sabato 17 marzo 2018

Corriere 17.3.18
Le elezioni di domani
I piedi d’argilla della Russia di Putin
di Franco Venturini


Vladimir Putin l’ex agente del Kgb, il Putin accusato di aver ordito l’avvelenamento di Salisbury, il Putin ardimentoso che tutto può nel bene e nel male, non avrà domani il coraggio politico di affrontare nelle urne una nascente opposizione. E i russi potrebbero decidere di punirlo, con una affluenza tanto bassa da rendere fragile la sua scontata rielezione. Va detto subito che il blogger Navalny, anche se una controversa condanna non gli avesse impedito di partecipare alla contesa per il Cremlino, sarebbe stato comunque facilmente battuto. Troppo debole è ancora in Russia la classe media giovane e liberale che in lui si è riconosciuta. Ma le elezioni presidenziali avrebbero guadagnato in legittimità, il risultato sarebbe parso meno scontato, e di sicuro un maggior numero di elettori, filo e anti Putin, sarebbe andato a votare. Invece il capo del Cremlino, che con un suo ordine avrebbe potuto facilmente aggirare la sentenza in questione, ha deciso di andare sul sicuro. Anche a costo di rischiare una ripetizione di quanto è accaduto alle legislative del 2016, quando l’affluenza, inedita nella storia russo-sovietica, fu del 48 per cento (28 a Mosca). Il motivo è presto detto: al confronto democratico Putin ha preferito un tentativo di mobilitazione che ricorda da vicino quelli in gran voga nell’Urss. Il nazionalismo e la sicurezza prima di tutto, con la clamorosa esibizione delle nuove «armi invincibili».
Poi il valore supremo della stabilità accanto al ritorno dello status di grande potenza, dalla Crimea (non è una coincidenza che si voti nell’anniversario dell’annessione) alla Siria. Forse anche l’avvelenamento di un traditore in terra britannica non danneggerà il candidato del potere. E nel contempo, la tradizionale offensiva del «potere amministrativo»: nelle fabbriche, nelle campagne, nei ministeri, persino nelle scuole con messaggi diretti ai genitori. Senza contare la Chiesa ortodossa, con la sua considerevole influenza.
Sforzi giustificati, va detto. Non perché a Putin manchi il consenso, tuttora vicino al 70 per cento secondo i sondaggi locali, ma piuttosto perché queste elezioni si giocheranno sull’unica cosa che non è scontata: la partecipazione di un popolo che mostra segni di stanchezza e che trova troppo sicuri i risultati elettorali per dover contribuire a disegnarli. L’affluenza minima che serve a Putin è del 60 per cento, al limite delle previsioni dei sondaggi. E c’è una pericolosa aggravante: Navalny ha chiesto per domenica uno «sciopero elettorale», mettendosi in grado di gridare vittoria se l’affluenza sarà davvero bassa.
L’errore strategico di Putin, perché a questo potrebbe averlo indotto una insicurezza davvero paradossale in un leader russo-sovietico che è meno longevo soltanto di Stalin, avrà un peso rilevante sulla legittimità interna e internazionale della sua conferma presidenziale. Ma peserà anche, e molto, sulla durata della sua permanenza al Cremlino. Alcuni osservatori ritengono che questa per Putin sarà l’ultima volta, che a medio termine ci sarà una transizione, un passaggio di poteri come avvenne nel 2000 tra Boris Eltsin e l’allora giovane premier. Scenario possibile, ma non probabile nelle mutate condizioni della Russia e del potere che la guida.
Semmai, nella Mosca di oggi appare più verosimile una importazione della sindrome cinese: una presidenza come quella di Xi Jinping, senza limiti di calendario. A spingere in questa direzione c’è l’identificazione ormai completa tra la persona Putin e il sistema che lo sorregge. Se il genio di Gogol’ fosse ancora tra noi, forse produrrebbe una nuova versione dell’ Ispettore Generale concepito nell’Ottocento zarista. Perché nella Russia di oggi tutto passa da Putin, tutto viene da Putin, di tutto Putin è l’Arbitro ultimo, tutto è merito (o colpa, più raramente) di Putin, e chiunque, se viene soltanto sospettato di rappresentare il Capo, si vede riconoscere autorevolezze degne di una satira.
Il Presidente non è peraltro l’unico responsabile di questo culto della Persona. Nel suo primo mandato Putin si trovò a dover ricostruire lo Stato che Eltsin aveva regalato alla banda degli oligarchi. Nel secondo riuscì ad elevare il disastroso livello di vita di buona parte della popolazione. Poi vennero lo scambio di poltrone con Medvedev, la mazzata della crisi economico-finanziaria, e più di recente la doccia scozzese di Trump, possibile interlocutore sulla carta e avversario durissimo nella realtà. In ognuna di queste e di altre circostanze lunghe diciotto anni, piaccia o non piaccia all’Occidente, Putin ha fatto con bravura gli interessi della Russia. E il risultato è che oggi la sua identificazione con il potere è tale che una uscita di scena anche parziale provocherebbe prima feroci lotte di potere, e poi il crollo dell’intera struttura statale. Lasciando via libera non ai Navalny, come si tende a credere a Washington, ma più verosimilmente a un nazionalismo aggressivo e militaresco.
Personificato e indivisibile, il potere russo è peraltro anche una camicia di forza. Putin ha mostrato di sapere che la sua Russia ha urgente bisogno di riforme economiche e sociali. Non è più ragionevole, a Mosca più che altrove, affidare il futuro ai prezzi del greggio. Ma riformare significa urtarsi di volta in volta a componenti del potere, significa rischiare di destabilizzare la «democrazia sovrana» inventata dall’ideologo Vladislav Surkov. E così la modernizzazione non avviene, e la Russia che promette missili «invincibili» ha sempre di più i piedi d’argilla. Semmai, sarà per questo e per la connessa protesta delle giovani generazioni che Putin preferirà un giorno passare la mano. Ma alla luce di quel che potrebbe venire dopo, e non è facile dirlo mentre Mosca viene accusata di avvelenare ex spie con il gas nervino in territorio britannico, l’Occidente rischia di rimpiangere l’esistenza di un potere stabile dietro le mura del Cremlino. Lo si diceva spesso durante la Guerra fredda: l’unica cosa più pericolosa di una Russia forte, è una Russia debole.