mercoledì 28 marzo 2018

Corriere 28.3.18
Saggi
Adriano Sofri analizza per Sellerio il testo della «Metamorfosi» e si imbatte in alcune incongruenze
Quei lampioni che diventano tram. Un enigma tra le pagine di Kafka
Adddirittura Boges nella sua traduzione in spagnolo del 1938 accoglie la versione del “riflesso della tranvia elettrica”
di Paolo Di Stefano


È una appassionante scorribanda dentro l’opera di Kafka e in particolare dentro quel capolavoro intitolato in tedesco Die Verwandlung e noto in italiano come La metamorfosi . Ma il nuovo libro di Adriano Sofri (Una variazione di Kafka, Sellerio) è anche — e forse soprattutto — un felice sprofondamento dentro la filologia: felice perché vi si avverte quella che Maria Corti, nell’attraversare Dante e Cavalcanti, chiamò «felicità mentale», cioè la gioia che scaturisce dall’illuminazione intellettuale raggiunta con fatica. Per la Corti era il viaggio avventuroso dentro l’aristotelismo radicale del Duecento. Per Sofri un viaggio in tram per sfidare i germanisti che hanno letto e riletto e commentato Kafka. E infatti, Sofri parte in tram per mettere in dubbio niente meno che l’affidabilità di un monumento come l’edizione critica delle opere dello scrittore praghese.
Dunque. La curiosità, anzi la stranezza da cui prende avvio l’originale saggio-racconto (autosaggio-racconto) di Sofri, è questa. All’inizio della seconda parte della Metamorfosi compaiono, sul soffitto della stanza in cui Gregor Samsa è ormai trasformato in orribile insetto, i riflessi dei lampioni elettrici («der Schein der elektrischen Strassenlampen»), mentre in basso resta il buio. Ebbene, in una delle prime traduzioni italiane, realizzata dall’autorevole Anita Rho per Frassinelli nel 1935 e poi ristampata dalla Bur, quelle luci di lampioni diventano «i riflessi lividi della tranvia elettrica». Come si fa a prendere lampioni per tram?, si chiede Sofri. Bella domanda. Una svista? Una libera interpretazione? Chissà da dove arriva quel tram. L’affare si complica quando andiamo a vedere le altre traduzioni, scoprendo che esiste una vera e propria «Internazionale kafkiana del tram». Per esempio, uno dei quattro traduttori turchi, avverte Sofri, si è accomodato sul «tramway», come altri, qua e là, nel mondo: in Inghilterra, in Olanda, in Francia (così il traduttore storico Alexandre Vialatte, il cui testo è modello di altre versioni). Addirittura Borges, nella sua Metamorfosi argentina del 1938, accoglie «el reflejo del tranvía eléctrico»: è lui il più illustre esponente dell’Internazionale tramviaria.
Qui Sofri scende provvisoriamente dal tram, lasciando il lettore con il fiato sospeso, per inoltrarsi in un’altra zona oscura. Diremo soltanto che in questa zona oscura incontriamo una donna-coraggio molto affascinante che si chiama Margarita Nelken: è lei (ma lo sapremo lentamente) la prima traduttrice in assoluto del racconto di Kafka. Nel 1925 consegna alla prestigiosa «Revista de Occidente» la sua versione in spagnolo senza firmarla e con il titolo «che ne avrebbe segnato il destino» ovunque, La metamorfosis . Basterà aggiungere qui — ma l’analisi narrativa al rallentatore di Sofri è seducente — che sulla vicenda-Kafka il kafkiano della prima (o seconda) ora Borges è stato tutt’altro che moralmente impeccabile e trasparente, attribuendosi le virtù della traduzione e scaricandone i presunti demeriti, ma in realtà rasentando il plagio a gran dispitto dei borgesiani più devoti: si sa, del resto, che la traduzione non è un terreno su cui gli scrittori fanno in genere una gran figura (vedi come si comportarono i vari Vittorini, Gadda, Montale con la «negra» Lucia Rodocanachi). Bello o brutto, giusto o sbagliato che sia, il veicolo «abusivo» non è comunque farina del sacco di Borges, sul conto del quale però, avendo la pazienza di seguire le peripezie cui ci invita Sofri, verremo a sapere cose interessanti.
È ora di risalire sul tram. Per ricostruire le ragioni dell’intrusione sferragliante nelle traduzioni di mezzo mondo, Sofri sa che il filologo non deve fidarsi di nulla che non sia ciò che può riscontrare, ma non deve fidarsi neanche troppo di se stesso: e perciò, rendendo omaggio a San Google, consulta il (molto) consultabile in Rete, mobilita amici vicini e lontani prima di muoversi lui stesso. Dà un’occhiata al manoscritto originale, dove la presenza del lampione è inequivocabile, e poi ricorre all’edizione critica pubblicata da Fischer per constatare che dopo la prima stampa della Verwandlung , pubblicata nel 1915 a Lipsia da Kurt Wolff, ne apparve una seconda a fine 1918 ma datata 1917: non ristampa ma nuova edizione con piccole e grandi differenze (errori compresi) rispetto alla prima.
Tra queste, ci viene incontro il tram sferragliante: non più le «Strassenlampen» ma un bel «Strassenbahn». Dunque, l’Internazionale tranviaria aveva lavorato sulla seconda edizione! Caso chiuso? Non proprio. Perché ora bisognerà capire se siamo di fronte a un errore tipografico, a un equivoco meccanico, a un’iniziativa personale del redattore oppure se il «tram» è una variante d’autore. I filologi-filologi sono per la prima ipotesi, escludendo che Kafka potesse aver avuto parte attiva in quella riedizione tanto carica di errori (ma anche la prima non ne è esente). Sofri invece ritiene che «il bagliore mobile di un tram che passa sia più pregevole della — nient’affatto spregevole del resto — luce ferma dei lampioni». Lascia le vesti del filologo-troppo-tecnico e indossa le vesti del filologo-interprete. Passa dall’ecdotica alla congettura più inventiva. Del resto, è davvero improbabile che una svista di copiatura abbia sostituito «lampen» con «bahn», non proprio assimilabili neanche graficamente. La variante rivelerebbe un’intenzione che non si può attribuire a un semplice «editor». E Sofri, senza negare implicazioni di ordine quasi affettivo e autobiografico, trova suggestive ragioni pro tram nel particolare legame sentimentale che Kafka nutre per quel veicolo. Le trova, per esempio, in una pagina del Diario , in cui lo scrittore nella sua stanza sembra anticipare la postura e le emozioni che saranno di Gregor. Le trova nelle bellissime lettere a Felice (immaginata sempre in viaggio su un tram) e a Niklasstrasse, la strada praghese di Kafka, dove il tram passava dal 1908. Le trova nel racconto stesso, che si conclude, dopo l’eliminazione dell’animale, con la partenza liberatoria dei genitori e della sorella su un tram diretto in campagna. Un solo neo rimarrebbe da spiegare: un verbo («lag») che prevede non il movimento di un tram ma la fissità di un lampione. Si sa, però, che quando si cambia una parola, magari per interposta persona, può sfuggire l’insieme sintattico. E poi quel tram in fondo è vero che passa, ma è come se passando si fissasse per sempre sulla parete e nella testa dell’insettone infelice dopo essere diventato la fissazione dello scrittore.

Corriere 28.3.18
Fontana di Trevi, le monetine al Comune
Sottratto alla Caritas un milione di euro l’anno. Il Campidoglio: «Finanzieremo progetti di solidarietà»
di Ester Palma


ROMA La celebre scena della «Dolce vita» felliniana con Anita Ekberg, i migliaia di selfie al giorno, i venditori (più o meno abusivi) di acqua e souvenir. Ma la Fontana di Trevi è anche altro: le tantissime monetine che secondo la vecchia leggenda romana vengono lanciate, rigorosamente a occhi chiusi e spalle alla vasca realizzata nel 1762 da Nicola Salvi e Giuseppe Pannini, per garantirsi il ritorno nella Capitale, finora sono andate alla Caritas romana. E hanno significato cibo, riparo e sostentamento per tantissimi senzatetto e anche per tante famiglie in difficoltà economiche. Si tratta di un milione di euro ogni anno, non proprio spiccioli.
Ma dal primo aprile tutto potrebbe cambiare: secondo la memoria della giunta capitolina firmata lo scorso ottobre da Luca Bergamo, vicesindaco, e Laura Baldassarre, assessore alla Comunità solidale e Scuola, i soldi dei turisti dovrebbero finire al Comune per finanziare «progetti di assistenza e solidarietà». Una rivoluzione epocale che la Caritas per ora preferisce non commentare, «almeno finché non ci saranno comunicazioni ufficiali». Anche perché potrebbero essere in corso accordi fra l’ente fondato da don Luigi Di Liegro e il Campidoglio per far avere ai poveri della Capitale, attraverso la Caritas, almeno parte dei proventi della Fontana più famosa del mondo.
È vero che papa Bergoglio ha sempre raccomandato alla Chiesa, nei 5 anni del suo pontificato, di cercare la spiritualità più dei soldi, ma è anche vero che lo stesso Francesco ha definito la Caritas «la carezza della Chiesa al suo popolo». E che l’ente diocesano gestisce a Roma una rete di assistenza di cui la città non potrebbe forse fare a meno: ostelli per i senzatetto, mense per i poveri, assistenza sanitaria e domiciliare, centri di ascolto e formazione professionale per chi il lavoro non ce l’ha o l’ha perduto, comunità parrocchiali che a loro volta forniscono servizi a chi è in crisi.
Da dieci anni è stato persino avviato un «Emporio della solidarietà», un vero e proprio supermercato gratuito in cui le famiglie indigenti (e a Roma sono tantissime) possono rifornirsi di cibo senza pagare: un’esperienza che si è peraltro diffusa in tutta Italia, che conta ora 55 «empori». Tutto questo anche grazie agli spiccioli gettati allegramente dai turisti nella Fontana di Trevi. E ora?

il manifesto 28.3.18
Parigi marcia contro l’antisemitismo. Ma il Front national non partecipa
di Francesco Ditaranto


La Procura della Repubblica di Parigi ha incriminato formalmente due uomini di 29 e 22 anni per l’assassinio dell’ottantenne di origine ebraica, Mireille Knoll, uccisa a coltellate nel suo appartamento, poi dato alle fiamme, venerdì scorso. I due dovranno rispondere, tra gli altri capi d’imputazione, di omicidio volontario in ragione dall’appartenenza vera o supposta (della vittima, ndr) a una confessione religiosa. Prende, dunque, sempre più corpo il movente antisemita nella morte di una delle ultime testimoni ebree della Parigi occupata dei primi anni ‘40.
Mireille Knoll era nata nel 1932 proprio nella capitale ed era riuscita a salvarsi dal grande rastrellamento del luglio ‘42 (il cosidetto Vel d’Hiv, nel corso del quale furono arrestati e deportati nei campi di sterminio più di 13000 ebrei), soltanto grazie, raccontano i suoi parenti più stretti, al passaporto brasiliano di sua madre. La donna, rifugiatasi in Portogallo, era tornata in Francia dopo la guerra e aveva sposato un sopravvissuto di Auschwitz, scomparso nel 2000. Da allora Mireille viveva sola nel modesto appartamento dell’XI arrondissement, nel quale il suo corpo martoriato dalle coltellate e in parte bruciato è stato ritrovato cinque giorni fa.
I due uomini incriminati per il delitto, per i quali è stata disposta la custodia cautelare, sono un senza dimora, già conosciuto alle autorità per violenza e furto, e un vicino della vittima, anch’esso noto alle forze dell’ordine, un ventinovenne di religione musulmana che conosceva bene la donna. Quest’ultimo, secondo l’altro accusato (ma si tratta di notizie non ancora del tutto confermate) avrebbe urlato «Allah è grande» mentre commetteva l’omicidio. A rendere più difficile la situazione del ventinovenne ci sono le testimonianze dei familiari di Mireille Knoll, che hanno confermato agli inquirenti come il giovane fosse un habitué della casa della donna.
Il procuratore di Parigi ha mantenuto, insieme a quella per omicidio a sfondo razziale, le accuse per furto aggravato e danneggiamento. Non è ancora chiaro, infatti, cosa abbia spinto i due accusati a compiere un atto di tale ferocia nei confronti di una donna anziana, con la quale, almeno uno di loro, sembrava intrattenere rapporti cordiali da tempo. Al momento non sembra si possa escludere un movente nel quale l’antisemitismo si sia sovrapposto alla rapina. Il tutto, ma siamo nel campo delle ipotesi, rientrerebbe in un più generale clima di xenofobia.
Questo ennesimo fatto di sangue si inscrive in un contesto profondamente preoccupante per le minoranze in Francia. Con riferimento alle minacce classificate come antisemite, secondo il ministero degli Interni nel 2017 c’è stata una flessione del 17 % ma, allo stesso tempo, le azioni violente a carattere antisemita sono aumentate del 26%. Stesso discorso per gli attacchi a luoghi di culto o cimiteri ebraici, che hanno registrato un +22%. Un trend che evidenzia un preoccupante salto di qualità.
Il consiglio rappresentativo delle istituzioni ebraiche di Francia (Crif) ha espresso soddisfazione per la decisione della procura di mantenere, per i due fermati, l’aggravante dell’antisemitismo. Nell’aprile del 2017 Sarah Halimi, una donna di origine ebraica, era morta dopo essere stata gettata dalla finestra da un suo vicino, nella stessa zona della capitale francese oggi teatro dell’omicidio di Mireille Knoll. In quel caso il carattere antisemita del delitto era stato escluso per parecchi mesi dagli inquirenti, che soltanto pochi giorni fa hanno deciso di riconoscerlo.
Per oggi alle 18.30 è programmata una marcia in ricordo dell’ottantenne uccisa venerdì scorso, promossa dal Crif. Il corteo partirà da Place de la Nation per raggiungere il luogo nel quale la vittima viveva.
Tutti i partiti politici (il presidente Macron e il ministro degli interni Collomb hanno espresso il loro profondo cordoglio via Twitter) hanno aderito all’iniziativa, con l’eccezione del Front National, la cui presenza non è gradita ai promotori.

La Stampa 28.3.18
Berlino, bimba picchiata a scuola perché ebrea
La piccola colpita dai coetanei figli di immigrati musulmani
di Walter Rauhe


«Sei ebrea»?, le chiede un compagno di classe della seconda elementare. La bambina, 7 anni, risponde di sì, spiega che suo papà è di fede ebraica anche se non è praticante. A questo punto la piccola viene spintonata, insultata, minacciata. Non solo dal compagno di classe che le ha posto la domanda, ma anche dai suoi amici, tutti di età compresa tra i 7 e gli 8 anni e tutti provenienti da famiglie di fede musulmana.
L’episodio, accaduto alcuni giorni fa nella scuola elementare «Paul-Simmel» di Berlino, sta scuotendo l’opinione pubblica tedesca e ha innescato un vivace dibattito sul cosiddetto «mobbing religioso». Un fenomeno sempre più diffuso in Germania anche tra le fasce sociali più giovani. «I bambini sono sempre più spesso soggetti al fanatismo religioso dei loro genitori, fratelli maggiori o parenti più stretti», ha dichiarato al quotidiano «Berliner Zeitung» l’insegnante di una scuola elementare nel quartiere berlinese di Neukölln, nel quale fino al 70% degli alunni è figlio di immigrati. «Non sanno ancora leggere e scrivere, ma già dividono il loro piccolo mondo in due categorie: credenti e miscredenti, musulmani e non-musulmani», denuncia l’insegnante che ha preferito restare anonima per non rischiare rappresaglie.
Le statistiche del ministero degli Interni registrano da anni un aumento dei reati di stampo antisemita: 1200 nel 2015, 1400 nel 2016 ed oltre 1500 lo scorso anno. Si tratta però solo dei casi denunciati alle autorità. Non compresi nelle statistiche sono gli episodi di antisemitismo compiuti dai minori. «Quello che è successo nella scuola berlinese non è purtroppo un caso isolato», sostiene la portavoce giovanile della comunità ebraica tedesca Marina Chernivsky. «Offese, minacce e anche attacchi fisici sono all’ordine del giorno sia nelle scuole elementari, sia negli asili». Vittime di questo nuovo fenomeno non solo gli alunni e gli studenti non-musulmani, ma anche insegnati, assistenti sociali, educatori - specie se donne. «L’Islam trasformato in un’ideologia e il fondamentalismo religioso hanno una forte attrazione sui giovani immigrati», sostiene la direttrice dell’American Jewish Committee di Berlino Deidre Berger. «Radicalizzandosi, i giovani musulmani trovano un’identità, si distinguono e compensano l’esperienza d’isolamento che a loro volta provano in qualità di diversi, di stranieri, di emarginati».
Come può reagire però la società civile a questo fenomeno? Thomas Albrecht, il direttore della scuola elementare berlinese nella quale è stata attaccata la bambina ebrea, vorrebbe arruolare servizi di sorveglianza privati per garantire la sicurezza nelle scuole e negli asili. Il governatore Michael Müller chiede tavole rotonde per coinvolgere insegnanti, genitori e rappresentanti delle comunità religiose.

Repubblica 28.2.18
Intervista a Delphine Horvilleur, 44 anni, una delle tre donne rabbine di Francia
“Ora l’antisemitismo nasce anche dai figli degli immigrati”
Si è diffusa un’idea mortifera: molti cittadini si riconoscono più in un gruppo religioso che nella collettività
di Anais Ginori


Di che cosa stiamo parlando
Dopo l’arresto dei due principali sospettati dell’omicidio di Mireille Knoll, tra cui il vicino di casa, oggi è prevista una “marcia bianca” in memoria della vittima e contro l’antisemitismo. Molti politici hanno previsto di partecipare al raduno. Knoll, 85 anni, superstite della Shoah, è stata uccisa venerdì con undici pugnalate e poi è stato appiccato il fuoco nel suo appartamento parigino. La procura indaga per omicidio con l’aggravante dell’antisemitismo.

PARIGI «La battaglia contro l’antisemitismo non è un problema solo degli ebrei, è qualcosa che deve mobilitare tutta la società francese». Delphine Horvilleur, 44 anni, appartiene al Mouvement juif libéral ed è una delle tre donne rabbine di Francia. «Sono sotto choc. Purtroppo è solo l’ultimo di una lunga serie di attacchi contro gli ebrei», commenta Horvilleur, autrice di un dialogo sulle religioni insieme all’islamologo Rachid Benzine, e di un altro libro, “Come i rabbini fanno i bambini”, appena tradotto da Giuntina. Lunedì Horvilleur è stata ricevuta all’Eliseo da Emmanuel Macron insieme all’imam danese Sherin Khankan.
La Francia ha un problema con gli ebrei?
«C’è una situazione oggettiva: qui la comunità ebraica e quella arabo-musulmana sono più numerose che in altri paesi. Si aggiunge una ragione più profonda e recente. Negli ultimi anni si è diffuso un comunitarismo mortifero in cui molti cittadini si riconoscono più in un gruppo religioso che nella collettività nazionale, vogliono contrapporre diverse identità, rompendo così il modello di coesione sociale su cui si è costituita la République».
Qual è la novità dell’antisemitismo di oggi rispetto ad altri periodi storici?
«Non c’è più solo il vecchio antisemitismo di estrema destra. Al livello sociologico la novità sono i figli di immigrati arabo-musulmani, abbeverati da prediche di alcuni esponenti religiosi. È una riflessione estremamente sovversiva, ma bisogna affrontarla. Solo un cieco può negare che esiste un antisemitismo nuovo e galoppante tra questi ragazzi».
Cosa si può fare?
«Per quanto mi riguarda, c’è una responsabilità teologica. Si sente molto parlare sui social dei versetti antisemiti del Corano, sia da chi fomenta l’integralismo sia da chi vuole additare l’Islam come una religione antisemita. Bisogna combattere entrambi le interpretazioni. Io ad esempio ho lavorato molto insieme a islamologi per ricontestualizzare questi riferimenti del Corano».
Parteciperà alla manifestazione a Parigi?
«Spero che non sarà un raduno di soli ebrei francesi. Non dovremmo ragionare in termini di singole comunità, ma di un’unica comunità nazionale. Oltre al dolore per quanto accaduto, molti di noi provano un sentimento di rabbia».
Rabbia provocata da cosa?
«In queste ore riceviamo condoglianze e attestati di solidarietà, come se questo efferato omicidio fosse una faccenda che riguarda solo gli ebrei. È un problema della Nazione. Mireille non è mia nonna, è la nonna di tutti i francesi».
L’anno scorso la giustizia aveva aspettato mesi prima di riconoscere il movente antisemita nell’omicidio di un’altra donna ebrea, Sarah Halimi. Come mai?
«È stata un’incomprensibile lentezza, forse perché l’omicida di Halimi era uno squilibrato. Ma si può essere pazzi e antisemiti. Anzi, dovremmo chiederci perché sempre più squilibrati si nutrono dell’odio contro gli ebrei».
Ce lo dica lei: perché?
«L’antisemitismo è come una corrente sotterranea che riappare in alcuni periodi della Storia. Ogni volta che una Nazione vive una crisi, si riattiva un’invidia ancestrale, una gelosia viscerale, un immaginario collettivo in cui l’ebreo viene descritto come qualcuno a parte, privilegiato culturalmente, economicamente, socialmente. Per un osceno paradosso chi commette crimini antisemiti non si sente colpevole, perché spesso pensa di vendicare un’ingiustizia, un’umiliazione».

il manifesto 28.3.18
Open Arms, per il gip cade l’associazione a delinquere
Di mare in peggio. Alla ong contestata l’immigrazione clandestina. L’inchiesta passa alla procura di Ragusa
di Leo Lancari


L’accusa più pesante, quella di associazione per delinquere contestata al capitano e alla capomissione della nave Open Arms, è caduta. Resta, invece, quella di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina insieme al sequestro della nave, che per ora resta ancorata nel porto di Pozzallo in attesa che sia la procura di Ragusa a decidere sul suo futuro.
Sono durate otto giorni alcune delle contestazioni rivolte dalla procura distrettuale di Catania alla ong spagnola Proactiva, finita nel mirino per essersi rifiutata, il 15 marzo scorso, di consegnare 117 migranti salvati in acque internazionali nelle mani della Guardia costiera libica che li avrebbe ricondotti nel paese nordafricano. La decisione del gip di Catania Nunzio Sarpietro sottrae quindi l’inchiesta al procuratore etneo Zuccaro per trasferirla alla procura di Ragusa, ed è stata accolta con soddisfazione dall’avvocato Alessandro Gamberini, che assiste la Proactiva. «Giudico molto importante e significativo che sia caduta l’accusa strumentale di associazione per delinquere – è stato il commento del legale -. Questa decisione riporta in un alveo di legalità una vicenda che era stata sradicata dal suo giudice naturale».
L’ultima inchiesta su una ong attiva nel Mediterraneo è cominciata due settimane fa con la comunicazione da parte di Mrcc di Roma, la sala operativa che coordina i salvataggi in mare, di tre gommoni in difficoltà. Una procedura uguale a tutte le volte precedenti, salvo che per un particolare subito notato dall’equipaggio della Open Arms: la comunicazione da parte della Guardia costiera italiana che il coordinamento dei soccorsi sarebbe stato preso dai militari di Tripoli. Cosa che si concretizza quando ai volontari della ong spagnola si avvicina una motovedetta libica pretendendo, sotto la minaccia delle armi, la consegna delle donne e dei bambini già tratti in salvo. Tutto si sblocca solo quando, dopo due ore di alta tensione, i libici lasciano andare la Open Arms che dirige verso nord.
E’ questo punto che, secondo il gip di Catania, si potrebbe ipotizzare il favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Il comandante della Open Arms, Marc Reig Creus, ha infatti dichiarato di non aver chiesto alle autorità di Malta di poter sbarcare i migranti conoscendo bene il rifiuto sempre manifestato dall’isola verso una simile possibilità. Circostanza che però, per il gip Sarpietro, in questo caso «è rimasta indimostrata a causa delle condotta del comandante della Open Arms che non ha risposto alle autorità maltesi e non ha aderito alle disposizioni impartite dalle autorità spagnole e italiane, le quali avevano indicato il porto sicuro di la Valletta». Per il gip, quindi, sarebbe esistita da parte degli indagati «la precisa volontà di portare i migranti solo nel territorio dello Stato italiano e, in particolare, in Sicilia». Contestata, infine, anche la decisione di non aver voluto consegnare donne e bambini ai libici. «Il fatto che i campi profughi Libia non siano un esempio di limpido rispetto dei diritti umani – è scritto nel provvedimento – non determina automaticamente che le ong possano operare in autonomia e per conto loro, travalicando gli accordi e gli interessi degli Stati coinvolti dal fenomeno migratorio».
Le operazioni in mare di Proactiva Open Arms «continueranno» nonostante il sequestro della nave e l’accusa di favoreggiamento di immigrazione clandestina, ha dichiarato ieri il fondatore della ong spagnola, Oscar Camps ricordando come, rifiutandosi di consegnare i migranti ai libici, l’equipaggio «abbia rispettato pienamente il diritto internazionale». Anche perché, ha sottolineato Camps, i «migranti non volevano» tornare in Libia sapendo bene cosa li attendeva. «In nessuna parte del codice della ong che abbiamo firmato c’è scritto che le operazioni a un certo punto sarebbero state affidate ai libici» ha proseguito Camps, per il quale «le regole non possono essere cambiate nel bel mezzo di un’operazione di soccorso».

La Stampa 28.3.8
Migranti salvati in mare
Il gip sconfessa la Procura di Catania
Contro la Ong cade l’accusa di associazione a delinquere
In corteo “Salvare le persone non è un crimine” è lo striscione portato dai sostenitori della Ong spagnola durante le proteste della scorsa domenica a Barcellona
di Fabio Albanese


La nave «Open Arms» resta sotto sequestro. Ma il gip di Catania boccia la linea della procura etnea, che aveva ipotizzato il reato di associazione per delinquere per alcuni componenti della Ong spagnola ProActiva, e manda alla Procura di Ragusa gli atti dell’inchiesta. Il contestato salvataggio di migranti di due settimane fa al largo della Libia, effettuato da ProActiva e finito nella lente degli investigatori italiani, per il capo dei gip di Catania Nunzio Sarpietro si può considerare come «favoreggiamento dell’immigrazione clandestina» ma il reato associativo non c’è perché gli indagati sono due, e non tre come ipotizzavano i pm catanesi (l’associazione per delinquere scatta con almeno tre persone).
Nel provvedimento urgente con cui lo scorso 18 marzo nel porto di Pozzallo, nel Ragusano, fu sequestrata la nave, ai nomi dei due indagati che erano a bordo (la capo missione Ana Isabel Montes Mier e il comandante Marc Reig Creus) fu aggiunto quello del responsabile delle operazioni Gerard Canals che si trovava a Barcellona e il cui nome fu ricavato dagli interrogatori degli altri due: «Dichiarazioni non utilizzabili», scrive il gip, perché rese quando i due «erano già stati raggiunti da elementi indizianti».
Caduto il reato di associazione, «trattato» dalle direzioni distrettuali (quale è la Procura di Catania), l’inchiesta va dunque alla procura di competenza per il solo favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, cioè quella di Ragusa: reato che il gip di Catania ritiene fondato. Una complessa questione, dunque, che però lascia intatta una parte fondamentale dell’inchiesta: gli indagati «hanno manifestato la precisa volontà di portare i migranti solo nel territorio dello Stato italiano e, in particolare, in Sicilia, disattendendo volutamente tutte le indicazioni e le disposizioni impartite dalle autorità superiori».
Quel 15 marzo, quando la «Open Arms» si trovava in acque internazionali al largo della Libia, i responsabili della nave si sarebbero rifiutati di obbedire all’ordine, arrivato dalla sala operativa di Roma, di «cedere» le operazioni di salvataggio alla Guardia costiera libica che ne aveva assunto il controllo; inoltre, non avrebbero accolto la disposizione arrivata sia dalla sala operativa di Madrid sia da quella di Roma di chiedere alle autorità di Malta, cui la «Open Arms» aveva appena consegnato una madre con la sua bimba gravemente malata, di poter sbarcare alla Valletta anche gli altri 216 migranti che aveva a bordo. Comportamenti che, dice il gip di Catania, fanno pensare che per la Ong siano solo in Italia i porti in cui far arrivare i migranti, in violazione sia delle leggi italiane sull’immigrazione sia del codice di autoregolamentazione delle Ong con il Viminale, che ProActiva ha firmato l’estate scorsa.
Il gip cita un rapporto in cui la Guardia costiera italiana ricostruisce i fatti dal giorno del soccorso, il 15 marzo, a quello dello sbarco a Pozzallo, il 17; l’indomani la nave sarebbe stata posta sotto sequestro. Dal rapporto, peraltro, si evince come le prime informazioni sulle attività della Guardia costiera libica arrivino a Roma direttamente da Tripoli ma da bordo di una nave della Marina italiana, la «Capri» dell’operazione Nauras. In una lunga nota, il procuratore di Catania Carmelo Zuccaro, tra l’altro, fa notare come «il gip ha mostrato di condividere l’impostazione» della procura sulle accuse alla Ong mentre sull’ipotesi associativa, il gip «ha rilevato la necessità di ulteriori approfondimenti che questo ufficio sta già effettuando». Da Bruxelles, il fondatore di ProActiva Oscar Camps dice che in Italia l’aria è cambiata: «Non abbiamo mai disobbedito a ordini durante l’operazione», aggiungendo che «c’è un codice di condotta, ma ci sono anche convenzioni internazionali» da rispettare.

Il Fatto 28.3.18
Spinelli: “Tripoli non ha i requisiti per i soccorsi in mare”


Sulla presenzadi una zona Sar (search and rescue, ricerca e soccorso) in Libia è intervenuta ieri l’eurodeputata Barbara Spinelli durante la riunione della Commissione per le Libertà civili, la giustizia e gli affari interni del Parlamento Europeo. L’occasione è stata data dalla presentazione dell’operazione congiunta “Themis” di Frontex – Agenzia europea della Guardia di frontiera e costiera. “Da quanto mi risulta, la zona Sar libica non esiste – ha detto Spinelli – e lo conferma in maniera ufficiale l’Organizzazione Marittima Internazionale (IMO). I requisiti richiesti per il search and rescue non sono stati soddisfatti e la Libia si è dunque ritirata dalla zona Sar”. Il problema più evidente, in questo caso, sarebbe il comportamento dei libici: “La zona Sar era stata istituita principalmente per depotenziare l’attività delle Ong e affidare ai libici un controllo che non erano in grado di esercitare”. Dubbi, da parte di Spinelli, anche sulle regole relative agli sbarchi: “Si tratta di sbarchi in luoghi sicuri secondo la Convenzione Sar, oppure di sbarchi in luoghi più vicini? Fa una grande differenza”.

Repubblica 28.3.18
Come hanno votato le ex isole rosse
Cgil a Cinquestelle “Non perdoniamo Jobs act e Fornero”
Sono molti gli iscritti del sindacato che hanno scelto M5S “Renzi è quello che voleva rottamarci È stato rottamato lui”
Il segretario siciliano: “Illusi dal sussidio promesso da Di Maio?
Al Sud non abbiamo l’anello al naso ma è dramma lavoro”
di Paolo Griseri


L’uomo con la camicia bianca aveva fatto ridere molto. Riunita nel salone di una vecchia stazione ferroviaria, la folla aveva applaudito alle sue battute. La più divertente era la storiella di un tizio che cercava di utilizzare il cellulare in modo improprio: «Aggrapparsi all’articolo 18 è come cercare di infilare un vecchio gettone del telefono nell’iPhone». E tutti a sbellicarsi. Lui, compiaciuto, aveva continuato con le metafore: «È come pensare di prendere un giradischi e metterci la chiavetta usb... è come pensare di prendere una macchina fotografica digitale e cercare di inserirci il rullino. È finita l’Italia del rullino!». Grandi “ahah” in platea. Sul leggio, sotto il microfono, c’era la scritta: “Il futuro è solo l’inizio”. L’uomo con la camicia bianca pensava di essere nel giusto.
Sotto la pioggia, in piazzale Aldo Moro, a Scafati, Giuseppe Spadaro ricorda ancora quella storia del gettone. «Sono passati tre anni e mezzo ma non credere che se la siano dimenticata in tanti. Renzi ci voleva rottamare ed è stato rottamato due volte: il 4 dicembre e il 4 marzo».
Giuseppe è il segretario della Cgil campana. Oggi partecipa alla marcia contro le mafie promossa dagli studenti. Qui c’è uno degli epicentri della frana della sinistra a favore dei 5 stelle. «Non solo a Pomigliano, la città di Di Maio, e si può capire.
Ma in tutto il Sud la sinistra ha perso un milione e mezzo di voti». E perché mai? «Ci sono tanti motivi, uno sopra tutti: la sinistra politica, questa sinistra non ci rappresenta. In certi casi ha scelto di non rappresentarci e non è più in sintonia con il popolo del Sud».
La Cgil, sindacato di sinistra per antonomasia, ha 5 milioni di iscritti. Sarebbe impossibile immaginare che nessuno di loro abbia scelto i 5 stelle. Ma è successo addirittura che abbiano votato in gran numero per il partito di Di Maio. Perché?
La sintesi è di Pino Gesmundo, 55 anni, da due alla guida dei 300 mila iscritti pugliesi del sindacato di Camusso: «La sinistra è lontana. Anche quando fa cose importanti come gli investimenti al porto di Taranto o gli interventi di Calenda sull’Ilva, sembra distante e soprattutto litigiosa.
A Roma i ministri dicono una cosa, a Bari Emiliano sostiene il contrario. La destra è l’austerità e si è visto dove ci ha portati. I Cinque stelle sono vissuti come la rottura dell’esistente. E non è strano che i nostri iscritti abbiano provato a votarli.
Quando le soluzioni proposte non ti convincono, ti rifugi nella speranza dell’assistenza». Che non è solo l’ormai nota idea del reddito di cittadinanza.
«Quando sento dire che il Sud ha votato Grillo per il reddito di cittadinanza, mi arrabbio. La situazione è molto più complicata. Non abbiamo l’anello al naso», si infervora Michele Pagliaro che governa la Cgil siciliana e parla di «una condizione di lavoro drammaticamente regredita per diritti, tutele, garanzie». I dati Istat propongono una fotografia impressionante: nel 2017 in Sicilia il tasso di disoccupazione è stato del 40 per cento. Il 57 per cento dei giovani è senza lavoro e restano a casa sei donne su dieci. «Nella nostra provincia di Caltanissetta - spiega Ignazio Giudice - su 278 mila abitanti 101 mila non fanno la dichiarazione dei redditi. E non sono orefici evasori». Giudice è un sindacalista quarantenne che si è fatto le ossa nei centri per l’impiego di Gela, vere stanze dell’orrore dove si incrociano le storie della disperazione del Sud. Eppure Gela è una delle aree dove il petrolchimico e il porto danno lavoro. E dove i grillini hanno eletto il sindaco, Domenico Messinese, già espulso dal Movimento. Un Pizzarotti del Sud? «Ma quale Pizzarotti, è stato messo fuori perché aveva assunto come segretaria un’amica della moglie. Gela con i politici non ha successo. Crocetta viene da Gela ma non ce ne siamo accorti». E allora perché insistere con i 5Stelle? «Alle politiche - spiega Pagliaro - ha contato la successione delle tornate elettorali. Alle regionali del 2012 Crocetta e il centrosinistra avevano illuso di invertire la rotta dopo gli anni del centrodestra. Ma hanno deluso.
Ora sembra aver deluso anche il centrodestra di Musumeci, che è subentrato a Crocetta a novembre. Aveva fatto tante promesse, compresa l’abolizione del bollo auto.
Naturalmente non se n’è fatto nulla. Adesso alle politiche si è provato con i Cinque stelle».
Ma come è possibile che iscritti e simpatizzanti di un sindacato di sinistra scelgano il movimento di Di Maio? Quali sono le sintonie profonde che scavano sotto l’apparenza di due mondi ufficialmente distanti? I nodi sono due: la legge Fornero e il Jobs act. La Cgil si è opposta a queste norme. Pagliaro lo ricorda per tutti: «I governi Renzi e Gentiloni hanno bocciato anche la nostra richiesta di una carta dei diritti del lavoro che ha raccolto 4 milioni di firme. Se oggi i 5 Stelle aboliscono la Fornero e il Jobs act, è chiaro che noi brindiamo». Un’opposizione ideologica?
Niente affatto. Lo spiega il segretario della Campania: «Con il Jobs act presto 200 mila lavoratori nella nostra regione perderanno cassa integrazione e altre indennità. Vivranno senza reddito. Nel Sud ci sono 1,8 milioni di giovani senza occupazione, e negli anni della crisi i migliori di loro, 400 mila dal 2008, hanno scelto di emigrare al Nord.
Depauperando per i prossimi decenni le leve della classe dirigente del Meridione». È chiaro allora il successo della proposta del reddito di cittadinanza ha successo. È un paracadute.
Pirandellianamente, Pagliaro sottolinea che «in fondo nel Sud il reddito di cittadinanza c’è sempre stato, fatto di tante e diverse forme di sussidio che ora si teme possano scomparire in una terra senza occasioni di lavoro». Un voto di difesa, dunque. La rivoluzione grillina come l’ultimo appiglio per difendere lo statu quo. Anche quando, forse, una strada alternativa ci sarebbe.
Paolo Peluso organizza la Cgil di Taranto: «Noi siamo per tenere aperto lo stabilimento dell’Ilva, i grillini vogliono la chiusura perché inquina. Noi pensiamo che ci possa essere un modo pulito per produrre l’acciaio e dare lavoro. Loro credono che si debba chiudere e vivere di sussidi». Nelle urne hanno vinto loro. Come hanno stravinto in Sicilia. E non è servito a catturare il consenso dei lavoratori di sinistra nemmeno il tentativo di Leu di distinguersi dal Pd sulle stesse parole d’ordine della Cgil: «A Scampia osserva Spadaro - Leu ha preso gli stessi voti della Lega». Il partito di Salvini conquista consensi in luoghi impensati. A Gela raggiunge il 7-8 per cento: «Le persone hanno paura degli immigrati», dicono i sindacalisti. E spiegano che «nelle assemblee sui luoghi di lavoro cominciano a sentirsi discorsi sui marocchini che ci tolgono i posti».
Quando la frana comincia non è facile fermarla. Si sgretolano i capisaldi sociali della sinistra nel Sud. La Cgil è una fragile rete metallica per impedire che tutto venga giù. Walter Schiavella è un sindacalista esperto. Per anni ha guidato a livello nazionale gli edili, categoria non facile. Oggi è il segretario della Camera del lavoro di Napoli: «Il sindacato ha retto più dei partiti della sinistra ma non possiamo certo autoassolverci. Tuteliamo degli individui ma facciamo sempre più fatica a proporre un sistema di valori uguale per tutto il mondo del lavoro. La società si sta frammentando. A Napoli comincia a perdersi anche la distinzione classica tra centro e periferia. Ogni centro ha le sue periferie. Nel rione Sanità ci sono palazzi che hanno il Basso al pian terreno e l’alloggio del professionista al terzo piano.
Noi nelle periferie proviamo a starci ma è ovvio che per la natura del sindacato è più facile essere presenti nei luoghi di lavoro. Nelle periferie dovrebbero andare i partiti della sinistra, ma in questi anni, quando è cominciata la frana, erano distanti. Chi è andato in quei luoghi ha preso i voti.
Magari anche il consenso di qualche iscritto alla Cgil. Quelli che facevano gli spiritosi con il gettone del telefono, chi li ha visti?».

Repubblica 28.3.18
Intervista a Julian Assange
“La tecnologia sta cambiando la politica perciò seguo i 5S e mi sono congratulato con loro”
Da quasi otto anni è detenuto arbitrariamente, secondo le Nazioni Unite.
Da quasi sei è confinato nella minuscola ambasciata dell’Ecuador a Londra e da due è sotto un intensissimo fuoco di accuse per la decisione di pubblicare le email dei Democratici americani a ridosso delle elezioni Usa, quelle in cui avrebbe giocato un ruolo cruciale Cambridge Analytica.
di Stefania Maurizi



I Cinquestelle hanno politiche di trasparenza come la proposta sui whistleblower Vladimir Putin ha fatto crescere l’economia russa I partiti politici che non proveranno a sperimentare le novità tecnologiche alla fine spariranno dalla circolazione

Repubblica ha intervistato il fondatore di WikiLeaks, Julian Assange.
Lei si è offerto di testimoniare davanti alla commissione del Parlamento inglese che indaga su Cambridge Analytica, può dirci di più?
«Non posso, perché rovinerei la sorpresa al Parlamento ( sorride).
Sono stati loro a invitarmi e io ero a favore, ma ci sono state pressioni. È un problema politico».
Perché?
«Non lo so, forse dovrebbe chiederlo a loro. Il nome mio e di WikiLeaks è stato fatto da gente che ha testimoniato, tipo Alexander Nix, ventisei volte.
Sarebbe appropriato che io potessi rispondere, per esempio, al vicedirettore de El Paìs, David Alandete, apparso anche lui in commissione per diffamare me e il movimento di indipendenza della Catalogna, in un momento di conflitto molto intenso in Spagna, che ha prodotto vari prigionieri politici e rifugiati».
Si riferisce agli articoli in cui il vicedirettore de El Paìs sostiene che c’è la Russia dietro?
«Sì, e non solo, anche all’accuratezza dei miei commenti sull’indipendenza della Catalogna. Io sono a favore dell’articolo uno dell’Onu sull’autodeterminazione dei popoli. Poi, se i catalani devono essere indipendenti o meno, è un’altra questione.
Personalmente, credo sarebbe meglio se potessero convivere felicemente, ma la decisione non spetta a me: spetta a loro».
Aveva mai sentito parlare di Cambridge Analytica, prima che questa azienda la contattasse?
«No. Molti cercano di contattarci continuamente e anche WikiLeaks cerca di contattare tanti, come fa ogni organizzazione giornalistica seria. Quello che non facciamo è parlare delle nostre pubblicazioni imminenti con nessuno, ad eccezione dei giornalisti che lavorano con noi come partner alla rivelazione dei file.
Cambridge Analytica non rientra in questo caso, ecco perché abbiamo rifiutato il contatto con loro».
Quindi era il primo contatto.
«C’è un’organizzazione molto più significativa: l’SCL Group, di cui la Analytica è parte. SCL lavora molto per la difesa e l’intelligence inglese e si vanta di essere stata coinvolta in molte elezioni politiche negli ultimi venti anni in 60 paesi. Opera nel settore governativo e commerciale. C’è ancora un’importante questione da risolvere: fino a che punto le attività dell’SCL sulle elezioni di altri paesi sono state fatte nell’interesse del governo inglese».
Dopo il successo dei Cinque Stelle alle ultime elezioni italiane, lei si è congratulato con loro via Twitter. Cosa le piace o trova interessante?
«Sono felice di sostenere qualsiasi policy particolare di qualsiasi partito utile per le nostre fonti o per il dibattito. Durante le elezioni Usa del 2016, sono intervenuto all’assemblea inaugurale del Fondatore di Wikileaks
Julian Assange, da sei anni è confinato nell’ambasciata dell’Ecuador a Londra
partito dei verdi di Jill Stein perché aveva una posizione forte sulla protezione dei whistleblower, inclusi Edward Snowden e Chelsea Manning. Nel caso dei Cinque Stelle, hanno politiche di trasparenza e hanno fatto dichiarazioni sulle nostre presunte fonti che ritengo positive».
Si riferisce alla loro proposta di legge sui whistleblower?
«Sì».
Lei però ha idee diverse da loro. Per esempio, ci ha detto di essere scettico sulla democrazia diretta attraverso le piattaforme online...
«Sono scettico anche su altre forme di democrazia, ma supporto l’esperimento: è importante creare, e verificare cosa va in porto e in quali aree si fallisce. I parametri della politica stanno cambiando rapidamente a causa della tecnologia e quindi la politica deve cambiare. La maggior parte dei tentativi non avrà successo, ma possiamo stare certi che i gruppi che non proveranno neanche a sperimentare, falliranno».
Cosa pensa della rielezione di Putin?
«Le argomentazioni sul controllo del Cremlino sulle tv di stato sono in gran parte vere, ma se guarda al popolo russo – che ha avuto a che fare con Gorbachev e Yeltsin, che hanno gestito la nazione portandola a un collasso, per cui si faceva la fame – anche per gli standard sovietici, Putin è il leader con più capacità manageriali che la Russia abbia avuto da anni e sotto il quale ha visto un aumento sostanziale di pensioni e salari».
Allo stesso tempo, è un ex Kgb e i suoi nemici non muoiono di morte naturale…
«È piuttosto difficile sapere come stanno le cose. È chiaro che numerosi omicidi sono collegabili a elementi dello stato, ma seri analisti della Russia li attribuiscono a una mancanza di controllo sugli quegli elementi e sulle sue regioni. Per esempio, un certo numero di assassini associati a Kadyrov in Cecenia, che agisce per i propri interessi, non sembrano in molti casi beneficiare il Cremlino. Lo fanno apparire debole. Il sospetto tentativo di assassinio di Skripal, invece, credo abbia più il marchio dello stato. Molte delle cose che elementi dello stato russo fanno in regioni come la Cecenia o nella mafia sono attribuite a decisioni personali di Putin ed è chiaro che il Cremlino a volte lavora con o attraverso la mafia».
Lo dicono i cablo di WikiLeaks...
«Sì, ma a causa della grandezza della Russia, della diversità delle sue regioni e dell’età relativamente giovane dello stato, le strutture di controllo sono deboli e il Cremlino preferisce prendersi la colpa di cose che non ha fatto, piuttosto che fare la figura di chi non ha il controllo. La Russofobia, diffusa dall’intelligence e dai politici dell’Est Europa – che la usano per incrementare i loro budget e unificare i loro stati – spesso va a beneficio del Cremlino, perché ne proietta un’immagine potente e disciplinata, quando di fatto la Russia ha un Pil all’incirca come l’Italia e c’è una notevole mancanza di controllo su molti apparati dello stato. Non fraintendiamoci: ci sono stati molti abusi in Cecenia per cui il Cremlino è responsabile, ma la maggior parte delle analisi sulla Russia è semplicistica».

Il Fatto 28.3.18
Vite su Facebook
30 cent a clic e 20 dollari a utente: così diventiamo ricavi per il social
Il business del colosso di Menlo Park è offrire pubblicità mirata grazie all’enorme mole di dati. Ecco quanto valgono le nostre interazioni sociali sul web
A colpi di mouse. Il fondatore e numero uno di Facebook, Mark Zuckerberg. Così il social guadagna dagli utenti
di Virginia Della Sala


Facebook ha un problema: si parla di privacy violata, di dati rubati, di targetizzazione, di uso strumentale a fini politici. Il concetto che il prodotto dei social network sono gli utenti ora è chiaro anche a loro. Gusti e abitudini sono a disposizione degli inserzionisti per permettere alla piattaforma di monetizzare, prassi autorizzata dagli stessi utenti quando accettano le condizioni d’uso. Ma quanto vale per Facebook un suo utente? I numeri ci sono. Precisamente, per Facebook un utente europeo nel quarto trimestre del 2017 valeva 8,86 dollari. Molto meno rispetto a uno degli Stati Uniti e del Canada, dove di dollari ne vale 26,76. Nella regione dell’Asia e del Pacifico, si scende a 2,54 dollari fino a 1,86 nel resto del mondo. In media, quindi, un utente del social network fondato da Mark Zuckerberg vale globalmente 6,18 dollari a trimestre, circa 20 all’anno.
La quasi totalità della cifra deriva dalla pubblicità. Il calcolo viene fuori dalle cosiddette revenue – generating activities, le attivitià che generano ricavi. Per la definizione, bisogna spulciare il rapporto annuale che Facebook invia alla Sec, l’ente federale statunitense che vigila sulla Borsa. “Generiamo sostanzialmente tutte le nostre entrate dalla pubblicità – si legge – . I nostri introiti pubblicitari vengono generati visualizzando i prodotti pubblicitari su Facebook, Instagram, Messenger, siti web affiliati di terze parti o applicazioni mobili”. Gli inserzionisti pagano per i prodotti pubblicitari direttamente o attraverso le loro relazioni con le agenzie pubblicitarie, in base al numero di impressioni pubblicate o al numero di azioni, come i clic, prese dagli utenti: “Riconosciamo le entrate derivanti dalla visualizzazione di annunci basati sulle impressioni nel periodo contrattuale in cui vengono pubblicate. Le impressioni sono considerate consegnate quando un annuncio è visualizzato da un utente. Riconosciamo le entrate derivanti dalla pubblicazione degli annunci nel periodo in cui un utente intraprende un’azione per la quale l’inserzionista ha stipulato un contratto”. A seconda del dettaglio e della tipologia dell’inserzione varia il prezzo per l’inserzionista. Le scarsissime altre entrate della piattaforma derivano dalle commissioni che ricevono dagli sviluppatori che utilizzano l’infrastruttura di pagamento e dalle commissioni (“che non sono state significative negli ultimi periodi”, specifica Facebook) derivanti dalla fornitura di dispositivi con piattaforma di realtà virtuale.
Non esistono numeri ufficiali su quanti annunci pubblicitari circolino sul social network. A metà del 2017 Facebook aveva annunciato di aver raggiunto quota 5 milioni di inserzionisti ogni mese (erano 3 milioni a marzo del 2016, 4 milioni a settembre dello stesso anno). Questo significa che, sempre in media, ogni inserzionista ha investito in pubblicità su Facebook circa 667 dollari al mese, 8 mila circa all’anno. Tra il 2016 e il 2017 la percentuale di crescita tra ricavi e utenti non è stata armonica: i ricavi sono saliti di circa il 48 per cento mentre la popolazione online è lievitata del 16 per cento. Se infatti una buona parte dell’efficacia di una pubblicità su Facebook (e quindi del suo costo) dipende dal numero di persone che raggiunge, un’altra buona parte dipende dal livello di personalizzazione di quella pubblicità: più è targettizzata, più costa, più è richiesta, più costa, più è specifica, più costa. Gli utili, invece, seppur in positivo sono cresciuti molto meno rispetto al 2016, anno in cui sono aumentati del 180 per cento. Facebook lo aveva ammesso: era stato raggiunto il numero massimo di inserzioni possibili per non danneggiare l’esperienza degli utenti. E quest’anno lo ha ribadito: le modifiche all’algoritmo che permettono agli utenti di vedere prima di tutto quanto condiviso da amici e familiari produrrà una minor crescita dei ricavi. È inevitabile.
Se si guarda poi agli utenti attivi mensili – pur tenendo conto della possibilità di account fasulli – ci si accorge che nell’ultimo trimestre del 2017 sono meno là dove i ricavi sono maggiori, cioè Usa e Canada (239 milioni, mentre sono 828 in Asia). A influire sul costo delle inserzioni quindi è la loro provenienza, i destinatari e il livello di personalizzazione applicato. Le opzioni di pagamento a Facebook sono comunque diverse: c’è il costo per click, ovvero il pagamento solo se qualcuno interagisce con l’inserzione; il costo per mille, ovvero il pagamento ogni volta che Facebook avrà mostrato la pubblicità a 1000 persone (il più economico); il costo per azione, che dipende da cosa si vuole che gli utenti facciano e il costo per i “mi piace”, che si paga solo quando qualcuno mette un “mi piace” sulla pagina. AdEspresso, una società che si occupa di ottimizzare la pubblicità online, ha effettuato dei calcoli basandosi sui suoi dati del 2015 e del 2016. In media, il costo per clic a marzo 2016 era di circa 28 centesimi, poco più di 30 quella per i “mi piace”, 1,75 dollari per azioni personalizzate, come ad esempio una app installata. Una piattaforma al confine tra il social network e l’agenzia pubblicitaria. D’altronde è la stessa Facebook ad ammetterlo nei suoi rapporti: tra i suoi competitor annovera, infatti, “le aziende che vendono pubblicità”.

La Stampa 28.3.18
La procura di Roma apre un fascicolo su Facebook
Accolto l’esposto presentato dal Codacons in 104 procure e al Garante della privacy sul «possibile coinvolgimento degli utenti italiani nello scandalo»

qui

Il Fatto 28.3.18
Questione morale. La rimozione del Pd fa perdere consensi
di Peter Gomez


Visto che Dio rende ciechi coloro i quali vuole perdere, non solo il Pd, ma quasi tutta la stampa italiana, evita accuratamente di annoverare la questione morale tra le cause del tracollo elettorale dei Dem.
La rimozione del problema, evidente per chiunque abbia osservato la storia recente del partito, ha toccato livelli quasi comici il 23 marzo, giorno di avvio dei lavori delle Camere. Dalla maggior parte dei resoconti giornalistici sul discorso inaugurale a Palazzo Madama dell’ex presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, è stata espunta o nascosta la parte in cui l’ex capo dello Stato ricordava come nel Sud Italia gli elettori avessero “condannato in blocco – anche per i troppi esempi da essi dati di clientelismo e corruzione – i circoli dirigenti e i gruppi da tempo stancamente governanti in quelle regioni”. Il Corriere della Sera, dopo aver per anni considerato Napolitano una sorta di semi Dio a cui si doveva la salvezza del Paese, non dedica nemmeno una riga alle sue parole su clientelismo e corruzione. Stessa linea viene seguita da La Stampa, mentre un po’ meglio fa Repubblica che riporta per intero la frase, pur non segnalandola né nel titolo, né nel sommario dell’articolo.
Ora, se è comprensibile che un partito reduce da una scoppola elettorale senza precedenti, ci metta un po’ ad analizzare le ragioni della sconfitta (anche perché farlo significa discutere i propri quadri e i propri vertici), appare sorprendente che nessuno tra gli osservatori della politica voglia ragionare sul perché tanti cittadini siano disgustati dai comportamenti dei loro rappresentanti. Così, quando prima dell’elezione dei presidenti di Camera e Senato, Forza Italia aveva candidato per Palazzo Madama il pregiudicato per peculato Paolo Romani, sulla stampa italiana era quasi impossibile trovare commentatori che affermassero un principio ovvio: la seconda carica dello Stato non può avere una condanna sulle spalle perché farà perdere ogni autorevolezza all’istituzione che rappresenta. E anzi finirà con la sua sola presenza per buttare benzina sul fuoco (questo sì populista) acceso da chi ripete: intanto sono tutti dei ladri. Un’affermazione falsa, perché in ogni forza politica le persone oneste sono molte, ma che può essere efficacemente contrastata solo se si riscopre il valore dell’esempio. Se, cioè, chi ha l’onore e l’onere di rappresentare gli italiani applica nei confronti di se stesso criteri di selezione più rigidi di quelli richiesti ai semplici cittadini.
Ecco allora perché, a parere di chi scrive, il Partito democratico non può eludere il problema se davvero vuole risalire la china. Nei dem militano migliaia di amministratori perbene che hanno il diritto e il dovere di far sentire la loro voce. In un momento storico in cui la sinistra in Italia non è stata in grado di garantire, per scelta, ma anche per oggettive condizioni economiche avverse, i diritti sociali è un po’ folle (come hanno dimostrato i risultati elettorali) pensare che per avere consenso sia sufficiente battersi per quelli individuali. Il Pd deve invece recuperare una serie di parole d’ordine che un tempo gli appartenevano: antimafia, anticorruzione, legalità e appunto questione morale. Certo, conosciamo l’obiezione: la sinistra anche quando predicava bene, spesso razzolava male. È vero. Ma quei messaggi avevano però la forza di dare un’identità a un popolo. Erano motivo di orgoglio e di vanto per milioni di elettori. Anche per questo, oggi, chi all’interno del Pd ha i requisiti etici per farlo, deve prendere coraggio e parlare.

Il Fatto 28.3.18
“M5S-Lega, prima si tratta e poi si governa assieme”
Gianfranco Pasquino. Il politologo: “Occorre tempo per un accordo”
di Lorenzo Giarelli


“Ci vorrà tempo”. Ma il tempo, in questi casi, aiuta. Cambia gli umori di eletti e elettori, fino a rendere possibili scenari che sembravano irrealizzabili. Ne è sicuro Gianfranco Pasquino, politologo e Professore Emerito di Scienza politica nell’Università di Bologna. Chiuso l’accordo sulle presidenze delle Camere, c’è chi adesso dà per certo un’intesa tra Lega e Movimento 5 Stelle anche per la formazione di un governo.
Professor Pasquino, secondo lei si arriverà a un’intesa?
Le presidenze delle Camere e il governo sono due partite separate, ma il risultato della prima mi fa pensare che Lega e 5 Stelle arrivino alla seconda con qualche vantaggio in più. In questo momento però credo che i giochi non siano fatti. Dovessi dire una percentuale, sarebbe un 50 e 50.
Ma a Salvini e Di Maio converrebbe? Non perderebbero parte del proprio elettorato?
I passaggi di questa trattativa non sono banali, servirà un po’ di tempo. Ma più tempo passa e più sarà facile accettare un accordo. E non dimentichiamo che le basi condividono una forte critica alla politica tradizionale, quella che ha dimenticato parti del Paese che Lega e 5 Stelle hanno saputo intercettare.
In ogni caso Salvini dovrebbe rinunciare a Berlusconi.
Non credo che i 5 Stelle accetterebbero mai di stare con Berlusconi. Se facessero un governo con Forza Italia, gli elettori grillini sarebbero sconvolti, oltre che molto preoccupati. Dopo tutto quello che gli hanno detto in questi anni – spesso a ragione – non se lo possono permettere. Anche perché sono stati determinati per la sua ultima sconfitta politica, con il veto su Paolo Romani alla presidenza del Senato.
Nei programmi di Lega e 5Stelle però ci sono parti poco conciliabili.
Mi sembra che i 5 Stelle abbiano un po’ alzato il piede dall’acceleratore sul tema del reddito di cittadinanza, così come la Lega potrebbe rinunciare alla flat tax. Una discriminante sarebbe il tema dell’Europa: se il Movimento accettasse una linea più sovranista, dovremmo aspettarci una reazione da parte degli organismi internazionali. A questo si collega la gestione dell’immigrazione, su cui comunque i 5 stelle mi sembrano più malleabili rispetto a Salvini. Detto questo, è evidente che un programma comune nasca dai negoziati: sforbiciate, copia incolla, compromessi.
Entrambi i leader dovrebbero rinunciare a fare il premier?
Salvini credo abbia meno problemi. Di Maio alla fine potrebbe anche farsi da parte, condividendo la scelta di una terza persona con il leghista.
Ci sono alternative, se non il ritorno al voto?
No, se il Partito democratico rimarrà ancora seduto sulla riva del fiume ad aspettare. I cadaveri dei nemici non stanno passando: passano soltanto gli elettori che chiedono conto di questo immobilismo.
I dem sperano che Lega e M5S vadano a sbattere.
Mi pare difficile che si schiantino, perché l’intesa potrebbe anche non valere per tutta la legislatura e non è detto che gli elettori valutino in maniera negativa quanto faranno Lega e 5 Stelle. Il Pd fa opposizione a un governo che non esiste. Forse sperano che durante le consultazioni possano tornare in gioco, sempre che allora siano ancora vivi. Non è vero, come continuano a ripetere i dem, che gli elettori li hanno mandati all’ opposizione: gli elettori hanno bocciato gli ultimi governi.
Occorre superare Renzi?
Anche in questo caso serve tempo, anche perché gran parte del partito è lì grazie a Renzi e ancora non se la sente di mollarlo. Non credo manchino le persone capaci di prendere in mano il cambiamento, manca solo un po’ di coraggio.

Il Fatto 28.3.18
Marescotti: “Governo coi leghisti? Verranno inseguiti coi forconi”


“Adessose il M5s, in nome della governabilità, dice di andare al governo con chiunque ci sta, è finita; noi, che siamo milioni della sinistra ad aver votato i 5 Stelle, se fanno un’alleanza con la Lega, verranno inseguiti coi forconi, perché in questo modo tradirebbero ciò che hanno promesso in campagna elettorale”. Così a L’Aria che Tira(La7) l’attore Ivano Marescotti commenta l’andamento delle trattative per la formazione del nuovo governo. Poi sottolinea: “Non ci sarà un governo Lega-M5s secondo me, da ora in poi continueremo a stare in campagna elettorale, perché c’è la possibilità che da qui a qualche mese, se non al massimo tra un anno, si andrà nuovamente al voto e quale dei tre partiti in lizza ha il coraggio di mettersi in crisi ora, facendo delle scelte sbagliate e perdendo il proprio elettorato? L’elettorato, invece, va conquistato, perché siamo ancora in campagna elettorale”. L’attore, infine, si pronuncia sulla nuova presidente del Senato,Maria Elisabetta Alberti Casellati: “Non parlo sul piano personale, ma di ciò che rappresenta la figura politica di questa Casellati Serbelloni Vien dal Mare: una cosa orrenda e schifosa, perché è il berlusconismo puro”.

Repubblica 28.3.18
Il reddito di cittadinanza
Quei poveri dimenticati
di Chiara Saraceno


Il compromesso offerto da Salvini a Di Maio sulla questione del sostegno al reddito per convincerlo a fare il governo insieme ha il merito di far uscire il reddito di cittadinanza del M5S dalla nebulosa in cui è stato intenzionalmente tenuto in campagna elettorale sia dai suoi nemici sia dal M5S stesso. La proposta di Salvini di istituire un reddito di accompagnamento al lavoro per un massimo di tre anni, infatti, non è sostanzialmente molto diversa da ciò che i 5 Stelle chiamano impropriamente reddito di cittadinanza, salvo che per la durata fissa. Anche la proposta M5S riguarda un reddito destinato ai disoccupati che vivono in famiglie povere, purché si attivino per la ricerca del lavoro, con l’ulteriore vincolo che, dopo aver rifiutato tre proposte “non congrue”, devono accettare qualsiasi lavoro loro offerto, anche se largamente al di sotto delle loro qualifiche.
Entrambe le proposte, quindi, richiedono di “ attivarsi” per cercare lavoro. Inoltre non guardano a tutti i poveri, ma solo ai disoccupati poveri, ignorando che si può vivere in una famiglia in povertà assoluta, non solo relativa, anche avendo una occupazione, se questa è pagata poco e/o precaria e se il reddito che ne deriva è l’unico in famiglia. Sembrano anche considerare l’accesso a una occupazione facilmente attuabile da persone che spesso sono a bassa qualifica, o non hanno le caratteristiche richieste da un mercato del lavoro che non ha ancora recuperato tutta l’occupazione perduta dalla crisi e mai la recupererà, almeno non dello stesso tipo.
Nel migliore dei casi, per recuperare, o rafforzare, la propria “ occupabilità” queste persone hanno bisogno di tempo e servizi formativi seri, non solo di agenzie del lavoro, peraltro tutte da riorganizzare. Se donne con pesanti carichi famigliari (bambini piccoli, persone non autosufficienti), poi, hanno anche bisogno di servizi accessibili e di buona qualità. Sempre che i potenziali datori di lavoro non le scartino, appunto perché madri o comunque con responsabilità di cura, cosa che succede molto spesso.
Le domande presentate in questi mesi prima per il Sia e poi per il Rei, il reddito di inclusione che finalmente ha introdotto in Italia una misura universale di contrasto alla povertà, segnalano quanto complessi possano essere i bisogni dei più poveri e quanto sia necessario un intervento integrato, di cui le agenzie del lavoro possono essere un attore importante, ma non l’unico.
Sarebbe quindi importante capire che cosa MS5 e Lega intendano fare di questo strumento, che sta muovendo i primi passi e per rivelarsi efficace ha bisogno di tempo, oltre che di risorse aggiuntive. Vogliono sostituirlo con il loro, gettando via il paziente lavoro che ha portato alla sua approvazione sotto la spinta dell’azione di molti attori della società civile e che ora vede impegnati gli enti locali e l’Inps in una complessa opera di riorganizzazione e di messa in rete di soggetti diversi? Lasciarlo vivacchiare destinando nuove risorse al loro strumento, secondo la tradizione italiana per cui l’innovazione sociale non riesce mai a giungere a maturazione e a fare sistema, ma diventa un frammento più o meno provvisorio?
Sarebbe invece auspicabile che destinassero parte delle risorse aggiuntive che vorrebbero impegnare per le loro proposte a rafforzare il Rei, perché diventi davvero una misura universalistica destinata a tutti i poveri assoluti e perché, oltre a un sostegno al reddito più adeguato dell’attuale, riesca a offrire anche le previste e necessarie risorse di integrazione sociale, tra cui l’accompagnamento al lavoro di chi è effettivamente occupabile. Sarebbe una soluzione meno costosa delle due proposte di cui si discute, ma più ragionevole e completa.

La Stampa 28.3.18
Evasione fiscale: punto debole di Lega e 5stelle
di Stefano Lepri


Su come meglio abbassare le tasse, Lega e M5S in campagna elettorale sono apparsi distanti. Ma per altri versi quanto al fisco sono vicini. Entrambi intendono demolire parecchi strumenti esistenti per la lotta all’evasione. In altri momenti, le frasi pronunciate ieri da Padoan a un convegno della Guardia di Finanza sarebbero state classificate come retorica di rito da parte di chi occupa quella carica: occorre «respingere ogni tolleranza verso l’evasione fiscale» poiché «il rispetto delle regole aiuta ad accrescere la fiducia reciproca fra
Stato e cittadini».
Non così ora. Cinque Stelle e Lega concordano nel dichiarare indulgenza verso quella che chiamano «evasione di necessità». Il fenomeno certo esiste: sappiamo che se per magia tutti cominciassero a pagare per intero quanto dovuto, con le aliquote fiscali attuali molte piccole imprese chiuderebbero.
Se tuttavia si abbandona ogni tentativo di cambiare, il sistema Italia sarà sempre più frenato dalla concorrenza sleale che l’impresa truffaldina fa all’impresa efficiente; e non ci sarà spazio sufficiente per ridurre le aliquote a beneficio di ognuno.
Qui si vede il limite vero del populismo, che riassume in slogan rabbie disparate, senza cercare di capire come i divergenti interessi dei cittadini possano essere conciliati. Il giusto desiderio comune di pagare meno tasse non può essere soddisfatto se troppi vengono lasciati liberi di pagarne meno per conto proprio.
Con il concetto di «evasione di necessità» la Lega giustifica la proposta di un nuovo condono fiscale. Nella passata legislatura il M5S se ne indignava, adesso non è chiaro. Vengono ugualmente incontro all’evasione altre misure previste da Luigi Di Maio e soci.
Al quinto tra i 20 punti sintetici del programma grillino si legge: «Abolizione reale degli studi di settore, dello split payment, dello spesometro e di Equitalia». E subito dopo: «Inversione dell’onere della prova, il cittadino è onesto fino a prova contraria».
A parole suona bene. Ma, senza entrare nei dettagli, la cosiddetta inversione renderebbe difficilissimo combattere la pratica delle fatture false, strumento principale con il quale si evade l’Iva più che in ogni altro Paese europeo.
Gli «studi di settore», parametri di ricavi che commercianti e piccoli imprenditori non amano, spariranno comunque dal 2019, sostituiti da «indicatori sintetici di affidabilità». Studiati d’intesa con le categorie interessate, a partire dalla Confcommercio, premieranno chi si comporta meglio invece di punire chi non si conforma. La Lega boccia anche questi rifiutando «ogni forma di pagella».
Lo «split payment», in italiano scissione dei pagamenti, significa che le pubbliche amministrazioni quando comprano qualcosa non pagano l’Iva, la trattengono per versarla direttamente al fisco. Esteso per gradi, ha eliminato due miliardi di euro di evasione nel 2015 e nel 2016, un miliardo ancora nel 2017; nel bilancio 2018 dovrebbe fruttare altri 1,5 miliardi netti.
Il guaio è che a vendere beni o servizi allo Stato si finisce così in credito di imposta, e spesso il rimborso tarda. Sarebbe il caso di concentrarsi su questo grave inconveniente, piuttosto che buttare via tutto e trovarsi un buco grosso nel gettito. Anche la Lega vuole porre fine allo split payment, benché usi una formula meno chiara.
Insomma si rischia di danneggiare la maggioranza dei contribuenti per soddisfare una minoranza che strilla. Ma non era proprio per protestare contro questo andazzo che gli elettori hanno mutato le loro scelte in modo drastico?

Il Fatto 28.3.18
Calenda e il suono muto che fa il potere quando se ne va
di Marco Palombi


Erano giorni che convivevamo con un senso di vuoto, una strana nostalgia sotto lo scorrere delle ore. Solo ieri, leggendo il Corriere, ne abbiamo compreso il motivo: ci mancava Calenda. Il ministro ha voluto però confortarci con un’intervista che è la summa dello stato intellettualmente comatoso della soi-disant classe dirigente italiana: il vincolo esterno come religione (“dobbiamo fare una manovra che porta il deficit allo 0,9% nel 2019”) e manganello (“chi non sta alle regole, si mette fuori dalla costruzione europea”); una passione eccessiva per il project fear (“se l’Europa entra in tensione, un attacco sull’Italia può partire rapidamente”); una sostanziale rimozione della realtà (“i governi del Pd hanno affrontato bene i problemi e la difesa dei deboli… ma hanno dato poca legittimità alle paure”). Il vero tesoro di quel testo è, però, il lato umano. Dice Calenda della sua vita nel Pd: “Mi sono iscritto, ho fatto due riunioni in sezione e presenziato alla direzione. Fine”. E il reggente Martina non chiama? “Non ultimamente”. Questo ci ricorda un vecchio aneddoto. Un romanissimo cronista in pensione va a trovare l’altrettanto pensionato altissimo dirigente d’azienda, che ha aperto una sua piccola società. Il manager parla con entusiasmo del nuovo lavoro finché la conversazione si spegne. Il cronista guarda l’imprenditore, poi il telefono sul tavolo: “Non te sòna più, eh?”. E s’intende che il telefono muto è il suono che fa il potere quando se n’è andato. Questo di norma, quando non chiama nemmeno Martina è peggio.

Il Fatto 28.3.18
David Rossi. La verità è lontana, troppe nebbie attorno alla Procura di Siena
di Davide Vecchi


C’è qualcosa di tragico e inquietante nell’aria. Qualcosa che si poteva supporre, ma quando il pensiero assume concretezza, la realtà si manifesta in tutta la sua drammaticità. Forse sto esagerando, ma ciò che è emerso dall’inchiesta de Le Iene sul Monte dei Paschi di Siena, se è tutto vero, mette in evidenza quanto labile sia la tenuta democratica nel nostro Paese. Banchieri, politici, magistrati e preti accomunati da cene e festini a luci rosse. I poteri forti reciprocamente ricattabili! Se non si farà veramente chiarezza, allora il nostro futuro non sarà che il buio.
Salvatore Lolicato

Credo che mai si arriverà a individuare la verità su quanto accaduto a David Rossi. Ma credo si possa scoprire perché è accaduto e per quali motivi è stata negata la scoperta della verità. La Procura di Siena dovrebbe essere la prima a impegnarsi, per allontanare le ombre che ormai l’hanno abbuiata.
Oggi sappiamo che nelle indagini iniziali condotte dai magistrati, Nicola Marini e Aldo Natalini, ci sono numerose lacune. Testimoni importanti mai sentiti, oggetti e reperti mai sequestrati, prove fondamentali distrutte senza neppure essere analizzate, come i fazzoletti sporchi di sangue trovati nell’ufficio di Rossi. Sappiamo che i due decreti di archiviazione emessi da due diversi Gip contengono errori. Nel primo è sbagliata persino l’ora del decesso di Rossi, nella seconda vengono indicati testimoni mai neppure convocati.
Per quale motivo ci sono tante carenze? Va ricordato che i pm non volevano compiere neppure l’autopsia, poi svolta per le insistenze della moglie di Ranieri, fratello di David. E che nel luglio 2013, pochi mesi dopo la morte di Rossi, hanno rivolto le loro attenzioni alla vedova del manager, Antonella Tognazzi, indagandola e portandola a processo, poi assolta con formula piena nel gennaio 2018. Rileggere tutti i passaggi dopo aver visto l’ultimo servizio de “Le Iene” fa nascere pesanti e indicibili dubbi sull’operato della procura e sulla giustizia.
Spesso l’uso di fonti anonime è criticabile, ma il ragazzo intervistato domenica fornisce elementi precisi ora al vaglio dei magistrati di Genova che in poche settimane potranno certificare se quanto raccontato ha riscontri o meno. Se li avesse sapremo che i controllori frequentavano i controllati e pure se sono ricattabili o già ricattati. Se questa sorta di “loggia” o “cupola” descritta da “Le Iene” prendesse forma e concretezza vi si potrebbero trovare anche i motivi per i quali David ha incrociato la morte.

Il Fatto 28.3.18
La lingua morta degli slogan
Andrea Marcolongo, La misura eroica (Mondadori 2018)
di Filippomaria Pontani


Nel declino del renzismo non è male ricordare quale sia stata la sua cifra culturale, fatta di slogan “pop” giovanilisti e di stucchevoli citazioni orecchiate da Wikipedia. Soccorre all’uopo il nuovo libro di Andrea Marcolongo, La misura eroica (Mondadori 2018), implicitamente connesso alla passata attività dell’autrice come ghost writer dell’ex segretario Pd, ma dedicato nuovamente – come il precedente La lingua geniale, volumetto fortunato quanto pieno di superficialità – a un tema arduo e affascinante: il mondo greco.
Il libro è costruito come una successione di omelie: ogni capitolo parte da un episodio delle Argonautiche di Apollonio Rodio, poema epico del III secolo avanti Cristo che racconta il mitico viaggio di Giasone e compagni in Colchide (l’odierna Georgia) alla conquista del vello d’oro: come gli esegeti medievali di Omero o di Ovidio, dopo un breve riassunto del passo con qualche citazione l’autrice procede a trarne una morale relativa al mondo di oggi, quasi sempre lontana dal testo e legata a proprie esperienze biografiche (tatuaggi, disagi adolescenziali, velleità artistiche, lutti privati, viaggi, amori ecc.). L’aspetto esortatorio riguarda anzitutto la ricerca della felicità, che consiste via via nell’“essere se stessi” (anziché nascondersi), nel “superare se stessi” (anziché crogiolarsi), nella “voglia di cambiare” (anziché tirare avanti), nel “saper nuotare” (anziché stare a galla), nell’“inciampare e rialzarsi”, e così via. Fioccano gli slogan lapidari del tipo “il futuro è alle nostre spalle”, “il miglior modo per essere pronto alla realtà è usare la fantasia”, “la libertà è un viaggio che dobbiamo compiere“, “misurare se stessi per diventare grandi”, “in questo viaggio sei semplicemente tu”, “lo spettacolo che ognuno di noi è”, “eroe è chi decide la sua vita”, che – talora abbinati a perle da Saint-Exupéry, Wittgenstein, Proust – sembrano tratti da un tema di quinta ginnasio, da una canzone di Jovanotti o dai muri di una Leopolda. Obiettivi polemici delle omelie sono la superficialità dei social, i reality show, la politica senza visione, la paura di lanciarsi nel futuro, i limiti e i confini, l’assenza di limiti e valori, i maestri che castrano, i genitori che opprimono, l’ansia da prestazione, i misoneisti che odiano la tecnologia…
In questo imbarazzante precipitato di luoghi comuni in stile Che tempo che fa, privo dell’ombra di un’analisi o di una riflessione critica, la Marcolongo usa il mito antico come un pretesto, creando una triplice confusione: da una parte, dà a intendere che il viaggio degli Argonauti sia mosso anzitutto dall’eros, che l’“eroismo” di Giasone – già di suo così poco rappresentativo dell’epica greca anteriore – abbia a che fare con l’amore privato e con la realizzazione del sé – una forzatura che nemmeno Sainte-Beuve osò avanzare; d’altro canto, tratta “i Greci” come un mondo indistinto e sublime in cui tutti predicano e praticano la misura, l’equilibrio e la saggezza, una visione marmorea e semplificatoria dell’antico che si sperava sepolta per sempre; infine, l’autrice corrobora i propri voli pindarici tramite varie etimologie, talora fraintese, talaltra erronee: i ragazzi che leggeranno il libro apprenderanno che “metafora” significa “passare attraverso” (semmai “trasferire”), che “eroe” deriva da “eros” (lo diceva per gioco Platone nel Cratilo, ma non è assolutamente così), che metron “misura” ha a che fare con “metodo” e con mèdomai “riflettere” (e dunque anche da “Medea”: per carità), che “armonia” ha a che fare con arithmòs “numero” (è solo un’ipotesi); apprenderanno poi che Granico è una città (anziché un fiume), che l’Eros di Apollonio Rodio è lo stesso di Esiodo, che i Greci sono un popolo germanico, e altre amenità.
Apoteosi di una retorica tardoadolescenziale che – come hanno mostrato le urne – non ha incantato nemmeno la generazione cui era primariamente diretta, il libro della Marcolongo esorta a “osare” senza mai scendere nel concreto: schiacciato dall’ego di un’autrice prigioniera dei propri viaggi e delle proprie ambizioni, esso sconta una scrittura sciatta e un’incuria imbarazzante per il maggiore editore italiano.
Da un altro punto di vista, fa torto a un poema ricco e sottile come le Argonautiche, dove il viaggio ha senso non come esperienza solipsistica ma come confronto con lo straniero e il diverso, e dove Giasone è in realtà un eroe inetto e controverso, imbevuto di confronti con i precedenti omerici, e la cui storia d’amore con Medea, lungi dall’essere “eroica”, viene presentata nell’ominosa filigrana del suo sanguinoso esito finale. Chi voglia capire cosa significa rileggere oggi l’antico (con mille, legittime, forzature e pensieri veri e non convenzionali sull’amore, il sapere, la famiglia e la morte), potrà rivolgersi al fresco romanzo Un’Odissea di Daniel Mendelsohn (Einaudi 2018).

il manifesto 28.3.18
Taser, l’elettroshock supera il manganello
La pistola elettrica. Da Milano a Catania, in sei città italiane è iniziata la sperimentazione per polizia e carabinieri. Usata negli Stati uniti soprattutto in strada e in carcere, non è un’alternativa alle armi da fuoco, ma può provocare la morte. Vedi i dati dell'inchiesta Reuters
di Patrizio Gonnella


Il 20 marzo il ministero degli Interni, Direzione anticrimine, ha diramato una circolare diretta a sei questure italiane di grandi città Brindisi, Caserta, Catania, Milano, Padova e Reggio Emilia autorizzandole a una sperimentazione all’uso della pistola Taser.
PARTIAMO DAL NOME. Perché le pistole si chiamano Taser? Taser International Incorporation è un’azienda americana che ha sede a Scottosdale in Arizona e produce per l’appunto le pistole Taser (per la precisione Taser X26 ECD) che non sparano proiettili ma usano l’elettroshock. Con la pistola Taser vengono sparate scariche elettriche. Negli Usa è almeno dal 2000 che la pistola Taser viene usata da polizie locali e statali. Come sempre gli Stati uniti fanno da apripista rispetto all’Europa e all’Italia sulle politiche di sicurezza, anche quelle più ardite.
Prima di tutto va sgomberato il campo da un equivoco interpretativo. Come l’esperienza statunitense e canadese insegna, la pistola Taser non è utilizzata nella pratica di polizia come alternativa meno pericolosa rispetto all’arma da fuoco, bensì come alternativa più incisiva rispetto all’uso di altri mezzi coercitivi come manette o manganelli non elettrificati. Chiunque sia esperto in ordine pubblico o in operazioni di polizia investigativa potrebbe ben confermare come non si userà mica la pistola Taser di fronte a una persona armata che potrebbe sparare (o che ha una pistola in pugno) in occasione di una rapina, di un sequestro, di un’aggressione o per neutralizzare un terrorista che sta per far esplodere una bomba o che sta per uccidere persone a caso per strada. In questo caso la polizia userà armi da fuoco tradizionali. La pistola Taser sarà invece più probabilmente utilizzata per bloccare persone che fanno resistenza non armata, nelle manifestazioni di piazza, preventivamente contro chi si agita o chi protesta scompostamente. Dunque, come detto, è e sarà un’alternativa al manganello e non alla pistola.
SOFFERMIAMOCI ORA sulle analisi medico-scientifiche: dati ma anche documenti istituzionali sull’uso, l’abuso, i danni e i decessi derivati dall’utilizzo della pistola Taser. C’è un lungo dibattito internazionale con prese di posizione da parte di organismi istituzionali sia in sede di Nazioni Unite che di Consiglio d’Europa. E ci sono inchieste di organizzazioni non governative e di grandi agenzie di informazione straniera.
PARTIAMO DA DUE STORIE per capire in quale contesto vengono usate le pistole taser negli Usa. Natasha McKenna, come ci ha raccontato Vice, nel febbraio del 2015, era in carcere in Virginia. Era affetta da schizofrenia e molto magra. Si rifiutava di essere trasferita in altra prigione. I poliziotti incaricati del trasporto non si limitano ad ammanettarla, ma di fronte alla sua resistenza, le sparano quattro scosse elettriche. Muore in ospedale e l’autopsia certifica «un delirio associato alla restrizione fisica con l’utilizzo di dispositivi conduttori di elettricità e il contributo della schizofrenia e del disturbo bipolare». Negli Stati uniti la pistola Taser si usa molto nelle prigioni e nell’ordine pubblico per strada. Nel giugno del 2015 un uomo afro-americano nello Stato di New York muore dopo essere stato colpito con la pistola Taser perché si sarebbe rifiutato, dopo essere andato fuori strada, di uscire dalla sua auto.
Secondo un’indagine condotta da Amnesty International sarebbero stati tra il 2001 e il 2012 più di 500 le persone morte negli Usa a causa dell’uso della pistola Taser. Altri dati li fornisce l’inchiesta dei giornalisti investigativi della Reuters, che hanno letto centinaia di certificati autoptici: dal 2000 (quando la pistola Tasers ha iniziato a essere usata dalla polizia negli Stati uniti) fino al 2017 più di 1.000 persone negli Usa sarebbero morte dopo che la polizia le avrebbe stordite con la pistola Taser.
In 153 di queste morti la pistola Taser ha causato direttamente il decesso o comunque ha contribuito. Nove su dieci persone stordite con la pistola Taser erano non armate e una su quattro soffriva di disturbi mentali o neurologici. Segno che viene usata principalmente con chi a causa dei disturbi psichici reagisce al fermo di polizia. 712 autopsie su oltre 1.000 visionate hanno documentato che c’è stato l’utilizzo della pistola Taser.
L’inchiesta dell’agenzia di stampa britannica è straordinaria. Andrebbe letta e tradotta in italiano. È dell’agosto del 2017. Consigliamo a tutti, compresi coloro che hanno deciso di avviarne la sperimentazione in Italia, di leggerla sul sito della Reuters.
LA PISTOLA ELETTRIFICATA dunque può ammazzare se usata contro persone che hanno pregressi problemi cardiaci o disturbi neurologici. Può essere letale per un bambino che è nel grembo della mamma. E non tutte le gravidanze, soprattutto nei primi mesi, sono visibili. Nessuno o nessuna viaggia per strada con scritto in fronte che è malato di cuore o che è in stato gravidanza.
La stessa azienda produttrice riconosce che esisterebbe un fattore di rischio pari allo 0,25%. E come se su un qualsiasi prodotto farmaceutico ci fosse scritto che ogni 400 persone che lo usano uno di loro rischia la morte. Quell’azienda farmaceutica, se lo scrivesse nel bugiardino, verrebbe messa fuori legge insieme al suo prodotto.
Uno studio dell’American Heart Association, pubblicato sulla rivista medico-scientifica Circulation, ha certificato ben otto morti da uso della pistola Taser X26 ECD. Il dottor Douglas Zipes, dell’Università dell’Indiana (Krannert Institute of Cardiology) afferma che lo shock da Taser può produrre arresto cardiaco.
A questo punto qualcuno potrebbe obiettare: ma cosa rappresentano così pochi morti determinati dalle pistole Taser rispetto al loro massiccio utilizzo quotidiano? Le morti certificate però non sono mica le morti reali, molte restano oscure, le cause non accertate e comunque anche una vita sola merita di essere salvata.
VENIAMO IN BREVE alle obiezioni e alle condanne degli organismi internazionali che si occupano di diritti umani e prevenzione della tortura.
Nel 2014 nel sostenere che vi sia stata una violazione dell’articolo 3 della Convenzione europea che proibisce la tortura determinata dall’uso di pistole con scariche elettriche, nel caso Anzhelo contro Bulgaria la Corte europea cita il Comitato di Strasburgo per la prevenzione della tortura che tra l’altro afferma che l’uso dell’elettroshock potrebbe aprire la porta a risposte sproporzionate. Anche il Comitato Onu contro la Tortura, a proposito del Portogallo che voleva introdurre l’uso delle pistole Taser nella propria legislazione, ha espresso la propria contrarietà per il rischio che l’utilizzo di questi strumenti degeneri in maltrattamenti.
È vero che la circolare si muove nel rispetto della legge 146 del 2014 che introduce la seguente disposizione: «Con decreto del ministro dell’Interno, da adottare entro trenta giorni dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto, l’Amministrazione della pubblica sicurezza avvia, con le necessarie cautele per la salute e l’incolumità pubblica e secondo principi di precauzione e previa intesa con il ministro della Salute, la sperimentazione della pistola elettrica Taser per le esigenze dei propri compiti istituzionali, nei limiti di spesa previsti dal comma 1, lettera a).». Come spesso avviene, lo sport diventa palestra di pratiche repressive che poi travalicano gli obiettivi di partenza.
IN CONCLUSIONE, essendoci concreti rischi mortali, sarebbe bene conoscere se c’è stato un decreto governativo, oltre che una circolare, e se il ministero della Salute ha prodotto una sua indagine. Bene sarebbe conoscere i confini della sperimentazione e come evitare che scariche elettriche colpiscano malati di cuore, bambini, donne incinta. Utile sarebbe anche conoscere i costi di tale operazione. Non sarebbe stato meglio e più utile investire quei soldi in formazione, autovetture e logistica non potenzialmente mortale?

La Stampa 28.3.18
“Chiedi scusa in ginocchio”
Così Bellomo plagiava le allieve
La procura di Piacenza chiede il processo per l’ex magistrato
di Emilio Randacio


Due sono anche finite in un reparto psichiatrico di un ospedale. F.P., 33 anni, c’è rimasta quattro lunghi mesi per cercare di uscire dall’«incubo» di Francesco Bellomo. L’ex giudice del Consiglio di Stato, decaduto con disonore dalla magistratura dopo che un lungo elenco di sue allieve, spesso con fatica, ha fatto emergere la sua reale personalità.

La procura di Piacenza - pm Roberto Fontana ed Emilio Pisante - ha appena inoltrato la richiesta di processo per Bellomo e per il suo braccio destro, il pm della procura di Rovigo, Davide Nalin. Fino a pochi mesi fa, due menti illuminate del diritto italiano. Motori del corso della fondazione barese «Diritto e scienza», per preparare giovani laureati all’esame in magistratura. Atti persecutori - stalking - e lesioni gravissime le accuse contro i due imputati. Ma, soprattutto, centinaia di pagine di verbali in cui si ripercorrono le violenze psicologiche subite per ottenere un posto da borsista nei corsi e il privilegio di frequentare il professore nel suo tempo libero. «Principio di gerarchia», descrivono gli atteggiamenti di Bellomo i pm piacentini, con «un obbligo di reperibilità istantanea» da parte delle borsiste. Tutte appariscente laureate con il massimo dei voti, tutte risucchiate nel vortice Bellomo - secondo questo canovaccio -, che ordinava look con cui presentarsi a lezione, «con immagine esteriore adeguata» -, o con gonne sopra il ginocchio, e con l’incipit che «la borsista decade automaticamente non appena contrae matrimonio».
Sono state otto le donne sentite a Piacenza, nell’inchiesta appena conclusa e affidata alla squadra mobile. Oggi fanno i magistrati, i funzionari pubblici, gli avvocati in grandi studi. Tutte raccontano che di fronte a un rifiuto a una serata, o ad adeguare il proprio look, Bellomo minacciava la loro «espulsione dal corso», ma anche di scrivere sulla rivista on line le esperienza delle borsiste, comprese quelle sessuali. Perchè Bellomo, «nei suoi discorsi esponeva teorie sull’agente superiore, sulla necessità di selezionare una classe di giuristi completi a 360 gradi, sulla necessaria selettività dei rapporti, sulla superiorità del principio gerarchico». Ed ecco che gran parte di queste studentesse di Diritto e Scienza, dovevano raccontare - prima di ricevere un invito a cena dal professore - delle proprie esperienza intime, subire un giudizio, magari vedersi pubblicate quelle confessioni su una rivista scientifica con nome e cognome.
Nell’autunno 2016, a fare scattare la prima denuncia contro l’ex enfant prodige del diritto, Francesco Bellomo , è un imprenditore piacentino. Davanti ai pm, il 30 marzo 2016, l’uomo racconta il suo dramma. Il 21 ottobre precedente, di fronte alle continue richieste di Bellomo, di incontri, alle denunce di presunte inadempienze contrattuali con il corso di Diritto e Scienza, la presentazione dei carabinieri a casa con ingiunzioni, sua figlia crolla. «In quei giorni era terrorizzata e tremante come una foglia al punto di farmi temere un gesto estremo». Non erano timori infondati. Il 15 novembre, la ragazza «subisce un ricovero urgente e immediato». Prima in ospedale, poi in una clinica psichiatrica. Il 13 dicembre «la scuola Diritto e Scienza di Bari, promuove anche una causa di risarcimento danni, in cui si chiede che mia figlia torni a fare la borsista sotto gli ordini di Bellomo». La ragazza - per questo l’inchiesta ha rallentato il suo corso - rimarrà ricoverata per mesi. E, come lei, altre ex «corsiste», hanno rischiato la stessa sorte. Tra i verbali allegati all’inchiesta, il racconto di un’altra donna, che aveva annunciato di non voler più proseguire i rapporti con l’ex giudice. «Bellomo - è il racconto - mi inviò un messaggio in cui mi diceva che l’unica possibilità per evitare conseguenze era che, una volta che lo avessi raggiunto a Firenze, facessi atto di solenne sottomissione inginocchiandomi e chiedendogli perdono».

Repubblica 28.3.18
Toghe e dress code
“Processate Bellomo” La caduta del giudice che osava l’indicibile
Dopo la rimozione dal Consiglio di Stato i pm chiedono il rinvio a giudizio per stalking
di Liana Milella


ROMA Di se stesso Francesco Bellomo era abituato a dire: «Obiettivamente, io godo di una reputazione altissima. I professori mi danno carta bianca. Stiamo parlando di accademici che hanno ruoli in organismi nazionali e internazionali. Io godo di un’altissima credibilità, quindi c’è una grandissima fiducia nei miei confronti».
Rispondeva così Bellomo, arrogante e infastidito, alle domande di Giuseppe Conte che il primo agosto 2017 conduceva a Palazzo Spada il giudizio disciplinare contro di lui.
Ma da ieri, l’immagine e le abitudini dell’ex magistrato sono definitivamente consegnate a tutt’altre testimonianze.
Confermano l’inchiesta del Consiglio di Stato che ha portato alla sua destituzione. Sono contenute nel voluminoso dossier di interrogatori e rivelazioni che i pm di Piacenza Roberto Fontana ed Emilio Pisante hanno appena depositato con una richiesta di rinvio a giudizio per due reati pesanti, stalking e lesioni dolose. La vittima di Bellomo era Francesca P., la studentessa di “Diritto e scienza” — la scuola di formazione alla magistratura diretta da Bellomo — giunta a pesare 42 chili per le pressioni dell’ex magistrato, e che il padre Antonio ha salvato con la sua denuncia al Consiglio di Stato.
Un amante seriale
Decine di ragazze interrogate, storie di oppressione e di sesso che, senza che nessuno ne denunciasse l’esistenza anche se tutti sapevano, sono proseguite per oltre dieci anni. Verbali raccolti non solo dalla procura di Piacenza con la squadra mobile, ma anche da quelle di Milano e di Bari, il film di giovani laureati che pur di ottenere una borsa di studio e un contratto da Bellomo hanno accettato le sue ripetitive avances. Racconta ai magistrati Francesca P., finita in ospedale per le violenze di Bellomo: «Mi parla di lui, mi dice che generalmente ha dieci fidanzate.
Anzi, non dieci fidanzate, dieci donne, perché quando una viene messa sotto pressione cade, e allora ce ne dev’essere un’altra pronta, perché non tutte sono attive. Mi fa leggere dei messaggi personali amorosi. Io sto zitta e ascolto e mi dico “Sarò scema io a non capire la rilevanza scientifica di questo argomento…”». La teoria di Bellomo, quella dell’agente superiore. Che condivideva con il suo factotum e braccio destro, il pm di Rovigo Davide Nalin, sospeso dal Csm, su cui pesa adesso la medesima richiesta di rinvio a giudizio.
Con lui si sentiva al sicuro
Dice così, a se stessa e a sua madre, Francesca P. quando la storia con Bellomo invade la sua vita. Lui gli impone il famoso dress code — gonna cortissima e tacchi a spillo — e gli manda anche i vestiti in albergo, lei si guarda allo specchio, non si piace affatto, cerca il vestito più corto che ha in casa per raggiungerlo all’hotel, e poi cerca di consolarsi: «Mamma, non preoccuparti, sono con un consigliere di Stato, cosa vuoi che mi succeda?».
Indagini sul passato
Ha paura Fancesca. Ha imparato a conoscere il metodo Bellomo.
Perché il consigliere è abituato a pubblicare le storie con le sue fidanzate sulla rivista della scuola “Diritto e scienza”. Lo ha già fatto con Francesca D., vicenda del 2013, e poi con Emanuela C., una relazione di due anni dopo.
Quest’ultima ha raccontato: «Da ottobre 2015 a novembre 2016 Bellomo ha pubblicato oltre 30 articoli in cui si parlava di me, citandomi con nome e cognome.
Il tono fu di una gravità crescente. Parlava delle mie relazioni sentimentali precedenti aggiungendo particolari sui rapporti sessuali come lui immaginava si fossero verificati».
Tutti sanno, nessuno denuncia
Nelle sedi della scuola “Diritto e scienza”, dove Bellomo vanta, come ha raccontato la testimone Carla Pernice a Piacenza e anche in tv, di applicare la matematica al diritto, tutti leggono la rivista criptata, ma tacciono. Tacciono anche gli alunni nel frattempo divenuti magistrati. Tengono alla loro privacy. Ma ora al processo dovranno esporre, con il loro volto, che cosa accadeva nelle sedi della scuola di Bellomo di Bari, Roma e Milano.
Francesca ha paura
Francesca, vittima di un pesantissimo stalking, ha paura.
Cerca di abbandonare Bellomo. E lui: «Io perdo dieci, tu perdi novanta, nel senso che per te è un’occasione unica nella vita poter stare con me, è un peccato che tu non la sfrutti. Il contratto possiamo scioglierlo». Le chiede di andare a Bari a una festa.
Sembra rabbonirsi. Ma le torture continuano. Si dipinge come un uomo di scienza, ma pretende di conoscere la precedente vita sessuale di Francesca. Poi gliela rivolta contro. «Lì iniziano giornate pesantissime in cui mi insulta ripetutamente, mi dice letteralmente che sono una p… e una t… e altre cose orribili, quasi irripetibili, tipo che se ci fosse un ristorante di sperma io andrei là per degustare queste cose…».
“Io sono superiore”
Pretende le sue foto. «Io sono superiore, quindi con me devi mandare più foto e più estreme».
Interviene Nalin, un pm in carica, ad appoggiare queste pretese.
Francesca cede: «In quel momento mi sento male, non riesco a respirare, sono distrutta, non so più neanche chi sono. Ho rischiato di svenire, di morire, ma lui ha continuato a urlarmi addosso. Ti prego, gli ho detto, non ce la faccio più». Lui, imperterrito: «Se non confessi, tutta la nostra ricostruzione verrà messa sulla rivista e domani tutta l’Italia saprà che sei una t...».
Chiosa Francesca: «Diceva di parlare per le scienze, perché lui era uno scienziato e tutto quello che diceva era secondo le scienze occidentali, diceva di aver studiato antropologia e sociologia, quindi anche i comportamenti sessuali».
Gli sms di una fidanzata
Di certo, a Bellomo l’abilità non manca. Conserva le prove. Non si fa interrogare a Piacenza, ma consegna un lungo elenco di sms di una sua ex fidanzata del 2011, Silvia Z.: «Appena ti ho visto mi si è aperto il cuore. Stando con te ho imparato a conoscere i miei limiti e i lati negativi. Spero di essere in via di miglioramento.
Tutte le volte che mi rendo conto di deluderti sto malissimo. Ti amo tanto». Il metodo Bellomo contro le donne è tutto qui.

La Stampa 28.3.18
Nella scuola montessoriana di Bankitalia
Abusava delle bimbe dell’asilo
Arrestato il maestro d’inglese
di Edoardo Izzo


Gravissimi episodi di pedofilia, se non veri e propri stupri, si sono consumati nella scuola materna «Casa dei bambini», quella dove vanno i figli dei dipendenti di Bankitalia. J. T., 25 anni, maestro di inglese, è stato arrestato dai carabinieri del nucleo investigativo del Comando provinciale di Roma con l’accusa di violenza sessuale aggravata nei confronti di almeno dieci bambine di età compresa tra 3 e 5 anni.
Le prove a carico dell’insegnante - che aveva preso in Thailandia l’abilitazione all’insegnamento dell’inglese ai bambini - sono inequivocabili: è stato immortalato in atteggiamenti intimi con le sue alunne, dalle telecamere messe nelle aule a seguito delle denunce dei genitori, preoccupati di quanto raccontavano le bimbe al rientro da scuola.
La denuncia dei genitori
Le indagini hanno preso avvio dagli esposti dei preoccupatissimi genitori delle giovani vittime. Da quelle denunce è partita l’inchiesta dei carabinieri, coordinati dalla procura di Roma, che ha permesso di accertare le violenze. Gli abusi sessuali, in particolare, sono avvenuti nel laboratorio di inglese dell’edificio scolastico di Largo Bastia, periferia est della Capitale, dove un tempo Bankitalia stampava le sue banconote.
L’istituto di Bankitalia
La scuola, di ispirazione montessoriana, ospita oggi 150 alunni, figli di dipendenti della prestigiosa istituzione guidata da Ignazio Visco. E proprio il clima di serenità e fiducia che regna in ambienti come quelli collegati a Palazzo Koch avrebbe favorito gli abusi. L’insegnante infatti avrebbe approfittato del clima di fiducia assoluta per toccare nelle parti intime le piccole, una decina di sue allieve.
Il maestro, arrestato una settimana fa, è stato interrogato venerdì scorso dal procuratore aggiunto Maria Monteleone, e dai pm Eleonora Fini e Francesca Passaniti. L’uomo ha comunque provato a giustificarsi, ma le immagini eloquenti delle telecamere hanno reso impossibile la difesa. Per questo il gip di Roma Clementina Forleo ha ritenuto come più idonea la misura del carcere rispetto a quella dei domiciliari che erano stati concessi a J.T. prima dell’interrogatorio di garanzia. E le indagini dei carabinieri andranno avanti. Non si può, infatti, escludere che il giovane maestro possa aver colpito anche in precedenza. Si cerca dunque nel passato dell’insegnante se possano esservi altre ombre, come spesso accade con i pedofili considerati nella maggior parte dei casi «predatori seriali».
I precedenti
L’episodio è molto simile ad un altro avvenuto ad ottobre del 2016. In quell’occasione le vittime, bambine di 4 anni, erano state violentate dal bidello di 57 anni. E anche quella volta, dopo la denuncia dei genitori, la prova degli abusi è stata fornita grazie alle telecamere posizionate dagli inquirenti nell’area giochi della scuola materna di Nuovo Salario.

Repubblica 28.3.8
Ungheria alle urne (con sorpresa)
Orbán, se l’alleato oligarca dei media diventa il nemico
Erano amici per la pelle e alleati in politica, poi la misteriosa rottura ha complicato tutto: adesso Simicska è il vero rivale
di Andrea Tarquini


Erano amici per la pelle dai tempi di scuola, adesso il più ricco dei due ha rotto col più potente e lo sfida, forte del suo impero mediatico, in una guerra senza pietà. Il duello da Mezzogiorno di fuoco ha per teatro l’Ungheria, a meno di due settimane dalle elezioni legislative dell’ 8 aprile. Il popolare premier nazionalconservatore Viktor Orbán affronta la temibile campagna del compagno di studi cresciuto come oligarca alla sua ombra, ma che dal 2014 ha rotto con lui. Lajos Simicska è l’oligarca che inquieta Orbán e la Fidesz, il partito di maggioranza relativa membro dei Popolari europei. E il duello è dall’esito incerto, dopo una vita in cui Simicska – classe 1960, titolo di studi non chiaro – ha voluto restare nell’ombra per meglio costruire il suo sistema di potere.
Fino al 2014 nessuno si sarebbe mai aspettato la clamorosa rottura. Simicska era membro della Fidesz dalla fondazione, ha avuto un ruolo di primo piano nella strategia del partito e nella vittoria del 2010. Assecondato dal governo, ha dato la scalata ai maggiori media, appoggiando la maggioranza. Poi all’improvviso, scatenato da rivalità misteriose, il divorzio. Da allora i media di Simicska non perdono occasione per accusare il governo e la Fidesz di corruzione, malgoverno e abuso di potere. Rilanciano ogni accusa contro la maggioranza. Da quelle delle ngo che aiutano i migranti, che secondo i media dell’oligarca sarebbero state spiate illegalmente dal governo con l’aiuto di servizi stranieri. Fino agli slogan del partito di ultradestra Jobbik, forse il concorrente più temibile di Orbán. Rilanciano persino gli slogan di Jobbik che cerca di mettersi in doppiopetto come leader delle opposizioni: « Tu lavori, loro rubano » , o « Loro sono la paura, noi la speranza » . Nei sondaggi Orbán resta favorito, ma la sfida di Simicska potrebbe costargli la maggioranza utile per nuove riforme costituzionali. Nessuno però esclude che alla fine Simicska possa anche vendere il suo impero editoriale. Magari a gruppi vicini al governo. Da buon self- made man spregiudicato è uso a ricominciare più volte da zero.
Viktor Orbán, primo ministro conservatore ungherese, punta alla rielezione al voto per le legislative in programma per l’8 aprile

Corriere 28.3.18
Mercato, partito, patria: la ricetta di Xi per la Cina
di Francesco Maria Greco


Le recenti modifiche costituzionali cinesi, approvate per acclamazione parlamentare, consentono a Xi Jinping — capo dello Stato, del partito e della commissione militare — di prolungare indefinitamente il suo mandato e sono il punto di arrivo di un percorso avviato sin dalla sua non facile nomina nel 2012 e la prosecuzione del programma di rinascimento «per porre la Cina nella posizione internazionale che le spetta». Sarebbe semplicistico ridurre l’unanime consenso a una fulminea congiura: Xi ha dovuto conquistare il pieno controllo del partito con un processo lungo e travagliato di cui è stata parte anche la campagna anti corruzione.
Un esperto di cose asiatiche paragonava il Partito comunista cinese alla vecchia Democrazia cristiana: pieno di correnti interne, ma capace di mediare fra interessi regionali e funzionali. La cultura politica cinese, infatti, non si fonda sui valori ma sulla funzionalità. Per questa esigenza pratica e non ideologica Deng liquidò il maoismo e introdusse meccanismi per evitare concentrazione di potere nelle mani del segretario del partito, assicurare un’ordinata transizione e una regolare circolazione delle élite, dare speranza alle nuove generazioni e, soprattutto, creare quelle condizioni di stabilità che consentirono una sorprendente fase di ininterrotta crescita e modernizzazione economica. Secondo Xi, questo assetto non è più funzionale alla nuova missione storica del Paese: per rifare grande la Cina occorre una leadership duratura. La sua visione trascende i due modelli che si sono fronteggiati negli ultimi anni: la Nuova Destra del Guangdong (liberalizzazione economica, più diritti politici) e la Nuova Sinistra di Chongqing (statalismo, lotta alle diseguaglianze sociali) e subordina al sogno cinese di diventare una grande potenza nel 2050 le tre grandi sfide. Quella economica per elevare il reddito medio e ridurre le disparità; quella politica per maggiori diritti e partecipazione della società civile; quella geostrategica per contenere la potenza che storicamente controlla gli sviluppi in Asia (gli Usa del pivot to Asia di Obama).
L’avvento di Xi al potere coincise con una fase di transizione e un acceso dibattito interno: dopo trent’anni di sviluppo economico accelerato, dovuto anche a un esiguo costo del lavoro, si chiedevano aumenti salariali compatibili con una crescita sufficiente a generare nuova occupazione tenuto conto della dinamica demografica. Egli ha pertanto mirato a rafforzare il partito — garante dell’ordine e della disciplina — ponendolo al di sopra dello Stato; ma questa stabilità politica necessaria alla crescita economica va accompagnata da una dimensione geostrategica che crei una Cina forte: da qui l’aumento della spesa militare specie nel campo navale per il controllo del Mar Cinese Meridionale. Un esempio della combinazione di questi aspetti — politici, economici e strategici — è il faraonico progetto della Nuova Via della Seta. E lo Xi-pensiero tende anche a forgiare una nuova identità nazionale: cosa vuol dire essere cinesi nel XXI secolo: aver scoperto il mercato e l’originale «capitalismo di Stato»; rispolverare i valori etico-culturali del confucianesimo; sacralizzare l’ideologia del par-tito come unico contrasto a tendenze centrifughe in un Paese così vasto e complesso; ravvivare il collante del nazionalismo? La risposta di Xi è di fare della Cina una nazione innovatrice come prevede, ad esempio, il progetto «Made in China 2025».
Quando si commenta qualsiasi novità cinese si cade nell’eterno dilemma fra sino-ottimisti e sino-pessimisti. Gli uni vedono un sistema sempre più opaco e draconiano, una subdola aggressività economica e un imperialismo oggi regionale domani planetario. Gli altri pensano che l’accentramento di potere comporti una maggiore stabilità e una Cina più assertiva ma meno aggressiva. Se a questo aggiungiamo che il ruolo del Paese in Asia dipenderà molto dalla concorrente politica americana — mai indecifrabile come oggi — si comprende come sia difficile fare previsioni univoche o esprimere giudizi definitivi.

La Stampa 28.3.18
“Cambiare l’Islam è possibile. Saranno le donne a farlo”
”Negli ultimi dieci anni cinquanta milioni sono entrate nel mondo del lavoro. Questo è più che una rivoluzione”
Saadia Zahidi, pachistana è responsabile della sezione Istruzione, Genere e Lavoro del World Economic Forum
di Francesca Paci


Cherchez la femme», incalzavano i media nel 2011, quando raccontando le primavere arabe tastavano con la partecipazione femminile la maturità delle piazze in rivolta. Le donne c’erano a Tahrir, ce n’erano tante a Tunisi, Bengasi, Manama, Sana’a e perfino a Dara’a, nella remota Siria. Ma secondo l’economista pakistana Saadia Zahidi, responsabile della sezione Istruzione, Genere e Lavoro del World Economic Forum, molte più di quante ne incontrassimo in corteo 7 anni fa guidavano allora, e già da tempo, una trasformazione economica forse meno rivoluzionaria ma radicale. Nel saggio Fifty Million Rising Zahidi mette a fuoco il cambio di stagione che dal 2000 in poi ha visto 50 milioni di donne musulmane entrare nel mondo del lavoro: una forza tranquilla, spiega, destinata a modificare socialmente e politicamente la umma, la grande famiglia del Profeta..
Quando inizia l’onda rosa?
«Il processo comincia negli anni duemila ma nell’ultimo decennio almeno 50 milioni di donne delle 30 maggiori economie musulmane sono entrate nel mondo del lavoro. Una cifra piccola se si pensa ai 450 milioni di donne in età lavorativa, che però rappresenta un incremento del 50% e che soprattutto fa emergere donne con titoli di studio superiori rispetto al passato».
Che ruolo hanno avuto internet e le nuove tecnologie?
«Importante, ma è anche vero che l’accesso alle nuove tecnologie si è combinato con una migliore educazione. C’è poi una chiave di lettura economica: nel mondo musulmano, come altrove, la famiglia monoreddito non basta più e la grande disponibilità d’informazioni fornisce modelli alternativi con la donna che lavora fuori o dentro casa».
Ha incontrato centinaia di donne di diversi Paesi: c’è un comune denominatore tra loro oppure si battono per la stessa cosa ma ciascuna a suo modo?
«Molte delle mie interlocutrici erano sorprese e contente di far parte di un quadro più grande, ne ignoravano l’esistenza. Altre invece erano più consapevoli dei cambiamenti interni alla loro comunità».
Ha intervistato anche delle teologhe. La religione in generale e l’Islam in particolare è un ostacolo all’avanzata delle donne?
«Per troppo tempo la religione è stata usata contro le donne, ora però sono loro a cercare l’interpretazione dei testi sacri, molte intraprendono studi coranici. L’Islam incoraggia a pregare e lavorare tanto l’uomo che la donna. Ci sono poi alcune che trovano l’imput ad una attiva partecipazione femminile nell’Islam stesso, in Khadija, prima moglie di Maometto e imprenditrice».
La rivoluzione si compie anche tra le pareti domestiche?
«Ciò che ancora fatica a cambiare è l’idea della donna deputata alla cura della casa. Ma anche qui qualcosa si muove, aumenta la libertà di scegliere come occuparsi della routine, magari assumendo altre donne. Ci sono poi rari ma significativi casi di uomini che condividono i doveri domestici».
Da dove vengono i pregiudizi occidentali verso le donne musulmane, dal passato coloniale, dal presente segnato dal terrorismo, dal futuro incerto?
«Credo da un po’ di tutto. Negli ultimi decenni le donne musulmane non sono state molto protagoniste delle piazze come le americane e le europee negli Anni 60. Ora è diverso, ma il loro impegno coincide con l’esasperata attenzione dei media per l’Islam estremista e ultra conservatore. In realtà la situazione è così fluida che nella stessa famiglia si può trovare hijab e minigonna».
Le donne musulmane sono consapevoli che il loro potere economico può, potenzialmente, diventare politico?
«Per ora lo sforzo è tutto sul piano del lavoro: i mutamenti sociali e politici seguiranno. Quando le donne saranno a pieno imprenditrici, consumatrici, elettrici, il loro riconoscimento sarà automatico».
L’indipendenza economica femminile accelererà la democratizzazione della umma?
«L’occidente ci guarda e pensa alla rivoluzione ma io non credo che sia necessaria. Nel mondo musulmano potrebbe essere addirittura negativa, ci sono uomini che sarebbero fieri delle loro donne emancipate e altri che reagirebbero male, soprattutto i giovani. Meglio cambiare gradualmente. La democrazia verrà: alcuni Paesi sono già democratici, negli altri lo studio e il lavoro avranno effetti positivi anche solo per il fatto di mostrare alla gente che si può cambiare».
L’Arabia Saudita del futuro sarà un Paese anche per donne?
«Il piano del principe Mohammed bin Salman è ambizioso, è un buon inizio. Non si può diversificare l’economia senza l’aiuto dei laureati e negli ultimi dieci anni si sono laureate molte più donne che uomini».

il manifesto 28.3.18
Il dio Bacco trionfa a Spello
Archeologia. Un nuovo museo, con tanto di esperienza «immersiva» nella vita di 2000 anni fa, in omaggio alla Villa dei Mosaici
di Valentina Porcheddu


Nell’estate del 2005, appena oltre le mura di Spello in località Sant’Anna, affiorò – dalla terra rimestata per costruire un parcheggio pubblico – il lacerto di un mosaico antico: nodi di salomone, trecce e un ottagono centrale abbellito da un sole ancora splendente, i cui raggi danno origine a infiorescenze e animali palustri. Era il principio della straordinaria scoperta di una villa romana, che sabato scorso è stata consegnata allo stupore della comunità con l’inaugurazione di un museo dal pensiero bucolico.
I LAVORI DI SCAVO e restauro, condotti in sinergia dal Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo, Regione Umbria e Comune di Spello hanno permesso di riportare alla luce un complesso monumentale di circa cinquecento metri quadri, in cui si distinguono due fasi costruttive: la prima situata in età augustea (27 a.C.-14 d.C.), la successiva tra II e III secolo d.C.
La Villa dei Mosaici di Spello – la romana Hispellum, elevata da Augusto a Splendidissima Colonia Iulia – si trovava lungo un ramo secondario della via Flaminia che, attraversando l’Umbria, collegava Roma a Rimini. Dei venti ambienti individuati, la metà conservano mosaici policromi di grande impatto, con motivi geometrici e figurati. Intorno al cortile porticato che circondava il giardino interno (peristilio) si aprono una serie di stanze, tra le quali spicca una sontuosa sala per banchetti (triclinio) decorata da un mosaico con le personificazioni delle Stagioni, a loro volta associate al corteo dionisiaco e al trionfo del dio del vino, Bacco: l’eleganza del disegno e la resa cromatica testimoniano l’alta qualità tecnica degli artigiani, provenienti verosimilmente da Roma per rispondere ai gusti di un committente dallo status sociale privilegiato.
Il progetto architettonico, realizzato dallo Studio Alfio Barabani Architects (Tordibetto di Assisi – Perugia), ha restituito una struttura armonicamente integrata nel paesaggio. Sopra la villa si stende il piano di campagna del vigneto confinante mentre la copertura in legno lamellare presenta la sagoma di tre onde con andamento sfalsato e un prato ad essenze. Le pareti dell’edificio, rivestite in rame e calcestruzzo pigmentato, riproducono le tonalità di colore delle murature in pietra del centro storico di Spello.
È STATA PROPRIO LA VISTA sul borgo medievale, con la cinta muraria, la torre e la guglia di un campanile ad aver suscitato negli architetti l’idea di creare uno spazio che, contenendo frammenti di Storia, tenesse gli occhi aperti sulla città. Sensori (beacon) affiancati alle stanze più importanti offrono inoltre al visitatore l’opportunità di accedere gratuitamente a contenuti multimediali e ricostruzioni 3D, tra cui una vera e propria esperienza «immersiva» nella vita di 2000 anni fa. Insomma, secondo Marcello Barbanera, docente di archeologia classica presso l’università La Sapienza di Roma e consulente scientifico del Comune di Spello, la Villa Romana dei Mosaici è un luogo finalmente adeguato alle esigenze della «generazione Google». Citando Le città invisibili di Italo Calvino, Barbanera auspica che quest’originale museo costruito sulle rovine del passato, possa conciliare «ricordi, desideri e paure» delle varie componenti della società civile, instillando il rispetto per il patrimonio soprattutto nei più giovani, «futuro in embrione» e speranza di un paese migliore.

Repubblica 28.3.18
Archeologia
Geo-alpinisti dall’Italia al Siq “Proteggiamo il cuore di Petra”
di Gianluca Di Feo


PETRA (GIORDANIA) I l Siq è il cuore delle meraviglie di Petra, la città costruita duemila anni fa nel deserto giordano. Un canyon, lungo più di un chilometro e profondo anche 70 metri, che conduce a uno dei tesori archeologici mondiali. Nelle scorse settimane, subito dopo l’alba, i primi turisti che sciamavano verso le tombe colossali potevano incontrare un gruppo di tecnici italiani, con le tute da rocciatori e la stanchezza di una notte faticosa. Sono i protagonisti di un’impresa che unisce ingegneria e alpinismo, specialisti unici a cui l’Unesco ha affidato la cura del cardine più delicato di tutta Petra: la gola tra due montagne con l’unico accesso alla capitale dei nabatei, popolo nomade che si era arricchito con le carovane di incenso.
Nel 2009 è scattato l’allarme rosso per le condizioni del Siq: un blocco minacciava di staccarsi per l’effetto di secoli di escursione termica e di piogge torrenziali, improvvise e devastanti. C’era il rischio di frane, pericolosissime perché potevano precipitare sul passaggio obbligato percorso in certi anni da 900 mila visitatori. L’ufficio di Amman dell’Unesco è riuscito a superare le preoccupazioni delle autorità giordane e con il finanziamento messo a disposizione dal nostro ministero degli Esteri attraverso Aics ( Agenzia Italiana di Cooperazione allo Sviluppo) ha lanciato un’operazione senza precedenti. Perché bisognava mettere in sicurezza massi giganteschi, lavorando aggrappati allo strapiombo senza alterare il sito archeologico, né ostacolare il via- vai dei turisti.
Giorgia Cesaro, responsabile Unesco del progetto, descrive un capolavoro di diplomazia per mettere d’accordo il Dipartimento delle antichità giordane, i responsabili del parco archeologico, le diverse comunità locali e le esigenze del cantiere: «Ma quando li abbiamo portati sulla sommità del Siq, tutti hanno sentito la fragilità della roccia e hanno capito » . Il coordinamento tecnico è stato assegnato a Giuseppe Delmonaco, geologo dell’Ispra che si è occupato di Machu Picchu, di Civita di Bagnoregio e di altri capolavori dalle fondamenta instabili.
La prima fase è stato il check- up del Siq, usando immagini satellitari e foto aeree, confrontando informazioni topografiche e meteorologiche. Poi è stato realizzato un sistema di monitoraggio, composto anche da 65 minuscoli prismi e 6 strumenti sulle crepe di massi instabili, sentinelle che “vigilano” e trasmettono i dati a una centrale. Pure in questo caso, ideazione e tecnologia made in Italy ma affidate alla gestione di personale locale per completare la mappa dettagliata dei punti a rischio.
Quindi si è passati alla pulizia da detriti e piccoli blocchi, fatti precipitare o riutilizzati per costruire mini- terrazzamenti sulle pareti che rallentano la pioggia. Gli specialisti italiani sono stati affiancati da un team di rocciatori di Amman ma soprattutto è stata addestrata una squadra di beduini locali, abilissimi nell’arrampicarsi sulle pareti ma senza esperienza di interventi professionali. «Gli abbiamo insegnato come procedere alla pulizia dei detriti, spiegando alle autorità locali che va ripetuta due volte l’anno», racconta Delmonaco. Che, come Giorgia Cesaro, sottolinea l’importanza di avere trasmesso le competenze al personale giordano.
Poche settimane fa è incominciato il lavoro più difficile: ancorare i massi più grandi a rischio distacco, partendo da un blocco da 40 tonnellate. L’Unesco l’ha affidato alla Orbari, eccellenza trentina nei consolidamenti in situazioni estreme guidata da Elio Orlandi, uno degli alpinisti più noti a livello internazionale. In bilico sullo strapiombo, hanno fissato il masso con reti, barriere e ancoraggi coperti con colori dell’arenaria di Petra. «Abbiamo finito in anticipo, agendo soprattutto di notte e realizzando un tunnel- impalcatura per non intralciare il flusso dei turisti né quello di asini e carretti usati dai beduini», conclude Delmonaco.
Adesso c’è da completare l’opera. L’Unesco sta cercando i finanziamenti, poi i tecnici torneranno ad arrampicarsi sulle pareti del Siq. Per conservare intatto lo splendore di Petra.

Corriere 28.3.18
20 anni di pillola blu Una scoperta per caso
Ideata contro l’ipertensione, così ha distrutto un tabù
Felici gli uomini, felice la Pfizer: dal ‘98 al 2017 ha incassato 32,6 miliardi di dollari. Con buona pace di angina e ipertensione.
di Elvira Serra


Ha salvato matrimoni, ne ha distrutto altri. Ha liberato parecchi giovani dall’ansia da prestazione e ha regalato spensieratezza a chi la gioventù l’aveva superata da un pezzo. È entrato silenziosamente negli armadietti dei nostri bagni grazie a quel colore innocuo da Grande Puffo, che richiamava semmai una zigulì e non un farmaco studiato contro la disfunzione erettile.
Il Viagra compie vent’anni e in quattro lustri ha conquistato un primato su tutti: è la tipologia di farmaco più contraffatta al mondo. Era il 27 marzo 1998 quando la Food and Drug Administration, l’agenzia statunitense che regolamenta i prodotti alimentari e farmaceutici, ne autorizzava l’ingresso nel mercato. Nelle prime due settimane furono fatte 150 mila prescrizioni. Finalmente c’era un antidoto al vecchio tabù. Chi non lo acquistava per l’innominabile impotenza, lo provava per migliorare le performance.
In Italia si calcola che siano state vendute 86 milioni di pillole blu agli over quaranta, ma un consumatore su quattro ha molti anni di meno. A favorirne buona stampa sono stati i testimonial internazionali, da Pelé («Parla col tuo medico, io lo farò!») al candidato alle presidenziali Usa del 1996 Bob Dole (lui non ci fece una bella figura). Hanno ammesso di averlo provato attori del calibro di Michael Caine (salvo non chiarire se a quella prova c’è stato un seguito), l’ex portiere della nazionale Stefano Tacconi (solo per curiosità), gli scrittori Francesco Alberoni e Luciano De Crescenzo (quest’ultimo mandava in farmacia il giovane segretario Eddy). Il milionario della Virgin Richard Branson raccontò effetti collaterali irripetibili (che tuttavia non ebbe pudore a condividere). Jack Nicholson ammise, bontà sua, di farne uso solo se in compagnia di più di una donna.
Gene Gnocchi la sua prima volta la racconta a modo suo: «Ho investito in Viagra quando ho abbracciato la professione di toy boy». Ma al netto delle battute, è preparato sul tema: «Il principio attivo era stato impiegato dalla Pfizer come rimedio contro l’angina pectoris e l’ipertensione e aveva come effetto collaterale l’aumento delle erezioni». L’ha provato, sì, come forse non dicono tutti. «Un mio amico preferisce il Cialis, perché ha un effetto prolungato e ti permette di bere qualcosa se vai fuori a cena». La pillola blu è definitivamente entrata nelle conversazioni da bar e, per quel che può valutare lui da quanto gli raccontano gli altri, «i vantaggi superano le controindicazioni perché è un’arma che ti fa stare bene e ti consente di godere del sesso anche dopo una certa età».
Vent’anni sono tanti e adesso del Viagra ci sono più giovani ed efficaci eredi, dai biofilm sublinguali alle creme che vanno nel canale uretrale. «Sono sempre a base di Sildenafil. L’importante è parlarne con un medico», raccomanda Alessandro Palmieri, presidente della Società italiana di andrologia.