Corriere 29.3.18
l retroscena
Tutti i dubbi nel Movimento
di Francesco Verderami
Vent’anni
fa toccò a Bertinotti decidere se andare a braccetto con Dini. Ora è Di
Maio a dover decidere di governare con i voti di Berlusconi.
ROMA
«Baciare il rospo». Vent’anni fa toccò al comunista Bertinotti decidere
se andare a braccetto con il tecnocrate di Bankitalia Dini. Vent’anni
dopo tocca al grillino Di Maio decidere se accomodarsi al governo con i
voti di Berlusconi. Il nodo da sciogliere per far partire la legislatura
è questo, e toccherà al capo del Movimento assumersi la responsabilità
della scelta.
Probabilmente avrà un po’ di tempo in più per
pensarci, se davvero Mattarella deciderà di fare due giri di
consultazioni. Un’ipotesi alla quale i partiti — impegnati a decrittare i
segnali che giungono dal Colle — danno un importante valore politico.
Perché questa prospettiva, se fosse confermata, a loro modo di vedere
celerebbe l’intenzione di Mattarella di non affidare incarichi
esplorativi dopo il primo turno di colloqui. Semmai il capo dello Stato
si incaricherebbe di trovare un minimo comun denominatore in quei
ragionamenti per seguirne la traccia nel secondo giro.
Così — ecco
il punto — tanto Salvini quanto Di Maio non verrebbero subito
«bruciati» nel tentativo di formare un governo. D’altronde non è
intenzione del capo dello Stato consumare delle potenziali carte a
disposizione per risolvere la crisi. A questo servono i «tempi lunghi»,
per i quali il leader di M5S aveva ringraziato Mattarella. Ma
l’extra-time non muta i termini del problema che Di Maio deve risolvere:
la questione non è se nell’eventuale patto di governo con il
centrodestra Forza Italia debba essere rappresentata «a pieno titolo»
nell’esecutivo o debba accettare di nascondersi dietro «sottosegretari
d’area». Il nodo è la «fiducia», che legherebbe il Movimento a chi ha
sempre combattuto. Si tratta di un rebus più complesso e delicato
persino della scelta del presidente del Consiglio.
Di questo
discutono Salvini e Di Maio nel loro continuo scambio di sms, è questo
il motivo che dall’altro ieri li ha indotti a marcare la reciproca
distanza. Il travaglio tra i Cinque Stelle è tale che il suo leader ha
fatto sapere di dover scartare, «o non reggo la pressione». Le
schermaglie che si sono succedute facevano parte della tattica decisa da
entrambi: avevano stabilito di prendersi del tempo. Almeno così aveva
inteso il segretario del Carroccio, che non intende aprire al Pd perché —
come ha già spiegato a Berlusconi — «lasciare i grillini
all’opposizione per noi sarebbe un suicidio». Di Maio deve stare dentro
la mission del governo: perciò ha frenato, per recuperare dei margini.
Ma
quanto è successo l’altra notte l’ha colpito: il cambio di
atteggiamento dei grillini sulla spartizione delle cariche per gli
uffici di presidenza di Camera e Senato, era all’apparenza una mossa
incomprensibile. Lì per lì, mentre Giorgetti si dannava al telefono per
cercare una soluzione e denunciava ad alta voce la rottura del patto
«che voi avete proposto», Salvini interpretava quell’attacco di bulimia
come un delirio di potere: «Manco i socialisti...». Poi ha maturato il
convincimento che si trattasse di una manovra politica: ottenere la
maggioranza in quegli uffici, specie tra i questori, significa poter
incidere sui vitalizi, sulle indennità dei parlamentari, e intestarsi la
vittoria contro la casta.
Sarebbe un blitz a saldo positivo per
M5S, che potrebbe dire di aver portato a compimento una parte del
programma senza bisogno di sciogliere il nodo politico. Il sospetto che
«invece di puntare al governo del Paese stiano puntando al governo delle
Camere per tornare al voto», e con lo scalpo, ha preso corpo nella
riunione di centrodestra svoltasi al Senato. A Palazzo Madama era ormai
impossibile contrastarli, si vedrà se oggi a Montecitorio verranno prese
delle contromisure.
E nonostante sia prevalsa l’opinione che i
grillini restino dei «doppiogiochisti», Salvini ha fatto buon viso a
cattivo gioco: oggi andrà all’incontro chiesto da M5S sul programma
insieme a Forza Italia, senza FdI. Berlusconi vuole credere all’accordo
per evitare il ritorno immediato alle urne. Ma se Di Maio non lo
«bacerà», non ci saranno molte altre strade da esplorare: rischia il
senso unico. E magari sospetterà di Salvini.