Corriere 8.2.17
Centrodestra unito solo in apparenza e dem nel caos
di Massimo Franco
Quando
il leader leghista Matteo Salvini insinua un accordo «tra Paolo
Gentiloni e Luigi Di Maio a partire dalle poltrone per arrivare al
governo», gioca di sponda con i malumori montanti nel Pd. Accredita gli
stessi sospetti lanciati nelle ultime ore dal segretario dimissionario,
Matteo Renzi, verso esponenti del suo stesso partito. E sotto sotto
spera che alla fine alcuni settori dem facciano un accordo con il M5S,
lasciando alla Lega la prateria dell’opposizione e l’intero voto di
centrodestra. La pressione del Pd su Renzi e sull’intero gruppo
dirigente perché si dimetta «davvero» dopo la disfatta del 4 marzo
sembra in aumento. Lo chiede per tutti l’ex sottosegretario Angelo
Rughetti. Il vertice del partito assicura che il segretario lo ha fatto
«formalmente» già il 5 marzo, ma lasciando aperte molte incognite. Renzi
ha raggiunto almeno un risultato: a parole, quasi tutto il partito
giura di essere contro il dialogo con il movimento di Di Maio. Ma la
sinistra rimane nel caos, e nessuno può prevedere gli sviluppi nei
prossimi giorni. È più chiaro quanto accade nel centrodestra, con un
cambio di lessico che rivela i nuovi equilibri di potere. Nei comunicati
della Lega, Salvini non è più il segretario e candidato premier ma il
«leader del centrodestra». Per la prima volta dal 1994, vuole far sapere
che la guida è passata di mano. Ora esiste una diarchia, ma si presenta
sbilanciata a favore di Salvini. Eppure, il fondatore di FI si dichiara
«regista» della coalizione. E i tre gruppi che la compongono
continueranno a andare separati alle consultazioni al Quirinale.
Ma
fino a qualche anno fa, il primato berlusconiano si rifletteva nella
capacità di incidere nei giochi interni della Lega; di muovere pedine
che mostravano una sorta di doppia lealtà: all’allora capo del
centrodestra e al partito di appartenenza. Ora, invece, si indovina il
contrario. L’avanguardia della colonizzazione di FI da parte della Lega
salviniana è stata l’elezione in Liguria del presidente berlusconiano
Giovanni Toti, due anni fa: vittoria che non prefigurava più un rapporto
asimmetrico tra un berlusconismo «grande» e alleati «piccoli». Lo
schema ligure racchiudeva le ambizioni di primato di Salvini, esaltate
ora da una controversa riforma elettorale e da una radicalizzazione a
destra dell’elettorato.
L’intuizione ulteriore è stata quella di
«snaturare» il Carroccio, depurandolo almeno nominalmente delle radici
nordiste e nazionalizzandolo. Salvini continua a elencare le città del
centro e del sud Italia dove il leghismo ha preso consensi. Sembra dire a
FI che il leader del centrodestra nazionale è lui. E alcuni
parlamentari berlusconiani del Nord si sono subito allineati. I dubbi
sull’estremismo anti-immigrati, l’antieuropeismo che faceva dire a
Berlusconi «garantirò io per Salvini in Europa», sono evaporati.
Il
problema è che rimangono, corposi, a Bruxelles e negli Stati Uniti,
dove l’ ipotesi di un Salvini premier viene bollata come un favore al
presidente russo, Vladimir Putin, di cui è ammiratore. Ma l’impressione è
che il capo leghista sia pronto a governare come a rimanere
all’opposizione, sicuro di ereditare il voto berlusconiano. Il
presidente dei suoi deputati, Massimiliano Fedriga, non esclude nemmeno
elezioni anticipate: pur vedendo spuntare, alla fine della crisi, un
governo tra M5S e parte del Pd.