Corriere 30.3.18
Il saggio di Boncinelli
Due forme di progresso così diverse
di Chiara Lalli
Che
cos’è il progresso? Ha una traiettoria rettilinea o procede in modo
disordinato? Stiamo meglio dei nostri antenati? E che cosa intendiamo
con «meglio»? Sono alcune delle domande all’origine di Un futuro da Dio
di Edoardo Boncinelli (Rizzoli, pagine 160, € 18). Nel rispondere,
l’autore demolisce molti luoghi comuni ricorrenti — a patto di essere
ben disposti, perché altrimenti non basterebbero le dimostrazioni più
evidenti.
Intanto non possiamo parlare di progresso scientifico e
di progresso morale come fossero entità simili. Il primo non è solo più
veloce e travolgente, ma è pure un risultato da cui in genere non si
torna indietro. Il progresso culturale è molto più incerto, lento,
contraddittorio. È una differenza che potremmo definire ontologica e
che, se ignorata, può causare incomprensioni se non disastri. Ecco un
esempio: esportare la scienza non incontra gli stessi ostacoli del
tentativo di esportare la democrazia. Ciò non significa che non ci sia
stato un avanzamento morale, ma che è più difficile da misurare e ha un
profilo più evanescente.
Spesso usiamo il termine «evoluzione» per
indicare un miglioramento o una direzionalità, benché nell’accezione
darwiniana non esista telos . Serve uno sforzo costante per
ricordarsene: non solo non siamo stati progettati, ma non procediamo
neanche verso il meglio. Difficilmente resistiamo alla tentazione di
considerarci migliori dei nostri antenati e soprattutto delle amebe.
Eppure questo cambiamento non ha di per sé nulla di positivo. Siamo
cambiati, gli organismi sono molto più complessi, ma nulla dimostra che
la filosofia della storia sia giusta. Anzi.
Però «l’uomo ha da
sempre il vizio di sovrapporre i propri desideri alla realtà, ovvero di
cercare di vedere le cose come vorrebbe che fossero piuttosto che come
sono». Pensiero magico, religione e ideologie nascono da questa tendenza
consolatoria. È umano essere affezionati a spiegazioni rassicuranti e
non «materialistiche». Ma non è esente da rischi. Continuiamo a parlare
di mente e psiche come se fossero entità separate dal corpo e
immateriali, perché ci sembra più poetico avere qualcosa di più di un
sistema nervoso centrale. Ritenere le teorie di Freud qualcosa di
diverso da un’affascinante narrazione è una specie di fede laica, tenace
quanto l’ostinazione con cui la psicologia resiste alle neuroscienze.
Perché
poi le spiegazioni materialistiche sarebbero meno apprezzabili di
quelle che ricorrono a entità spirituali? Forse anche perché non amiamo
le novità e le neuroscienze sono troppo giovani rispetto a un dominio
consolidato — pur se erroneamente — e trasmesso da illuso a illuso.
E
la tribù dei nostalgici, ricorda Boncinelli, è molto numerosa. I
nostalgici criticano lo «strapotere della tecnica» senza chiarire cosa
intendano e spesso approfittando delle comodità che la tecnica offre,
rimpiangono la «natura» senza aver mai trascorso un pomeriggio in
campagna (scapperebbero invocando la tecnologia come l’amico di Nanni
Moretti fuggiva da Alicudi in Caro diario ) e scambiano la loro
scontentezza per una condizione universale. Se fossimo coscienti di
queste premesse, reagiremmo diversamente agli avanzamenti della genetica
e alla possibilità di modificare il nostro genoma. Perché anche qui il
progresso è scisso. Sul piano tecnico è possibile intervenire e
migliorare, e con Crispr possiamo farlo in modo preciso e poco costoso.
Nel dibattito pubblico, invece, siamo fermi ai fantasmi della tracotanza
umana e ai pericoli del giocare a fare Dio.