Corriere 25.3.18
Il poker d’assi dell’Europa
Esce martedì l’«Atlante delle crisi mondiali» (Rizzoli). Una visione realista che non risparmia critiche agli Usa
Sergio Romano indica quattro opportunità preziose per rilanciare il progetto dell’Unione
di Danilo Taino
Isaiah
Berlin avrebbe classificato Sergio Romano nella categoria delle Volpi.
Quegli animali che sanno molte cose, le meditano e decidono, senza
seguire «un principio morale o estetico». Contrapposti ai Ricci, che
sanno una cosa grande, ma una sola e inseguono «un principio ispiratore,
unico e universale». Per sostenere un’analisi e una teoria realista
delle relazioni internazionali, infatti, è necessario sapere tante cose.
È obbligatorio possedere profondità di argomenti e avere il controllo
dei dettagli per poi metterli assieme. E Romano è un grande realista
nella lettura degli eventi e degli scacchieri del mondo. È l’espressione
precisa di questo approccio, di un modo di studiare per poi capire la
realtà; niente di ideologico, nessun idealismo da riccio.
Il nuovo
libro di Romano che sarà nelle librerie il 27 marzo — Atlante delle
crisi mondiali , Rizzoli — è l’opera più globale nel suo voluminoso
lavoro teso a capire e a dare un senso, o un non-senso, ai rapporti tra
le Nazioni nell’epoca del disordine. Ed è probabilmente la più
ambiziosa: può essere messa al fianco di quella ormai famosa del maestro
americano della diplomazia e dell’analisi delle relazioni estere,
Ordine mondiale di Henry Kissinger (2014). La lente dell’analista e
dello storico rende visibili fatti a occhio nudo piccoli, ma decisivi
per capire i rapporti di forza internazionali, le contraddizioni delle
politiche dei protagonisti, i rischi insiti nella ricerca odierna di un
nuovo bilanciamento di poteri in tutte le aree del pianeta. La
differenza con Kissinger è che questi prende un punto di vista americano
nel leggere il mondo; Romano con l’America è durissimo, non le perdona
nulla nemmeno in questo libro (anche se di Kissinger mostra di
apprezzare non poco l’apertura alla Cina di inizio anni Settanta, un
passo di realismo in politica estera come pochi nella storia moderna
degli Stati Uniti). L’approccio analitico è comunque lo stesso. Il
risultato è un testo sorprendente e affascinante per lucidità e ampiezza
del racconto.
Storia e analisi dell’attualità si intrecciano
nelle spiegazioni del Medio Oriente in pieno caos, dell’Asia nel cono
d’ombra della Cina, delle Americhe sottosopra, dell’Europa anelata e
della Russia molto amata. L’ambasciatore Romano non cita aneddoti per il
piacere dello stravagante: porta in primo piano fatti e circostanze che
il discorso politico prevalente ha spesso dimenticato. Approfitta ad
esempio di un viaggio sull’autostrada da Gerusalemme a Hebron, tra i due
muri alzati da Israele, per ricordare il massacro del 25 febbraio 1994,
quando un fondamentalista di origine americana, Baruch Goldstein,
vendicò una strage del 1929 e massacrò 29 arabi e ne ferì 125 con una
mitragliatrice nella moschea della Tomba dei patriarchi, luogo, questo,
in cui «ebrei e musulmani hanno la stessa eredità» religiosa: lo fa per
sostenere che «niente è tanto difficile quanto la spartizione
dell’eredità fra due popoli che sono per molti aspetti religiosamente
vicini».
Stesso metodo parlando della Corea del Nord. Romano
sostiene che i calcoli di Kim Jong-un in fondo non sono diversi da
quelli di Charles de Gaulle quando volle l’atomica, la force de frappe ,
e da quelli di Israele allorché si dotò dell’arma nucleare: «Il
generale Pierre Marie Gallois, gollista della prima ora, scrisse che
l’arma nucleare, nelle mani di una media potenza, era garanzia
d’indipendenza e il migliore degli scudi possibili». Anche questo,
Romano non lo sottolinea per puro gusto. Ma per criticare Washington,
che di fatto avrebbe accelerato la strategia atomica di Pyongyang
quando, agli inizi di quest secolo, mise nell’asse del male tre Paesi —
Iran, Iraq, Corea del Nord — ma poi attaccò e invase l’Iraq, che armi e
programmi nucleari non ne aveva (la stessa reazione renderebbe in parte
comprensibile il presunto desiderio di Teheran di possedere una
deterrenza nucleare in un’area in cui già l’hanno l’India, il Pakistan,
la Russia, Israele e gli Usa).
Sergio Romano è un europeista senza
titubanze. Nelle crisi che in questi tempi attraversano il continente
vede un’opportunità: «Raramente le circostanze sono state altrettanto
favorevoli a coloro che vogliono vivere in una Europa federale», scrive.
Le ragioni? Sono quattro: il Regno Unito lascia l’Unione; l’America ha
eletto Donald Trump e dunque «la Ue ha l’obbligo e l’interesse di
pensare a se stessa, soprattutto in materia di difesa»; dopo la Brexit, i
movimenti euroscettici sono confusi; si parla ormai di Ue a cerchi
concentrici. La sua è un’Europa lontana dall’America, che dovrebbe
procedere verso il «disgelo» con la Russia.
Un libro di analisi e
di conclusioni forti. Ambizioso. Si può dissentire con lo storico e con
l’ambasciatore: ma il suo ragionare è quello della volpe, non vale
chiudersi a riccio.