. Ma il movimento va avanti: «Di fronte alla più grande insorgenza globale delle donne i sindacati dovrebbero cogliere questa occasione prendendo parte al processo che combatte la violenza maschile e di genere. Sono queste le condizioni della precarizzazione del lavoro».
sciopero1
OGGI MOLTI AMBIENTI di lavoro saranno coinvolti dalle tematiche femministe: il piano contro la violenza maschile, un documento di 57 pagine, un’elaborazione collettiva durata mesi, un testo di spessore teorico e pratico notevole. Lo sciopero femminista è dunque più ampio dello specifico, certamente necessario, «sindacale». La lotta si svolge dentro e fuori il luogo di lavoro, dentro e fuori i rapporti di lavoro precari e intermittenti. Investe l’intera soggettività femminile, e maschile, sia quella impegnata nella produzione che quella della riproduzione. «Sovvertiamo le gerarchie sessuali. le norme di genere, i ruoli sociali imposti, i rapporti di potere che generano molestie e violenze». Qui la critica ai rapporti di produzione e immanente a quella delle forme di vita incastrate nelle culture patriarcali, autoritarie, razziste. securitarie.
LA RIVENDICAZIONE centrale del movimento è «il reddito di autodeterminazione», indipendente dal lavoro e dal permesso di soggiorno. Questo reddito è accompagnato dalla rivendicazione di un salario minimo europeo e un welfare «universale, garantito, accessibile». L’obiettivo: garantire autonomia e libertà «sui nostri corpi e sulle nostre vite. Vogliamo essere libere di muoverci».
GLI SNODI LOCALI di «Non una di meno», numerosissimi come i video e i documenti che girano in rete, hanno elaborato nei loro comunicati piccole inchieste sulla realtà del lavoro, e del non lavoro, oggi. Si denunciano le molestie sessuali sul lavoro, l’enorme disparità retributiva che penalizza le donne, in particolare al Sud. Secondo lo Svimez nel Mezzogiorno una donna (laureata) guadagna 300 euro medi in meno rispetto a un uomo. È una realtà comune, frutto di un sistema. Per questo è necessario una generalizzazione del movimento. Una convinzione che lo ha spinto a «passare dalla denuncia individuale del #metoo alla forza collettiva del #wetoogether bloccando lavoro produttivo e riproduttivo, retribuito o gratuito».
Corriere 8.3.18
L’8 marzo e il lavoro
Ragazze, c’è molto da fare
di Lucrezia Reichlin
Otto marzo, giornata delle donne. Quanta retorica e quanta poca comprensione di quella che un tempo si chiamava «la questione femminile». Il problema è complesso e multidimensionale, ma si deve analizzare partendo dal lavoro. Non solo perché dal lavoro dipende l’indipendenza economica, fattore necessario all’emancipazione, ma soprattutto perché al lavoro è legata la propria identità. Per le donne non è sempre stato così, ma lo è sempre più oggi.
L’evoluzione della diseguaglianza tra sessi è legata a quella dello sviluppo economico, ma il legame non è lineare. Claudia Goldin, forse la maggiore storica economica del lavoro femminile, dimostra che la partecipazione alla forza lavoro — cioè la percentuale di donne sulla popolazione femminile con più di quindici anni di età che sono occupate o in ricerca attiva di lavoro — è alta quando il reddito pro capite è basso, diminuisce al crescere del benessere e torna ad aumentare ad alti livelli di reddito. Le donne povere lavorano per necessità. In Ghana la partecipazione è al 74 per cento, negli Stati Uniti solo al 56%. Nei Paesi avanzati era alta nella prima metà del secolo scorso perché legata al lavoro a bassa specializzazione nelle fabbriche della seconda rivoluzione industriale e poi alla necessità della guerra. Ma dopo la Seconda guerra mondiale le donne sono tornate a casa.
Tra gli anni Quaranta e Sessanta quando lavoravano lo facevano in modo saltuario, per portare un complemento al reddito familiare. È solo dagli anni Settanta che le donne cominciano a considerare il lavoro come fatto identitario, qualcosa che non si fa saltuariamente, ma che richiede pianificazione, investimento in scolarizzazione, scelte di studi che non siano solo motivate da una generica acquisizione culturale, ma dall’obbiettivo di una carriera professionale. Con le ragazze degli anni Settanta comincia questa vera e propria rivoluzione: il lavoro per le donne diventa, come per gli uomini, parte della loro identità.
Questa rivoluzione si accompagna a grandi trasformazioni della vita familiare e a conquiste importanti: la contraccezione, il divorzio, le leggi contro la discriminazione. Come tutte le trasformazioni il processo non è indolore, comporta aumenti di conflittualità intra familiari, nuove fragilità femminili, ritorni indietro, grandi dubbi identitari.
Dove siamo oggi, noi ragazze degli anni Settanta, reduci ammaccate di questa rivoluzione e cosa lasciamo alle nostre figlie?
Negli Stati Uniti, dove l’entrata massiccia delle donne nel mercato del lavoro ha anticipato quella europea, dagli anni Novanta si è arrivati a uno stallo e non ci si muove da un tasso di partecipazione del 56%. Rimane anche il gap salariale. Quest’ultimo non è dovuto alla discriminazione bensì a una preferenza delle donne per occupazioni che non richiedano una inflessibilità delle ore di lavoro. Il gap è infatti più alto nel settore finanziario, dove una carriera di successo richiede disponibilità totale e inflessibilità del tempo dedicato al lavoro, minore nell’attività scientifica. Il gap non è percepibile all’uscita dell’università, ma si manifesta dopo 10-15 anni di carriera. Rivela una asimmetria tra uomini e donne nel loro ruolo nella vita familiare. Asimmetria, legata non alla procreazione, ma alla maggiore propensione delle donne a farsi carico di chi, nella famiglia, ha bisogno di assistenza. Non è chiaro se questa sia una preferenza innata o la conseguenza di tratti culturali che persistono anche per il minore potere contrattuale della donna all’interno della famiglia. La ricerca mostra che queste preferenze sono sì persistenti, ma evolvono nel tempo in relazione al manifestarsi di nuovi modelli esistenziali e di politiche familiari e del lavoro che favoriscono un maggiore equilibrio tra uomini e donne nella erogazione dei servizi di assistenza informali. C’è qui quindi un grande spazio di azione politica. Il plateau raggiunto negli anni Novanta non è un limite naturale, ma qualcosa che si può spostare.
Veniamo ora all’Italia. Il nostro Paese ha il più basso tasso di partecipazione femminile al mercato del lavoro dell’Unione Europea. Oggi siamo al 39,5% contro il 55% della Germania, il 51% della Francia e il 45% della Grecia. Il paradosso italiano è che questo basso tasso di partecipazione si accompagna a uno dei più bassi tassi di fecondità del mondo. Daniela Del Boca, una delle maggiori studiose italiane sul tema, attribuisce questo fenomeno alle scarse politiche di welfare , altri alla bassa protezione occupazionale che scoraggia le donne a rientrare nel mondo del lavoro dopo il primo figlio. Ma non si può non sospettare che ci sia qualcosa di più, che il nostro Paese sia affetto anche da un problema culturale, da una misoginia generalizzata forse anche motivata dal malessere che le trasformazioni di cui parlavo hanno creato nei rapporti tra uomo e donna in una società fin ancora di recente molto tradizionale.
I modelli femminili proposti dai media continuano a essere offensivi e la scarsa presenza femminile in ruoli chiave dell’economia, della politica e della finanza sottraggono modelli di riferimento alle giovani donne. Si direbbe che in Italia il successo femminile, quando avviene, crea non solo risentimento ma addirittura sgomento. Basti pensare come Boldrini e Boschi sono state trattate: un accanimento personale volto a distruggere e a intimorire bene al di là del normale scontro politico. Stupisce anche come in Italia si sia parlato poco dell’effetto Weinstein e dei dati sconcertanti che continuano a emergere ovunque sulle molestie sessuali nel mondo del lavoro. Tra gli intellettuali anche illuminati prevale un cinismo italico che si mischia a una grande ignoranza del problema.
Ma il progresso del nostro Paese, la sua capacità di selezionare e trattenere talenti in tutte le sfere della società è legata al progresso delle donne. Cambiare la situazione richiede almeno tre cose: accettare che il problema esiste, capire che va affrontato con politiche attive e comprendere che il progresso delle donne è complementare al progresso di tutti.
Innanzitutto, la valorizzazione del lavoro a tutti i livelli incoraggia le donne in ogni segmento occupazionale e rende più facile combinare procreazione e lavoro. Ragionare di donne significa ragionare sul futuro del lavoro.
Ma non solo. L’insieme di regole barocche — de jure e de facto — con cui in Italia si seleziona la classe dirigente e la mancanza di trasparenza di nomine e cooptazioni in posti chiave, inibisce la possibilità di pescare in pool di talenti ampi e quindi di beneficiare della potenzialità del nostro capitale umano, maschile e femminile. Ma scoraggia soprattutto le donne, che in un sistema del genere rinunciano in partenza perché tipicamente tagliate fuori dai «boys club» e dai meccanismi informali di cooptazione.
La fragilità della posizione delle donne nella società italiana è l’indizio di un malessere più generale. Combattere per i diritti delle donne significa anche battersi per una società più inclusiva per tutti. Ma non illudiamoci: la strada, per noi, continuerà ad avere una sua specifica difficoltà e avrà bisogno di politiche dedicate che la rendano meno impervia.
Forza ragazze, c’è ancora molto da fare e non se ne deve parlare solo l’otto marzo.
Repubblica 8.3.18
Tempo di libri
Noi figlie nate dalla testa del padre Zeus
Chiara Gamberale, Eva Cantarella, Dacia Maraini, Maria Serena Sapegno. La rassegna milanese apre oggi. Tra i temi, la condizione delle donne Abbiamo chiesto a quattro scrittrici il loro rapporto con la figura più ingombrante
di Simonetta Fiori
MILANO C’è un nodo segreto che caratterizza il femminile. Per la donna è una delle relazioni fondanti, forse la più pericolosa. Il rapporto con il padre, spesso raccontato nella sua natura duplice e ambigua: il padre è il ponte verso il mondo esterno, il tramite verso la parola, ma il suo mandato normativo può richiedere il prezzo dell’abbandono della madre e dunque del corpo, dell’affettività e del disordine dell’eros.
Quell’amputazione espressivamente restituita da Simone de Beauvoir quando evoca l’interesse del padre a lei dedicato soltanto al tempo della scuola, «perché per lui non ero né un corpo né un’anima. Ero una mente». Un puro spirito, e basta.
E in questo primo giorno di Tempo di libri incentrato sulle donne, nello stand di Feltrinelli ci si potrà imbattere in un bellissimo saggio di Maria Serena Sapegno che dà voce alle sofferenze, alle ferite, agli strappi delle “figlie del padre” attraverso il sismografo più attendibile e longevo di cui disponiamo, ossia la letteratura.
( Figlie del padre. Passione e autorità nella letteratura occidentale). Una ricognizione che parte dalle eroine della tragedia greca in lotta contro la legge paterna per arrivare alle scritture femminili contemporanee lacerate tra fedeltà e trasgressione rispetto al mandato del padre. «Tutte quando scriviamo siamo di fronte a questa contorsione», annota in una densa postfazione Cristina Comencini, anche lei figlia del padre (il celebre regista Luigi). «La sentiamo nel nostro corpo e nel linguaggio che usiamo, che prosegue ed elabora quello del padre ma vorrebbe essere anche altro, vorrebbe dare voce al silenzio delle madri che è in noi, alla profondità immobile di millenari non detti. Il rapporto con il padre, che ha permesso l’accesso alla cultura, diventa il potere contro cui rivoltarsi per cercare di essere finalmente qualcosa d’altro».
Un rapporto simbolico e conflittuale, destinato a esplodere nei suoi tratti contraddittori quando le donne si sono affacciate per la prima volta in massa nella scena pubblica. «Certo non lo sapevamo», sostiene Sapegno, «ma credo si possa dire che molte di noi non sarebbero approdate al movimento femminista senza i nostri padri». Erano loro a spingere le figlie «a mettersi alla prova e a entrare pienamente nel mondo».
Salvo poi misurarsi con lo sguardo critico di queste giovani donne che, una volta ammesse nella scena sociale, ne registravano la scandalosa diseguaglianza.
Ma esiste ancora un mandato paterno? E quanto condiziona vita e scrittura delle donne? Tra le autrici chiamate in questa fiera del libro al femminile ci sono molte “figlie del padre”, figlie pubbliche di padri importanti, che si sono interrogate su un tema non facile.
«Facevo di tutto per non deluderlo», ha raccontato Dacia Maraini a proposito di Fosco, il grande orientalista riflesso nel suo sguardo di bambina. «In realtà», aggiunge ora la scrittrice, «la mia situazione è complicata perché nella famiglia di mio padre la scrittura apparteneva alle donne.
La mia ava inglese Cornelia Berkeley scriveva libri per bambini. E mia nonna, Yoi Crosse Pawlovska, scriveva romanzi.
Quindi da parte di mio padre c’è stato un mandato di tipo simbolico che ha condizionato più la mia vita che la scrittura. Ed è consistito in una forte impronta culturale, nell’interesse per gli altri popoli, in un amore insistente per i viaggi».
Un rapporto stimolante, ma molto pudico, fatto anche di silenzi. «Mi lasciava libera ma parlava poco con me. Forse questo pudore si può interpretare come forma di censura sul corpo e sulla sensualità per dare precedenza alla mente.
Non lo so. D’altronde Atena nasce dalla testa di Zeus e si trova sempre dalla parte del padre».
Quello di Atena che nasce dalla testa paterna è il caso estremo e simbolicamente più espressivo della figlia che fa a meno della madre. «Rappresenta la perfetta realizzazione del desiderio maschile di procreazione», commenta Sapegno. «Nasce dalla testa di Giove senza sgradevoli contaminazioni con le viscere, e per questo può simboleggiare la sapienza». È il sogno ricorrente anche di Chiara Gamberale, quarantenne figlia di Vito, un’importante carriera nelle telecomunicazioni. «Anche nella mia ultima favola Qualcosa faccio subito fuori il personaggio della madre: non è la prima volta che mi succede». Nel suo racconto il padre è “Qualcuno di importante” e la madre “Una di noi”, quasi a dar voce alla lacerazione femminile.
«Quello con mio padre Vito è il rapporto più misterioso e profondo della vita. La sua è la storia di un ragazzo povero, figlio dell’aspro Molise, che è diventato uno dei più importanti manager italiani. Come facevo a essere sua figlia senza soccombere? E allora mi sono buttata sui libri e sulla narrativa: non potendo ripetere il suo salto economico, mi sono lanciata in un salto culturale». Qualcosa narra di una figlia che ride troppo, piange troppo, si muove troppo: sempre mossa dall’ansia di non essere all’altezza del padre. «Molto di quello che ho fatto è per indurlo all’innamoramento. Mio padre è silenzioso, io urlo le mie emozioni più spellate. Alla sua riservatezza oppongo una scrittura impudica. E lui mi guarda allo stesso modo del personaggio paterno nel romanzo: con doloroso stupore».
Non tutte le figlie del padre si ritrovano in questa ambivalenza.
«Forse perché nasce da un presupposto che non condivido», dice Eva Cantarella, studiosa del mondo antico nel solco tracciato dal padre, l’insigne grecista Raffaele. «È quel presupposto secondo il quale esiste un mondo esterno razionale – il maschile – separato da uno interno sentimentale – il femminile. Si tratta di una dicotomia ereditata dalla cultura greca, più tardi approfondita dal pensiero della differenza. Io non ho mai condiviso questa distinzione perché credo che la persona umana contenga elementi maschili e femminili variamente composti. In ognuno di noi c’è un po’ di tutto». Quindi nessuna investitura da parte del padre e soprattutto nessun conflitto. «Se giovanissima sono andata a Berkeley negli anni Sessanta è per un mandato famigliare e non solo paterno. Il vero ponte verso la cultura è stata mia madre, una casalinga che avrebbe desiderato tanto studiare».
Padri e figlie, un rapporto il più delle volte complicato dall’amore perché, suggerisce Maraini, «l’amore è una forza che unisce e divide». E qualcosa vorrà dire se oggi i romanzi incentrati su questa relazione incandescente tendono a rarefarsi. Anche perché negli ultimi decenni al padre normativo si è andato sostituendo una figura più debole, quasi fantasmatica, un personaggio mancato. «Forse un’epoca è finita e un’altra sta nascendo», scrive Sapegno.
«Un’epoca in cui il rapporto tra padre e figlia potrà non basarsi più sulla cancellazione della madre. E dove il mandato paterno non sia una domanda di identificazione e possesso, o una richiesta di maternage». Tra il troppo e il nulla, conclude la studiosa, una strada bisognerà pur trovarla. Nella letteratura. E soprattutto nella vita.
Repubblica 8.3.18
Leïla Slimani “Il Maghreb si salverà solo con la rivoluzione sessuale”
Intervista di Anais Ginori
PARIGI Leïla Slimani è da mesi al centro dell’attenzione in Francia. La giovane scrittrice ha vinto il premio Goncourt un anno fa con il suo secondo romanzo, Ninna Nanna, è stata scelta da Emmanuel Macron come ambasciatrice della “francofonia”, ha scritto un testo sul «diritto a non essere importunata» ripreso su Repubblica, in risposta al controverso appello pubblicato da alcune intellettuali, tra cui l’attrice Catherine Deneuve. Un mese prima che scoppiasse lo scandalo Weinstein, Slimani, 35 anni, aveva firmato I racconti del sesso e della menzogna, raccolta di testimonianze femminili nel suo paese natale, il Marocco, nella quale denuncia l’ipocrisia di una società in cui sono ancora proibiti adulterio, omosessualità, rapporti prematrimoniali. «In Marocco — spiega — prima di essere un individuo, la donna è una madre, una sorella, una moglie, una figlia. È la garante dell’onore familiare e, peggio ancora, dell’identità nazionale. La sua virtù è una questione pubblica».
Lei concorda con Kamel Daoud sul fatto che esiste una “miseria sessuale” nel mondo arabo?
«Gli intellettuali che criticano Daoud non hanno mai provato a entrare nei bar nei quartieri popolari di Tangeri o Casablanca. Io l’ho fatto, è uno spettacolo tragico.
Branchi di uomini soli che parlano a malapena tra loro, non hanno contatti con donne, se non con qualche prostituta. Ogni volta che ho indagato sulle cause del disagio giovanile in paesi come Tunisia, Egitto o Algeria, la frustrazione sessuale era un tema ricorrente.
Una miseria anche economica. Solo se hai i soldi, hai una vita sessuale libera».
Esiste un dibattito su questo tema nel mondo arabo?
«Le militanti femministe si concentrano sulle battaglie per la parità nell’istruzione o al lavoro.
Sono convinta che il diritto a una sessualità libera sia altrettanto fondamentale per cambiare la società».
Il corpo delle donne, dice, è un campo di battaglia?
«La miseria sessuale colpisce specialmente donne, giovani e bisognosi. Era così in Occidente fino a non molto tempo fa. Immagino che l’Italia di qualche decennio fa non fosse molto diversa dal Marocco di oggi. Solo che i giovani marocchini sono connessi con il mondo, capiscono quanto sia arcaico l’attuale sistema».
L’Islam più rigorista è una delle cause della repressione sessuale?
«La religione è strumentalizzata a fini politici, con falsi argomento come il rifiuto di un Occidente “depravato”, di una modernità che rischia di cancellare le identità culturali. Se i musulmani non hanno diritti sessuali è perché la maggior parte dei regimi in cui vivono si basano sulla negazione delle libertà individuali».
Ci sono donne che trovano la forza di ribellarsi?
«Rendo omaggio alla loro forza nel libro. Rivendicano la propria sete di libertà anche se il prezzo da pagare è alto. Altre sono più rassegnate a nascondersi, trovano sotterfugi per rimanere vergini, come praticare la sodomia, oppure mettono da parte soldi per pagare l’operazione di chirurgia per ricostruire l’imene».
In Europa, come negli Usa, le donne sono costrette a battersi contro le violenze sessuali o per non essere molestate in strada, al lavoro. Come mai succede ancora?
«La miseria sessuale di cui abbiamo parlato esiste anche in Occidente. È universale anche se non è di massa come nel mondo arabo. Con la fine del patriarcato, la parità nella società, la sfera sessuale è l’unico spazio in cui l’uomo può ancora tentare di esercitare il suo potere».
Repubblica 8.3.18
Rose McGowan “ Denunciando Weinstein ho scatenato i demoni”
Intervista di Anna Lombardi
ROMA È stato come prendere un machete ed entrare in una foresta fitta e priva di sentieri che brucia. Esporsi è stato orribile. Come darsi in pasto ai porci». In un albergo di Roma affacciato sul Tevere Rose McGowan, 44 anni, sceglie con cura le parole.
L’ex attrice ( Scream, Phantom la saga Streghe) che per prima ha infranto la legge del silenzio di Hollywood accusando di stupro quello che fino ad allora era l’indiscusso re degli studios Harvey Weinstein, mette subito le cose in chiaro attraverso l’editore: «di lui non parlo. Ho detto tutto nel libro». Salvo poi definirlo nel corso della conversazione “il mostro” o “il maiale”. Nata nel 1973 in Italia all’interno della setta dei Bambini di Dio dove gli abusi sessuali erano abituali, McGowan ha raccontato la sua vita difficile nel libro BRAVE, “coraggiosa”, edito da Harper Collins. È in Italia per girare Citizen Rose, il documentario in 5 puntate dove racconta la sua vita dopo quella vicenda «Capisco solo qualche parola d’italiano: ma nei sogni ancora lo parlo. Poi devo chiamare mia madre per farmi tradurre cosa ho detto».
Quanto le è costato parlare?
«Ho dovuto richiamare in vita i miei fantasmi. È servita tanta determinazione. E il coraggio che dà il titolo al libro e che per me significa fare quel che devi anche se hai paura».
Denunciare era un dovere?
«Un modo per aiutare un mondo che pure non è stato tenero con me. È servito: ne sono orgogliosa. Molti però hanno colto solo il lato pruriginoso. Per questo ho smesso di parlarne con certa stampa».
Poco tempo fa ha però svelato a Ronan Farrow, autore dell’articolo sul “New Yorker” che a ottobre fece luce sullo scandalo, di avere altri nomi in canna.
«Se volessi potrei far esplodere il mondo. Ma il mio scopo era solo svegliare coscienze e menti. Ho raccontato solo una parte sterilizzata della mia vita, più dura di così. Certo Ronan ascolta e capisce più di altri.
Ma anche lui hai suoi interessi.
Ad avermi compresa, semmai, è molta gente comune».
Ha avuto numerosi attestati di solidarietà?
«Soprattutto da estranei.
Uomini e donne».
Chi le è stato più vicino?
«Mia zia Rory. E Asia Argento: abbiamo parlato tanto di cosa significhi esporsi. Voi media italiani l’avete massacrata: come per anni gli americani hanno fatto con me, con la differenza che Weinstein li pagava per denigrarmi».
Repubblica ha preso posizione pubblicando la lettera di solidarietà di 120 attrici italiane, poi quella di oltre 100 giornaliste...
«E di questo vi sono grata. Ogni attestato di solidarietà conta; la solidarietà richiede coraggio».
Perché denunciare è così difficile?
«Guardare alle umiliazioni subite non è facile. Svelare molestie e stupri è come gettare una molotov in una stanza. Mette fine alla tua vita così come la conosci».
Della lettera delle attrici francesi contro il movimento MeToo cosa pensa?
«Che forse anche Catherine Deneuve fatica a guardarsi indietro. Vivono nella menzogna che io ho rifiutato.
Ma per la cronaca io non appartengo al MeToo».
#MeToo è l’hashtag lanciato dalla sua amica Alyssa Milano...
«Collega, non amica. E non lo ha inventato lei ma Tarana Burke nel 2006. Riconosco però che nell’era dei social ha dato la possibilità di usare un nuovo linguaggio per dire “è successo anche a me”».
Ha visto gli Oscar?
«No. Perché avrei dovuto?
È tutto così finto. Mentono per proteggere il loro status quo.
Sono una setta anche loro, un culto molto pericoloso: hanno influenza sul mondo».
Non pensa che col fondo Time’s Up le attrici di Hollywood stanno cercando di fare qualcosa di concreto?
«Non andranno lontano.
Sono legate ai loro agenti, spesso molestatori che ora si nascondono. Non dubito ci siano persone in buona fede. Ma forse non conoscono quel mondo come lo conosco io».
Lo scandalo, il libro, un documentario. E ora?
«Ora vivo. Provo a rimettere insieme la mia vita. Faccio fotografie. Ho diretto Dawn, nominato al Sundance per il premio della giuria nel 2014.
E ho inciso anche un disco.
La vita ricomincia per me».
Repubblica 8.4.18
Asia Argento “In Italia sono solo una che non vale uno stupro”
Intervista di Alberto D’Argenio
BRUXELLES Registra, conserva il nastro perché se scrivi qualcosa di diverso da quello che dico poi vedi...».
Asia Argento è seduta al bar del Parlamento europeo di Bruxelles. Mickey Mouse, si chiama la sala per via delle sedie colorate che la riempiono.
Nome che stride con lo stato d’animo dell’attrice che per prima lo scorso settembre ha denunciato Harvey Weinstein.
«Sono qui per portare la testimonianza di quello che ho vissuto e di come solo in Italia la mia storia è stata deformata: dicevano che non ero stata violentata, che una come me non merita nemmeno di essere stuprata». Primo pomeriggio, vigilia dell’8 marzo, l’Europarlamento celebra la giornata internazionale delle donne. Asia ha il piglio determinato, l’aggressività di chi ha sofferto emerge così come qualche tatuaggio sfugge dalla giacca scura. È tutto un conflitto tra garbo e rabbia. L’intervista era stata programmata per raccontare la sua proposta di allungare i tempi di prescrizione per le denunce di violenze sessuali. Ma Asia è un fiume in piena, del tema parlerà di sfuggita.
Come sono stati gli ultimi mesi?
«Non so se riuscirò mai a guarire questa ferita, la violenza mi ha cambiato profondamente.
Sono diventata scontrosa, non mi fido più di nessuno, votata alla solitudine. Ancora mi fa male parlarne. Rivivere il trauma sotto gli occhi di tutti è stato quasi peggio di allora. Sono caduta in una enorme depressione non solo per come sono stata trattata in Italia, ma perché ho rivissuto il trauma, anche nel mio corpo: tremavo, così come tremavo durante lo stupro.
Ecco, questo tremore del corpo, questa paura del mondo, questo sentirsi terribilmente soli...».
Chi le è stato vicino?
«Il mio compagno, e poi mi sono ripresa grazie al movimento #MeToo e ai movimenti femministi in giro per il mondo».
Poco dopo Asia racconterà al seminario organizzato dall’Europarlamento la difficoltà di mettere al corrente la famiglia, la figlia di 16 anni e il figlio di 9, il padre Dario Argento («non sapeva nulla») dello stupro del 1997 poco prima che la sua storia uscisse sul New Yorker.
Come si è spiegata gli attacchi in Italia?
«Sono sempre stata vista come una persona troppo disinibita, fuori dal coro. Ho pagato il prezzo dell’indipendenza. E poi c’è un enorme problema culturale: per loro non ero la vittima perfetta, l’agnellino sacrificale che è la donna che cammina per strada. Solo lei può essere stuprata».
L’hanno criticata per non avere denunciato subito Weinstein: come risponde?
«Che a vent’anni non avrei potuto farlo, non era facile parlarne, non era facile nemmeno ammetterlo con me stessa.
Uno si sente in colpa».
Cosa l’ha spinta a parlare?
«Non l’avrei fatto, ma poi mi ha chiamato Ronan Farrow che non so come aveva scoperto la mia storia, il mio segreto più oscuro. In quel momento mi sono sentita in dovere di parlare, soprattutto quando ho saputo che erano coinvolte altre vittime.
Così ho denunciato Weinstein e ho rischiato tutto perché se le altre donne non mi avessero seguito lui avrebbe potuto rovinarmi. Quando ho saputo che aveva assoldato delle spie ho capito di avere rischiato la vita».
Come si può migliorare
la condizione delle donne?
«Con un lavoro contro questa cultura sessista e patriarcale. Certo, ci sono anche le madri che trattano i figli maschi in modo diverso dalle figlie femmine. Bisogna partire dalle famiglie, dalle scuole. Difficile in Italia dove la misoginia è così radicata. Basta vedere Berlusconi, come le sue tv rappresentano le donne: se le ragazze hanno come punto di riferimento le veline come potranno dimostrare di essere brillanti e intelligenti?».
Cosa consiglia alle ragazze che subiscono una violenza?
«I media italiani dicevano che ero una troia, che me l’ero cercata.
Un pessimo messaggio per chi vuole denunciare: hanno detto loro che non saranno credute, che saranno umiliate. E non mi sento di dirgli di andare dalla polizia dopo che a Firenze i Carabinieri hanno interrogato per 15 ore due ragazze chiedendo loro se fossero attratte dagli uomini in divisa e se portavano le mutandine. Per questo dico alle vittime di andare dai gruppi femministi dove troveranno avvocati che le proteggeranno gratuitamente.
Inoltre in Italia c’è una prescrizione per le molestie di tre mesi e per lo stupro di sei mesi. Poi la denuncia non è più valida.
Questi termini vanno cambiati, è troppo poco tempo per elaborare un trauma così grave e uscire allo scoperto».
Poco dopo questa intervista Asia si aprirà pubblicamente. La sua testimonianza verrà salutata da un forte applauso che lei ricambierà, scossa, con una lacrima.
E a chi chiederà se ha perdonato Weinstein risponderà: «No, noi vogliamo giustizia. Quell’uomo è ancora là fuori, è in una spa, altro che clinica, e non c’è nessuna cura per quelli come lui. Sono come i serial killer, non cambiano mai».
Repubblica 8.3.18
Intervista a Aleksej Navalnyj
“Putin è un monarca assoluto ma l’Ue è sua complice”
di Rosalba Castelletti
MOSCA Nella parete nero lavagna, c’è un foro. «C’era un quadro. Solo che di recente è caduto. Mi chiedevano spesso quale forza avessi alle mie spalle. Ed, ecco, vi faccio vedere. È la famosa foto del V Congresso di Solvay, il più importante ritrovo dei fisici quantistici e dei migliori cervelli della storia dell’umanità. Sono loro a ispirarmi». Siamo nello studio di Aleksej Navalnyj, nel suo quartier generale al quinto piano di un centro business nel Sud di Mosca. Accanto, in una stanza quasi spoglia dalle grandi vetrate, ragazzi ticchettano sulle tastiere. Su uno stretto corridoio si affaccia anche lo studio da cui vanno in onda le video-inchieste sulla corruzione dell’élite putiniana, il cavallo di battaglia dell’avvocato 41nne diventato il solo volto riconoscibile dell’esangue opposizione russa. Jeans e camicia a quadri, Navalnyj sembra rilassato per uno che non sa neppure se il giorno delle presidenziali sarà in cella o in libertà. «A quanto pare, il Cremlino non ha ancora deciso.
Fissano la data del processo e poi la cambiano. Ma da un momento all’altro potrebbero mettermi agli arresti per 30 giorni per il corteo non autorizzato di gennaio».
Aleksej Navalnyj, durante la campagna elettorale ha aperto uffici in 84 città. Che cosa intende farne dopo il voto?
«Per la prima volta in Russia, abbiamo creato un movimento di massa che ha rappresentanze in tutte le principali città del Paese.
Il nostro obiettivo è conservare questa struttura e trasformarla in un’organizzazione politica. Di fatto è già un partito, anche se non ce lo lasciano registrare.
Purtroppo non possiamo permetterci di mantenere aperti tutti e 84 gli uffici. Ne lasceremo in vita 25 e cercheremo di usare i meccanismi moderni: il blockchain, il voto online e così via. Siamo all’avanguardia tecnologica perché siamo costretti. Non possiamo usare i meccanismi tradizionali. Spesso ci paragonano al Movimento 5 Stelle. A prescindere dalla loro ideologia, sono interessanti i loro meccanismi: i comizi, l’uso di YouTube. Solo che in Italia YouTube si usa per aggirare la tv nazionale, mentre noi lo usiamo perché non può essere bloccato, almeno per ora».
E in quale ideologia si riconosce? Si considera un liberale?
«Sono stato membro del partito Jabloko, che si ritiene un partito liberale. Poi molti mi hanno chiamato nazionalista. È una delle domande che mi fanno spesso: “È nazionalista?”. Sono tutte critiche che mi rivolge il Cremlino. Cambiano col tempo: oggi sono un liberale che vende la patria, domani un nazionalista di estrema destra. Ma il mio pensiero non cambia. Credo che bisogni riunire tutti, anche i nazionalisti, per combattere il regime».
Sua moglie e i suoi figli non le chiedono mai di abbandonare l’attività all’opposizione?
«La mia famiglia mi appoggia.
Mia moglie ha persino idee politiche più estremiste delle mie. I miei figli hanno un modo loro di vedere le cose. Si divertono, ad esempio, a individuare gli agenti che ci pedinano. Per loro è un gioco».
Supponiamo che sia eletto presidente: quali sarebbero le sue priorità?
«Adottare misure che fermino la riproduzione all’infinito dei regimi autoritari in Russia. Primo: promuovere una riforma giudiziaria per far sì che i tribunali non dipendano dal potere esecutivo. Secondo: diminuire le competenze del presidente. Terzo: garantire la libertà di stampa».
Come risolverebbe il conflitto in Siria?
«La Russia deve appoggiare la coalizione internazionale contro l’Isis, senza dubbio, ma senza essere un attore del conflitto.
Anche perché non ha senso. I musulmani russi sono perlopiù sunniti e, in Siria, la Russia è invece dalla parte degli sciiti.
Questo porta alla radicalizzazione delle nostre comunità musulmane. Molti partono dal Caucaso per combattere in Siria contro la coalizione internazionale e, di fatto, contro la Russia».
Ha seguito il discorso alla nazione di Putin sulle nuove armi nucleari?
«Mi è sembrato di esser tornato al 1984 quand’ero un giovane pioniere sovietico e vedevo il mio Paese lottare contro l’apparato militare americano. Solo che adesso sembra tutto più ridicolo.
Invece degli esemplari reali, Putin ha mostrato armi virtuali. Certo, la Russia deve conservare e modernizzare il proprio arsenale.
La parità nucleare è una garanzia della sicurezza globale. Ma Putin cerca solo di far dimenticare i problemi di politica interna con l’isteria per la politica internazionale».
Che cosa pensa delle sanzioni imposte dall’Occidente nei confronti della Russia dopo l’annessione della Crimea e l’inizio del conflitto in Est Ucraina?
«Non colpiscono nessuno. Tutti gli amici di Putin sono cittadini europei. Non abbiamo mai visto un caso di congelamento dei beni o di divieto di viaggiare in Europa. Nonostante la retorica, l’Europa non è pronta a fermare i russi corrotti. E questo ci dispiace. In questo senso, è complice di quello che accade qui».
Da presidente, rimuoverebbe l’embargo sulle importazioni dei prodotti alimentari occidentali deciso da Mosca come risposta alle sanzioni?
«Le contro-sanzioni sono sanzioni contro i cittadini russi. Hanno una sola conseguenza: l’aumento del prezzo dei generi alimentari per i russi. Fare abolire le sanzioni è semplice. Basta rispettare gli accordi di Minsk: ritirare le truppe e cessare la guerra nel Donbass».
Lei riconosce l’annessione della Crimea?
«Come ho detto in passato, l’annessione della Crimea è stata illegale. Però ora è difficile uscire da questa situazione. Tre milioni di abitanti della penisola hanno passaporti russi».
State preparando una video-inchiesta su Vladimir Putin?
«Non anticipiamo mai i nostri progetti. Ma tutti i nostri video sono su Putin perché sono sui suoi fedelissimi. La corruzione di Putin è particolare. Non ha una valigia con i contanti. Ha un circolo di familiari, amici e persone di fiducia i cui beni sono di fatto suoi. È come la mafia italiana: una grande famiglia dove sono tutti miliardari. Putin è un monarca assoluto, uno zar. Gli appartiene tutto».
La Stampa 8.3.18
Intellettuali “travestiti “, appuntamento sulle barricate
Contro i camaleonti della cultura nel ’68
di Sebastiano Vassalli
Parola d’ordine del «travestito» è: essere sempre nel coro di chi grida più forte. Sempre? Mi correggo: quasi sempre. Il travestito sa impostare programmi anche a scadenza più lunga. Saprebbe ad esempio emigrare all’estero in caso, che so io, di «colpi di stato» tipo quello di Mussolini buonanima o dei colonnelli greci. Sagaci e opportune mosse gli hanno già preparato il terreno per un piacevole e proficuo soggiorno all’estero: e qui il travestito lavorerà di ami e di lenza per il trionfale ritorno. [...]
Caratteristica essenziale del travestito è dunque quella di essere pianificato (e pianificatore), nell’ambito di una continuità moderatamente dinamica delle istituzioni, preventivamente in senso contestatario. Di trasformare l’opposizione da negativa in positiva, perché rientri in una certa sfera di rapporti e di interessi epicureisticamente intesi come sistema egocentrico; cioè alla gloria personale dell’Individuo, del Travestito: alla sua infrenabile e irresistibile ascesa su per le scale gerarchiche, verso le seggiole, le cattedre, i troni, i seggi, gli scanni, tutto può giovare: dalla Cina (lontana, nonostante il film di Bellocchio) al capitano Guevara, dal Potere Negro (che oltre Atlantico non dà fastidio) alla retorica sul fascismo ai Movimenti Studenteschi (che possono, questi, dare anche fastidio: ma poi si scopre che sono fondamentalmente utili, in quanto dirottabili contro i travestiti di ieri). [...]
Chi vuole farsi un’idea sommaria e molto approssimativa di quali siano l’entità e l’incidenza nella nostra cultura della corsa al travestimento, dia un’occhiata alle riviste (di filosofia, letteratura, architettura ecc.) uscite l’inverno scorso. Per conto nostro intendiamo chiarire fin da ora che, se non ci siamo schierati (e non ci schiereremo) nel coro cartaceo dei plaudenti-alla-contestazione, è perché non ci va di spacciare quello che facciamo per qualcosa di diverso da ciò che realmente è; che se non ci facciamo crescere i baffi all’ingiù o la zazzera o non andiamo in giro vestiti di trine, merletti, velluti e plastica è perché non ci va proprio di schierarci con i nuovi travestiti.
Ma guardateli. Le università, i circoli culturali «di sinistra», gli edifici costosi della «top direction», le sedi dei partiti politici e dei settimanali per uomini, le case editrici, i teatrini alla moda ne sono pieni. I loro atteggiamenti sono puramente dettati dallo spirito di conservazione, questo è logico: sono i vecchi arnesi della paccottiglia di sempre, i re travicelli che non affonderanno mai. Per un momento hanno creduto, forse, di vedersela brutta; ma ormai sorridono, trionfano: perché non solo il pericolo di andare a fondo è stato ancora una volta scongiurato, ma anzi le posizioni si sono rafforzate, le gerarchie chiarite, la lotta per il potere - fino a ieri svoltasi al coperto, in spazi chiusi e felpati e, per così dire, a calci sotto il tavolo - ora è diventata aperta, è stata pubblicizzata; e i travestiti, in cambio di mediocri servigi alla portata di qualunque ruffiano, hanno trovato un aiuto «dal basso» veramente insperato ed insperabile.
No, non voglio con questo dire che tutti gli studenti e i contestatori siano stati e siano totalmente ingenui: molti lo sono, molti invece si rendono conto di questo nuovo stato di fatto ma non riescono a sottrarvisi; oppure sono stati tratti in inganno - e vi sono tuttora trattenuti - dall’innegabile abilità dei travestiti. Che sono, è inutile dirlo, veramente affascinanti e adescanti: e mimano alla perfezione coloro cui vogliono somigliare. «Papà, vai a casa» hanno gridato l’inverno scorso gli studenti della Sorbona a Sartre; e spero che la lezioncina sia servita al vecchio zampettatore da sfilate protestatarie, nel senso di indurlo ad una più consapevole riflessione sulla propria dignità di vecchio (old) uomo (self-mademan).
Gli studenti italiani paiono in genere più accomodanti: qui i travestiti tengono banco, e lo tengono - a quanto mi si dice - bene. Le Istituzioni Cadenti, per conservare sé stesse, li ungono dei loro crismi; e i contestatori sembrano non essersi accorti del fatto che l’unica maniera per colpire le Istituzioni sarebbe quella di colpire i nuovi travestiti, che fungono in questo momento da tramiti e da pilastri del Sistema. La lotta diviene così astratta, onninclusiva e inconcludente: è il momento buono per i travestiti che cercano di profittarne fino in fondo, di consolidare le posizioni acquisite prima che il vento cominci a soffiare da un’altra parte. Ma ormai non c’è fretta, il più è stato fatto. E’ tempo di cominciare a godere dei vantaggi raggiunti, delle clientele acquisite - basta soltanto orecchiare i nuovi linguaggi; perché, in fondo, i rapporti di potere rimangono immutati: solo si richiedono maggiori doti sceniche, niente distrazioni, autopresenza costante. Il contestatore nostrano è intransigente e implacabile per quanto riguarda la forma; per il resto (cioè la sostanza) ci si aggiusta sempre: tutto si può far rientrare: i miliardi ereditati dal povero babbo (se c’erano, mica si poteva buttarli, no); l’aver esposto fruttuosamente a molte biennali (però all’ultima ha contestato; sì, la sala l’ha aperta, ma si è preso anche una legnata da un poliziotto, in piazza San Marco); ecc. ln genere anche i presupposti della contestazione sono individualistici (al di fuori di determinate categorie impegnate nella lotta in quanto tali - cioè in quanto categorie - com’è, ad esempio, per gli studenti): e questo rende assai più agevole il ruolo del travestito.
Ciò che interessa un individuo, si sa, è sempre ben poca cosa in confronto a ciò che non lo ha mai interessato, che magari gli ha dato anche fastidio, in quanto non gli è mai stato direttamente utile eppure ha dovuto sopportarne la presenza. Bene: tutto ciò che non interessa, o che per una ragione qualsiasi dà fastidio, si può e si deve contestare, in blocco. Contestazione globale: ma poi, in fondo, mica tanto globale, perché ci sarà chi contesta tutto fuor che la mamma, chi contesta la mamma, chi contesta l’opera lirica e chi fa l’opera lirica e contesta gli impresari, o il pubblico; ecc. ecc.
La Stampa 8.3.18
La società degli ignoranti impari a fidarsi degli esperti
In “La conoscenza e i suoi nemici” Tom Nichols sferza la faciloneria delle masse ma anche l’élitismo dei campus
di Gianni Riotta
La scienza, la storia e la politica non devono essere discusse da nessuno, se non dagli esperti. Tutti gli altri devono limitarsi a chiedere nuove informazioni e, finché non abbiano acquisite tutte le informazioni disponibili, non possono far altro che accettare l’autorevolezza delle opinioni di chi ha maggiore cultura di loro»: che succederebbe oggi se, in un talk show, una lezione universitaria, un editoriale di prima pagina qualcuno riproponesse questa aristocratica massima? Ululati di disapprovazione, eppure, nel 1926, in una conferenza a Cambridge su Logica e matematica, così la pensava il geniale studioso Frank Ramsey, scomparso a soli 26 anni, avendo prima ribaltato le teorie economiche e filosofiche del tempo. Per Ramsey, capace di azzittire con due parole Wittgenstein, Russell e Keynes, eppure ricordato come «modesto» da tutti, non c’erano dubbi, ai cittadini conveniva prestare ascolto agli esperti, non c’era in questo umiliazione ma ragionevole investimento di fiducia.
Un secolo dopo Tom Nichols, docente al War College della Marina Usa e ad Harvard University, pubblica il saggio La conoscenza e i suoi nemici - L’età dell’incompetenza e i rischi per la democrazia, tradotto da Chiara Veltri per Luiss University Press.
Accolto da New York Times e Washington Post come il saggio che coglie alle perfezione gli umori del nostro tempo scettico, dopo Trump, Brexit e ora le elezioni italiane, Nichols, con il tono diretto del pamphlet ci offre una chiara analisi della crisi del sapere corrente.
Quando il giovane Ramsey era in cattedra il carisma del sapiente impressionava ancora il popolo, ma la rivolta anti accademica del 1968, la fine della autorità assoluta, perfino nella Chiesa cattolica con il Concilio Vaticano II e poi Papa Francesco, il pensiero nichilista delle filosofie postmoderne alla Derrida, dominante in America e negli Usa, hanno ammaccato la credibilità dei sapienti. E quanto alla politica, dalle bugie sulla guerra in Vietnam ricordate nel recente film di Spielberg The Post, ai nostri scandali, di ieri e oggi, la fiducia verso i leader si è corrotta in modo irreparabile. Nichols lamenta che, ormai, siamo «arrivati a considerare l’ignoranza, soprattutto su ciò che riguarda la politica pubblica, una vera e propria virtù…rifiutare l’opinione degli esperti significa affermare la propria autonomia, un modo per isolare il proprio ego sempre più fragile e non sentirsi dire che [stiamo] sbagliando qualcosa. È una nuova Dichiarazione di Indipendenza…».
Alla annuale conferenza della classe dirigente italiana, il forum Ambrosetti di Cernobbio dello corso settembre, il presidente del Consiglio Paolo Gentiloni ha ammonito gli imprenditori in sala «Dovreste tutti leggere il libro di Nichols», quasi presago del voto che ha cambiato l’Italia. Ma sbaglierebbe chi storcesse il naso davanti al lavoro di Nichols, come fosse il quaderno spocchioso di un intellettuale ostile alle masse dei populisti senza laurea e libri in casa, così forti – secondo le analisi dati – nelle coalizioni vittoriose di Trump, Brexit, 5 Stelle, Erdogan in Turchia, come in quelle, pur sconfitte, della Le Pen in Francia. Al contrario, Nichols ha pagine durissime contro le università, diventate luogo separato da lavoro e società, dove agli studenti si insegna più come far network per la carriera che il sapere utile alla crescita sociale. La nuova economia condanna chi non ha le conoscenze per l’industria 4.0 a perdere status e salario, mentre chi disegna i robot vola a Seattle benestante. Prima o poi, gli esclusi si vendicano nelle urne.
Lo studioso Sabino Cassese coglie nel segno: Nichols «mostra che l’ignoranza non è un valore di cui andare fieri, ma che élite ed esperti che tendono a chiudersi nel proprio campo non sono senza peccato. Un invito al dialogo e alla cooperazione di cui le società moderne hanno un disperato bisogno». L’età dell’ignoranza trova infatti nel web non il motore, ma uno specchio ustorio che ne amplifica i pericoli e l’influenza. Nei blog alla moda, le opinioni dell’oncologo Veronesi sui vaccini contano quanto quelle di un passante, e invano il grande botanico di Milano Sala si sgolava a spiegare che le piante Ogm sono naturali e innocue. I militanti rozzi sbeffeggiano entrambi e tirano dritto, a caccia di click beceri.
Nichols propone un nuovo patto, che richiederà tempo per dispiegarsi. Le élite devono riporre boria e sussiego accademico e tornare a ragionare – anche usando la ricchezza di incontro che la rete ci offre – con tutti i cittadini, accettando con umiltà che il ruvido buon senso di Ramsey non funziona più. Ma scuola, media e società civile devono, senza paternalismo o albagie, disseminare i nuovi saperi, far ritrovare lo spirito critico a chi l’ha perduto, scambiandolo con la rabbia, il rancore e il risentimento. Questa nuova democrazia digitale, da non scambiare con blog in cui un capo parla e gli utenti cliccano like, può rinnovare il nostro tempo. Tom Nichols ha scritto un libro saggio, paziente, spiritoso e informato, un vaccino – se possiamo ancora usare la parola - contro il livore degli ignoranti e la presunzione degli accademici.
Corriere 8.3.18
Giolitti vide i pericoli della guerra
Gli interventisti (e il re) lo zittirono
di Fulvio Cammarano
Fu protagonista dei progressi compiuti dall’Italia agli inizi del Novecento
Ma non riuscì a salvaguardare il ruolo del Parlamento nella crisi del 1915
Giovanni Giolitti è ancora oggi considerato, con Cavour e De Gasperi, uno dei tre grandi statisti della storia d’Italia, nonostante la diffusa opinione sul carattere spregiudicato e privo di visione ideale della sua azione. Non c’è dubbio che il personaggio sia controverso e molte delle sue scelte siano state discutibili. Basti pensare al modus operandi di Giolitti nell’Italia meridionale per favorire l’elezione dei propri candidati o alla grave sottovalutazione del fenomeno fascista nei primi anni Venti. Tuttavia la forza e la continuità della sua politica sono state tali e talmente evidenti che non solo hanno finito per imprimere il suo nome al primo quindicennio del XX secolo, ma soprattutto hanno garantito l’ingresso dell’Italia nella modernità economica e politica.
Il decollo industriale, ricorda Beonio-Brocchieri nel volume in edicola domani con il «Corriere», ha infatti permesso all’Italia di entrare nel novero delle potenze europee. Il diverso passo dell’economia non era certo merito solo di Giolitti benché fosse stato lui a ispirare e assecondare le trasformazioni attraverso una sapiente reinterpretazione delle politiche precedenti. Ed è stato proprio questo il punto di forza dello statista di Dronero anche in ambito politico e istituzionale: con i modi disincantati, con il rifiuto della retorica e del sentimentalismo, Giolitti spegneva i conflitti, riformando ogniqualvolta si apriva un varco nel muro degli interessi consolidati, ma sempre attento a evitare reazioni da cui non avrebbe saputo difendersi.
L’obiettivo dunque era quello di innovare nella continuità. Si pensi al modo in cui, utilizzando parte del vecchio apparato statale, aveva riformulato il ruolo dello Stato nei rapporti tra imprenditori e operai o, in politica estera, all’abile mutazione del carattere della Triplice Alleanza alla luce dei nuovi rapporti dell’Italia con la Francia.
Tuttavia la trasformazione del giolittismo in una vera e propria «età giolittiana» si deve alla capacità dello statista di ancorare le sue politiche ad una convinzione profonda: la fede, dopo la fase buia della crisi di fine secolo, nella centralità del Parlamento e quindi nella costruzione di quella indispensabile maggioranza da cui dipendevano le sorti dell’esecutivo in un sistema parlamentare. Una scelta strategica che, all’interno dei difformi livelli di sviluppo dell’Italia di inizio XX secolo, comportò il suo noto e quotidiano trapasso da presidente del Consiglio a «ministro della malavita» e ritorno.
Con tutti i suoi limiti, la lotta per fare del Parlamento il crocevia della lotta politica collocava Giolitti sulla scia percorsa da Cavour, per il quale «la via parlamentare era più lunga, ma la più sicura». Ed è stata questa scelta che ha fatto risaltare, nel bene e nel male, le qualità di Giolitti, la sua abilità nel trovare, manipolare, ma anche gestire personalmente una spesso riottosa maggioranza senza la quale però ogni progetto di riforma avrebbe perso il significato riformista e socialmente integratore che stava alla base di ogni pragmatica e spesso spregiudicata, iniziativa giolittiana. E fu proprio la lenta erosione della centralità del Parlamento, frutto del nuovo clima nazionalista, a rappresentare alla vigilia dell’ingresso dell’Italia nella Prima guerra mondiale, il segnale della fine di un’epoca che non a caso si manifestò con le aggressioni ai deputati giolittiani e il tentativo di linciaggio dello stesso Giolitti. E fu molto significativo che per gli interventisti entrare in guerra significasse in primo luogo liberarsi di lui, delle sue capacità mediatorie e dilatorie e dunque in ultima istanza del suo prosaico metodo di «ottenere coi minimi mezzi i massimi risultati».
Il suo neutralismo, nel 1914, venne dunque subito percepito dagli avversari come la prova della natura soffocante del giolittismo che, privo di ogni afflato ideale, sapeva solo mercanteggiare. Ma lo statista di Dronero non riteneva necessaria la guerra solo perché credeva di poter ottenere «parecchio» senza dover versare sangue, ma anche perché considerava l’Italia impreparata per quella prova.
La sua linea, sostanzialmente condivisa dal Parlamento e da gran parte del Paese, fu sconfitta dall’azione congiunta dei vertici dello Stato, a cominciare dal re, dal presidente del Consiglio Salandra e dal ministro degli Esteri Sonnino. Non bastarono i 300 biglietti da visita lasciati dai deputati nella sua casa romana, a riprova della loro fedeltà. Quel Parlamento su cui aveva cercato di stabilizzare il sistema costituzionale cedeva sotto i colpi della piazza.
Non a caso lo storico inglese Trevelyan, entusiasta per la sconfitta dei neutralisti, scriveva: «L’Italia non è una grande nazione parlamentare, ma una grande nazione democratica. In tempi di crisi politiche, come nel 1860 e nel 1915, il popolo si dimostra ricco di gran senno e di forza». In realtà da quella «forza popolare» contrapposta al Parlamento sarebbe nato, secondo Prezzolini, il fascismo. Ed è un paradosso che solo pochi anni dopo proprio la sua prima vittima, Giolitti, non fosse più in grado di riconoscerla e ne agevolasse l’ascesa.
Perché lo schieramento neutralista venne sconfitto
Esce domani in edicola con il «Corriere della Sera» il secondo libro della collana «Protagonisti, armi e strategie della Grande guerra». Il volume è in vendita al prezzo di e 7,90 più il costo del quotidiano: oltre a un denso profilo biografico dello statista liberale Giovanni Giolitti (1842-1928), firmato da Vittorio H. Beonio-Brocchieri, contiene una cronologia delle vicende riguardanti l’Italia nella Prima guerra mondiale, curata da Mario Bussoni, e un approfondimento sul nostro Paese prima dello scoppio del conflitto, realizzato da Paolo Bonanni. Al centro della pubblicazione c’è ovviamente la figura di Giolitti, che per molti anni aveva tirato le fila della vita politica, ma non era al governo nell’estate del 1914, quando l’Europa precipitò nella Grande guerra e il nostro governo preferì rimanere fuori della mischia. Giolitti approvò quella scelta iniziale, mentre giudicò avventurosa la linea scelta dal ministro degli Esteri Sidney Sonnino e dal presidente del Consiglio Antonio Salandra, che avviarono una progressiva manovra di sganciamento dalla Triplice Alleanza, che legava Roma a Berlino e Vienna, e di avvicinamento all’Intesa, che era in guerra con gli Imperi centrali. Nonostante il consenso di cui godeva nel Parlamento e nel Paese, Giolitti non riuscì a ostacolare la politica del governo, avallata dal re, che culminò nel patto di Londra (aprile 1915) e nel successivo intervento del nostro Paese al fianco della Gran Bretagna, della Francia e della Russia zarista contro l’Austria-Ungheria e in seguito anche contro la Germania. I successivi volumi della collana, in edicola con il «Corriere» al venerdì, sono Francesco Giuseppe (16 marzo), Pietro Badoglio (23 marzo), Guglielmo II (30 marzo).
La Stampa 8.3.18
“La dolce Vitti”, la musa di Antonioni protagonista di una mostra a Roma
Fulvia Caprara intervista Stefano Stafanutto Rosa uno dei curatori della mostra dedicata alla poliedrica figura di Monica Vitti al T. dei Dioscuri dall’8 marzo fino a giugno. Una figura, quella della attrice, capace di passare dal drammatico al comico come nessuna altra è riuscita nel panorama italiano
qui
http://www.lastampa.it/2018/03/07/multimedia/spettacoli/la-dolce-vitti-la-musa-di-antonioni-protagonista-di-una-mostra-a-roma-q7VYpZQsfceCNb62gMU5iI/pagina.html
Corriere 8.3.18
Il giardiniere paziente
Dietro gli universi «infantili» di Miró c’è il tempo adulto che mancò a soutine
di Roberta Scorranese
Nel 1893 a Barcellona nasce Joan Miró. Famiglia borghese, studierà disegno, andrà a Parigi, scardinerà le regole della pittura e poi, nella maturità, tornerà in Spagna e si metterà a ricostruire una singolare fisionomia dell’innocenza.
Nel 1893 a Smilovitch (Bielorussia) nasce Chaïm Soutine. Famiglia poverissima, fuggirà dalla Russia zarista, a Parigi dipingerà nature morte, scapperà dai nazisti e in maturità, clandestino nelle campagne della Loira, si metterà a ricostruire una singolare fisionomia dell’innocenza.
Quelle di Miró e di Soutine sono state due vite generate dal medesimo anno e congiunte dal medesimo approdo: un candore di figure e simboli lancinanti, un infantilismo venato di inquietudine novecentesca. Da una parte il catalano con i suoi uccelli, le sagome stilizzate e i colori accesi; dall’altra il russo con le sue bambine contorte, i fanciulli dalle smorfie buffe e terribili, le mamme. Ma il percorso no, quello sarà diverso.
Come racconta la mostra Joan Miró: Materialità e Metamorfosi a Padova, il catalano arrivò a «dipingere come un bambino» dopo aver attraversato due guerre, almeno quattro correnti (una, il Surrealismo, lo adottò senza indugio) e una sistematica distruzione della pittura tradizionale. La mostra corre lungo l’asse che va dalla metà degli anni Venti fino alla fine della sua carriera: da quando, cioè, Miró cominciò a sperimentare una nuova lingua.
Si era trasferito a Parigi, frequentava le avanguardie ma con una certa impermeabilità estetica, studiava quella che Giovanni Pozzi ha chiamato La parola dipinta : una straordinaria commistione tra parole e pittura (un esempio: i Calligrammes di Apollinaire), provava a capire che cosa ci potesse essere oltre l’arte tradizionale. Usò altri sensi.
Il tatto, per esempio: quel pezzo di stoffa aveva un suono oltre che un colore. Quel filo di ferro poteva piegarsi fino a diventare la sagoma di una ragazza esile. L’invasione nazista della Francia e poi il ritorno in Spagna nutrirono questa intima ricerca di una lingua autentica, libera dalla retorica dei movimenti novecenteschi e dalle polemiche.
E Soutine? In quel periodo Chaïm viaggiava «come un cadavere vivo» all’interno di un carro funebre: eludeva così i posti di blocco delle SS e raggiungeva le campagne francesi. Aveva mal di stomaco e ormai non sapeva più se era la fame o l’ulcera che se lo mangiava vivo. Nei primi tempi parigini aveva l’ossessione degli animali: li affittava, li dipingeva e poi li restituiva a malincuore, perché un pollo arrosto lui lo vedeva (letteralmente) «solo dipinto». In questo esilio rurale, poi, cominciò a raffigurare con sempre maggiore insistenza figure infantili. Fratelli mano nella mano, bambine piegate dalla fatica, ragazzini con i capelli arruffati. Era impaziente. Dipingeva senza disegno, come se da un momento all’altro qualcuno potesse scoprire le sue radici ebraiche e portarlo via. Miró fece il contrario. È così che le due vite coetanee finiranno per divergere: per una mancanza di tempo. Chaïm morirà nel ‘43: l’ulcera era degenerata in un cancro.
Il catalano tornò a casa, si oppose con eleganza alla dittatura franchista. Prese spazio. Curò il fisico con lunghe passeggiate e una fedeltà che per l’epoca era quasi eversiva («Ma come, stai sempre con la stessa donna?», lo sfotteva Picasso). E, poco alla volta, imparò l’arte della perseveranza dalla quale ricaverà l’ormai famosa sua affermazione: «Lavoro come un giardiniere o come un vignaiolo. Le cose maturano lentamente». Il suo studio di Palma di Maiorca si popolerà di pennelli minuscoli con i quali insistere per ore su un piccolo sole nero.
O di pezzi di ferro con cui fare una falce di luna. Le figure, le ceramiche, le sculture che vedrete in mostra nascono (anche) da questa calma indotta, dal tempo che — a differenza di Soutine — Miró riuscì a prendersi. Era sereno? No. Dirà: «Il senso dell’umorismo deriva dal fatto che provo a sfuggire al lato tragico del mio temperamento».
E così le due vite, in qualche modo, si ricongiungono idealmente: il racconto di una innocenza mai pura; macchiata dalle smorfie dei bambini di Soutine o dai neri improvvisi nelle composizioni di Miró. Perché il 900 non è stato innocente. La pittura ce lo ricorda.