Corriere 29.3.18
Un conflitto che archivia le ipotesi di dialogo
di Massimo Franco
Quella
che si sta giocando sulle vicepresidenze e i questori di Camera e
Senato non è una sfida sulla democrazia. Sembra piuttosto un altro
scampolo della guerra interna al Pd tra chi vuole il dialogo con i 5
Stelle, e chi lo ritiene impossibile. Ieri, l’ala dell’opposizione dura
ai vincitori del 4 marzo si frega probabilmente le mani. Nel «no» di
Luigi Di Maio alle richieste dei dem può trovare una ragione valida, o
comunque un pretesto per giustificare il muro contro muro. La
perentorietà con la quale il M5S respinge le richieste del Pd, che pure
nel 2013 accettò di votare Di Maio vicepresidente della Camera, soffoca
qualunque ipotesi di intesa.
Dunque, a sei giorni dall’inizio
delle consultazioni al Quirinale per formare un governo, chi a sinistra
accarezzava una qualche intesa con Di Maio si ritrova spiazzato. E
pazienza se probabilmente i renziani hanno lavorato per far fallire
qualunque compromesso. E oggi osservano il fossato tra potenziale
maggioranza e probabile opposizione con un sorriso soddisfatto, tipo: ve
l’avevamo detto. Agli occhi dei dem, Di Maio è più inviso dello stesso
Matteo Salvini e della sua Lega. Col Carroccio le distanze sono tali che
è inutile discutere. Ma col Movimento bisognava bruciare i ponti, e la
vicenda di vicepresidenti e questori in Parlamento li sta lesionando.
È
anche una coda della faida che ha accompagnato la scelta dei capigruppo
del Pd al Senato e alla Camera: scontro che ha rischiato di
destabilizzare il «reggente» Maurizio Martina proprio per mano dell’ex
leader, deciso a condizionare qualsiasi scelta diversa dalla politica
dei «no». Oggi Martina è nel mirino di Renzi per non avere assecondato
le pretese di un leader umiliato dagli elettori; ma ancora convinto di
dettare legge attraverso gruppi parlamentari plasmati con candidature a
propria immagine: o almeno così pensava.
Pazienza se
un’opposizione declinata come autoesclusione rischia di fare il gioco
degli avversari: proprio come è successo negli anni in cui il Pd era al
governo, regalando ai seguaci di Beppe Grillo spazi polemici e di
propaganda; e, alla fine, una messe di voti. E importa poco che a
pilotare questa fase siano in fondo gli stessi che l’elettorato ha
bocciato prima al referendum costituzionale del 4 dicembre 2016, e poi
il 4 marzo. Squadra che perde non si cambia, pare di capire: a parte
qualche aggiustamento cosmetico.
Ma fare opposizione con gli
stessi che hanno gestito disastrosamente il governo è una garanzia per
perdere di nuovo. Di Maio probabilmente sta mostrando tutti i limiti di
chi vuole Palazzo Chigi senza fare i conti fino in fondo con i numeri
parlamentari; e rischia di assottigliare le probabilità di guidare il
prossimo governo. Ma anche un Pd confuso e impermalito, che grida alla
discriminazione dopo avere trattato per tre anni il Parlamento come una
protesi del governo, rischia di conquistare la medaglia di «grillino ad
honorem».