mercoledì 28 marzo 2018

Corriere 28.3.18
Saggi
Adriano Sofri analizza per Sellerio il testo della «Metamorfosi» e si imbatte in alcune incongruenze
Quei lampioni che diventano tram. Un enigma tra le pagine di Kafka
Adddirittura Boges nella sua traduzione in spagnolo del 1938 accoglie la versione del “riflesso della tranvia elettrica”
di Paolo Di Stefano


È una appassionante scorribanda dentro l’opera di Kafka e in particolare dentro quel capolavoro intitolato in tedesco Die Verwandlung e noto in italiano come La metamorfosi . Ma il nuovo libro di Adriano Sofri (Una variazione di Kafka, Sellerio) è anche — e forse soprattutto — un felice sprofondamento dentro la filologia: felice perché vi si avverte quella che Maria Corti, nell’attraversare Dante e Cavalcanti, chiamò «felicità mentale», cioè la gioia che scaturisce dall’illuminazione intellettuale raggiunta con fatica. Per la Corti era il viaggio avventuroso dentro l’aristotelismo radicale del Duecento. Per Sofri un viaggio in tram per sfidare i germanisti che hanno letto e riletto e commentato Kafka. E infatti, Sofri parte in tram per mettere in dubbio niente meno che l’affidabilità di un monumento come l’edizione critica delle opere dello scrittore praghese.
Dunque. La curiosità, anzi la stranezza da cui prende avvio l’originale saggio-racconto (autosaggio-racconto) di Sofri, è questa. All’inizio della seconda parte della Metamorfosi compaiono, sul soffitto della stanza in cui Gregor Samsa è ormai trasformato in orribile insetto, i riflessi dei lampioni elettrici («der Schein der elektrischen Strassenlampen»), mentre in basso resta il buio. Ebbene, in una delle prime traduzioni italiane, realizzata dall’autorevole Anita Rho per Frassinelli nel 1935 e poi ristampata dalla Bur, quelle luci di lampioni diventano «i riflessi lividi della tranvia elettrica». Come si fa a prendere lampioni per tram?, si chiede Sofri. Bella domanda. Una svista? Una libera interpretazione? Chissà da dove arriva quel tram. L’affare si complica quando andiamo a vedere le altre traduzioni, scoprendo che esiste una vera e propria «Internazionale kafkiana del tram». Per esempio, uno dei quattro traduttori turchi, avverte Sofri, si è accomodato sul «tramway», come altri, qua e là, nel mondo: in Inghilterra, in Olanda, in Francia (così il traduttore storico Alexandre Vialatte, il cui testo è modello di altre versioni). Addirittura Borges, nella sua Metamorfosi argentina del 1938, accoglie «el reflejo del tranvía eléctrico»: è lui il più illustre esponente dell’Internazionale tramviaria.
Qui Sofri scende provvisoriamente dal tram, lasciando il lettore con il fiato sospeso, per inoltrarsi in un’altra zona oscura. Diremo soltanto che in questa zona oscura incontriamo una donna-coraggio molto affascinante che si chiama Margarita Nelken: è lei (ma lo sapremo lentamente) la prima traduttrice in assoluto del racconto di Kafka. Nel 1925 consegna alla prestigiosa «Revista de Occidente» la sua versione in spagnolo senza firmarla e con il titolo «che ne avrebbe segnato il destino» ovunque, La metamorfosis . Basterà aggiungere qui — ma l’analisi narrativa al rallentatore di Sofri è seducente — che sulla vicenda-Kafka il kafkiano della prima (o seconda) ora Borges è stato tutt’altro che moralmente impeccabile e trasparente, attribuendosi le virtù della traduzione e scaricandone i presunti demeriti, ma in realtà rasentando il plagio a gran dispitto dei borgesiani più devoti: si sa, del resto, che la traduzione non è un terreno su cui gli scrittori fanno in genere una gran figura (vedi come si comportarono i vari Vittorini, Gadda, Montale con la «negra» Lucia Rodocanachi). Bello o brutto, giusto o sbagliato che sia, il veicolo «abusivo» non è comunque farina del sacco di Borges, sul conto del quale però, avendo la pazienza di seguire le peripezie cui ci invita Sofri, verremo a sapere cose interessanti.
È ora di risalire sul tram. Per ricostruire le ragioni dell’intrusione sferragliante nelle traduzioni di mezzo mondo, Sofri sa che il filologo non deve fidarsi di nulla che non sia ciò che può riscontrare, ma non deve fidarsi neanche troppo di se stesso: e perciò, rendendo omaggio a San Google, consulta il (molto) consultabile in Rete, mobilita amici vicini e lontani prima di muoversi lui stesso. Dà un’occhiata al manoscritto originale, dove la presenza del lampione è inequivocabile, e poi ricorre all’edizione critica pubblicata da Fischer per constatare che dopo la prima stampa della Verwandlung , pubblicata nel 1915 a Lipsia da Kurt Wolff, ne apparve una seconda a fine 1918 ma datata 1917: non ristampa ma nuova edizione con piccole e grandi differenze (errori compresi) rispetto alla prima.
Tra queste, ci viene incontro il tram sferragliante: non più le «Strassenlampen» ma un bel «Strassenbahn». Dunque, l’Internazionale tranviaria aveva lavorato sulla seconda edizione! Caso chiuso? Non proprio. Perché ora bisognerà capire se siamo di fronte a un errore tipografico, a un equivoco meccanico, a un’iniziativa personale del redattore oppure se il «tram» è una variante d’autore. I filologi-filologi sono per la prima ipotesi, escludendo che Kafka potesse aver avuto parte attiva in quella riedizione tanto carica di errori (ma anche la prima non ne è esente). Sofri invece ritiene che «il bagliore mobile di un tram che passa sia più pregevole della — nient’affatto spregevole del resto — luce ferma dei lampioni». Lascia le vesti del filologo-troppo-tecnico e indossa le vesti del filologo-interprete. Passa dall’ecdotica alla congettura più inventiva. Del resto, è davvero improbabile che una svista di copiatura abbia sostituito «lampen» con «bahn», non proprio assimilabili neanche graficamente. La variante rivelerebbe un’intenzione che non si può attribuire a un semplice «editor». E Sofri, senza negare implicazioni di ordine quasi affettivo e autobiografico, trova suggestive ragioni pro tram nel particolare legame sentimentale che Kafka nutre per quel veicolo. Le trova, per esempio, in una pagina del Diario , in cui lo scrittore nella sua stanza sembra anticipare la postura e le emozioni che saranno di Gregor. Le trova nelle bellissime lettere a Felice (immaginata sempre in viaggio su un tram) e a Niklasstrasse, la strada praghese di Kafka, dove il tram passava dal 1908. Le trova nel racconto stesso, che si conclude, dopo l’eliminazione dell’animale, con la partenza liberatoria dei genitori e della sorella su un tram diretto in campagna. Un solo neo rimarrebbe da spiegare: un verbo («lag») che prevede non il movimento di un tram ma la fissità di un lampione. Si sa, però, che quando si cambia una parola, magari per interposta persona, può sfuggire l’insieme sintattico. E poi quel tram in fondo è vero che passa, ma è come se passando si fissasse per sempre sulla parete e nella testa dell’insettone infelice dopo essere diventato la fissazione dello scrittore.