Corriere 30.3.18
Diritto
Nel saggio di Daniele Menozzi (Carocci) la storia di come la Carta regolò i rapporti tra Stato e Chiesa
Nella Costituzione senza esserlo Il destino ambiguo del Concordato
di Roberto Finzi
Non
c’è dubbio che tra i «principi fondamentali» che reggono la nostra
Repubblica racchiusi nei primi dodici articoli della Carta del 1948 (cui
Carocci dedica una serie diretta da Pietro Costa e Mariuccia Salvati)
il più controverso sia stato (in parte continui a essere) l’articolo 7 o
meglio, e soprattutto, il primo asserto del suo secondo comma. Se, al
di là delle sfumature, ogni forza politica e ogni cittadino, poteva
ammettere che «lo Stato e la Chiesa sono, ciascuno nel proprio ordine,
indipendenti e sovrani» perplessità e opposizioni nascevano e
continuarono dalla affermazione che seguiva: «I loro rapporti sono
regolati dai Patti Lateranensi», firmati, come si sa, da Benito
Mussolini e dal cardinale segretario di Stato Pietro Gasparri l’11
febbraio 1929, regnante Achille Ratti, Papa Pio XI. Sanavano la
«questione romana» apertasi con la presa di Roma. Con accordi e norme
complicate tra cui due particolarmente odiose per un Paese che — dopo un
decennio di guerre e la doppia occupazione nazista e alleata — si era
scrollato di dosso la dittatura anche attraverso la Resistenza e stava
lavorando non solo al ritorno delle civili libertà ma a una democrazia
nuova, repubblicana come aveva decretato il voto del 2 giugno 1946.
Si
trattava dell’asserto che quella cattolica era la religione «di Stato»
e, per la sua pervasività, dell’attribuzione degli effetti civili al
matrimonio religioso. Con il paradosso che chi riteneva il matrimonio un
sacramento poteva, per le norme del diritto canonico, ottenerne la
nullità, riconosciuta poi dallo Stato e chi invece aveva del matrimonio
una concezione puramente civile era destinato a essere legato a vita,
indissolubilmente, non per diretta conseguenza dei Patti, ma per la
coincidenza nella visione della famiglia tra Chiesa e fascismo. Nel
quadro per di più di un diritto di famiglia in cui era sancita una netta
subordinazione della donna.
Nella sua ricostruzione del formarsi
del dettame costituzionale e poi dei suoi effetti nella vita democratica
italiana ( Art.7. Costituzione italiana ), Daniele Menozzi non nega le
conseguenze negative del permanere di quelle norme specie nel
quindicennio successivo alla emanazione della Carta Costituzionale. Ci
offre però una chiave di lettura della formazione e del senso della
norma più articolata, che affonda le sue radici nella complessità del
problema cattolico nella storia dell’Italia unita e soprattutto a quel
punto della vicenda del nostro Paese.
La Chiesa, lo dimostreranno
le successive elezioni del 18 aprile 1948, aveva ancora un forte
ascendente sulla popolazione ed era una Chiesa che, seppure — si vedrà
di lì a poco — intimamente percorsa da interne pulsioni verso il nuovo,
era ancora fortemente contraria al mondo moderno e alle sue forme
politiche. In particolare a quelle di matrice socialista e comunista.
Ora, si trattava, in sostanza — spiega Menozzi con precisione e acribia
filologica — di attirare, per così dire, la Chiesa verso la accettazione
piena di quella democrazia che si andava delineando nel lavoro della
Costituente, cedendo in via formale alle sue richieste anche se
nell’immediato contraddittorie con quella visione. Protagonista di
questa operazione complicata e sottile fu in primis Giuseppe Dossetti
che univa alla sua profonda fede cristiana una visione non ierocratica
della Chiesa, la competenza giuridica del canonista di vaglia,
cristalline convinzioni democratiche, saldi legami con le altre culture
politiche formatisi nella Resistenza.
Dossetti trovò una sponda in
Palmiro Togliatti, a lungo, e tutt’oggi, accusato di avere, in qualche
modo permesso un inquinamento della Costituzione con il riconoscimento
nel suo testo dei famigerati Patti Lateranensi. L’atteggiamento del
leader del Pci derivava dal convincimento che nella Repubblica dovessero
riconoscersi per davvero tutti gli italiani e pure, dice Menozzi, da
considerazioni più immediatamente politiche. Mentre stava costruendo il
«partito nuovo» guardava alla possibilità di una adesione al Pci di
cattolici. Così temuta dalla Chiesa pacelliana che nel 1949 il Papa
scomunicherà i comunisti.
Io aggiungerei due aspetti. Togliatti
era ben consapevole di quanto Milovan Gilas nelle sue Conversazioni con
Stalin ricorda avergli detto il dittatore sovietico: «Questa guerra (…) è
diversa da tutte quelle del passato; chiunque occupa un territorio gli
impone anche il suo sistema sociale». E infine la lotta per l’egemonia
all’interno della sinistra. In quel campo i socialisti, allora sotto la
sigla Psiup, erano ancora, seppure non di molto, maggioritari rispetto
al Pci.
Per ben intendere la vicenda al quadro manca un tassello.
Decisivo. Si tratta della seconda parte del secondo comma dell’articolo 7
che recita: «Le modificazioni dei Patti (Lateranensi), accettate dalle
due parti, non richiedono procedimento di revisione costituzionale». In
tal modo si eliminava una delle più forti obiezioni all’inserimento dei
Patti in Costituzione. Per tale via infatti non venivano
«costituzionalizzati» ché la loro modifica poteva avvenire per legge
ordinaria. L’artefice di questo accorgimento essenziale fu Roberto
Lucifero, liberale e monarchico.
Così l’articolo, nota Menozzi,
«appariva formulato con il concorso di tre diverse famiglie politiche:
la democristiana, la comunista e la liberale».
La «non
costituzionalizzazione» dei Patti — in un modo profondamente cambiato
all’interno e soprattutto all’esterno della Chiesa — sarà uno degli
elementi che permetterà all’Italia l’adozione formale, prima sul terreno
parlamentare e quindi — con i referendum del 1974 e del 1981 —
attraverso la conferma popolare di decisive riforme come il divorzio e
l’interruzione volontaria di gravidanza. E del nuovo diritto di
famiglia.