giovedì 8 marzo 2018

Corriere 8.2.17
Centrodestra unito solo in apparenza e dem nel caos
di Massimo Franco


Quando il leader leghista Matteo Salvini insinua un accordo «tra Paolo Gentiloni e Luigi Di Maio a partire dalle poltrone per arrivare al governo», gioca di sponda con i malumori montanti nel Pd. Accredita gli stessi sospetti lanciati nelle ultime ore dal segretario dimissionario, Matteo Renzi, verso esponenti del suo stesso partito. E sotto sotto spera che alla fine alcuni settori dem facciano un accordo con il M5S, lasciando alla Lega la prateria dell’opposizione e l’intero voto di centrodestra. La pressione del Pd su Renzi e sull’intero gruppo dirigente perché si dimetta «davvero» dopo la disfatta del 4 marzo sembra in aumento. Lo chiede per tutti l’ex sottosegretario Angelo Rughetti. Il vertice del partito assicura che il segretario lo ha fatto «formalmente» già il 5 marzo, ma lasciando aperte molte incognite. Renzi ha raggiunto almeno un risultato: a parole, quasi tutto il partito giura di essere contro il dialogo con il movimento di Di Maio. Ma la sinistra rimane nel caos, e nessuno può prevedere gli sviluppi nei prossimi giorni. È più chiaro quanto accade nel centrodestra, con un cambio di lessico che rivela i nuovi equilibri di potere. Nei comunicati della Lega, Salvini non è più il segretario e candidato premier ma il «leader del centrodestra». Per la prima volta dal 1994, vuole far sapere che la guida è passata di mano. Ora esiste una diarchia, ma si presenta sbilanciata a favore di Salvini. Eppure, il fondatore di FI si dichiara «regista» della coalizione. E i tre gruppi che la compongono continueranno a andare separati alle consultazioni al Quirinale.
Ma fino a qualche anno fa, il primato berlusconiano si rifletteva nella capacità di incidere nei giochi interni della Lega; di muovere pedine che mostravano una sorta di doppia lealtà: all’allora capo del centrodestra e al partito di appartenenza. Ora, invece, si indovina il contrario. L’avanguardia della colonizzazione di FI da parte della Lega salviniana è stata l’elezione in Liguria del presidente berlusconiano Giovanni Toti, due anni fa: vittoria che non prefigurava più un rapporto asimmetrico tra un berlusconismo «grande» e alleati «piccoli». Lo schema ligure racchiudeva le ambizioni di primato di Salvini, esaltate ora da una controversa riforma elettorale e da una radicalizzazione a destra dell’elettorato.
L’intuizione ulteriore è stata quella di «snaturare» il Carroccio, depurandolo almeno nominalmente delle radici nordiste e nazionalizzandolo. Salvini continua a elencare le città del centro e del sud Italia dove il leghismo ha preso consensi. Sembra dire a FI che il leader del centrodestra nazionale è lui. E alcuni parlamentari berlusconiani del Nord si sono subito allineati. I dubbi sull’estremismo anti-immigrati, l’antieuropeismo che faceva dire a Berlusconi «garantirò io per Salvini in Europa», sono evaporati.
Il problema è che rimangono, corposi, a Bruxelles e negli Stati Uniti, dove l’ ipotesi di un Salvini premier viene bollata come un favore al presidente russo, Vladimir Putin, di cui è ammiratore. Ma l’impressione è che il capo leghista sia pronto a governare come a rimanere all’opposizione, sicuro di ereditare il voto berlusconiano. Il presidente dei suoi deputati, Massimiliano Fedriga, non esclude nemmeno elezioni anticipate: pur vedendo spuntare, alla fine della crisi, un governo tra M5S e parte del Pd.