giovedì 15 marzo 2018

Corriere 15.3.18
Sinistra e accordi quel balzo sul carro dei 5 stelle
Gli europarlamentari Barbara Spinelli e Pascal Durand hanno dato la più robusta spinta in direzione dell’abbraccio al M5S
Tomaso Montanari
di Paolo Mieli


Ora che la sbornia è passata, si impone una riflessione in merito all’incredibile corsa del ceto medio riflessivo della sinistra italiana in vista di un balzo sul carro dei Cinque Stelle nei minuti successivi alla proclamazione dei risultati delle elezioni politiche. Minuti? Diciamo pure frazioni di secondo. Non era stato neanche ultimato lo spoglio delle schede che, appena sono state chiare le dimensioni della débâcle del Pd, si è prodotta una ressa di propugnatori d’un rapido sposalizio tra il partito che era stato di Matteo Renzi e il movimento che è ancora di Beppe Grillo. Elementari criteri di stile oltreché di prudenza avrebbero imposto quantomeno qualche giorno di silenziosa riflessione. Tra l’altro anche sotto il profilo tattico era stravagante che un partito (il quale, ancorché in grave crisi, è pur sempre la seconda formazione politica italiana) si andasse ad offrire così s guaiatamente ai vincitori. Vincitori che, per di più, sapientemente si sono ben guardati dal calare le scialuppe per accogliere quei naufraghi accomunati dall’esclusivo desiderio di riprendere il loro viaggio verso l’avvenire, nel mentre imputavano al solo capitano la malasorte delle loro imbarcazioni. Comunque, a futura memoria, gioverà ricordare l’accaduto escludendo in partenza ogni menzione dei «coerenti», cioè di coloro che già da tempo si erano pronunciati a favore dell’incontro tra la sinistra italiana e il movimento di Grillo .
Gli europarlamentari Barbara Spinelli e Pascal Durand hanno dato la più robusta spinta in direzione dell’abbraccio al M5S nel nome dei loro illustri familiari: «Noi», hanno scritto in un appello al Pd, «figli di militanti antifascisti, di chi ha resistito all’oppressione e all’odio, noi che ricordiamo ciò che i nostri genitori ci hanno raccontato», vi diciamo che «compiacersi in una confortevole opposizione, rinunciare a sporcarsi le mani col pretesto che i vostri alleati potenziali non sono di vostra convenienza, non è un comportamento all’altezza della sfida di oggi». Attenti — ammonivano da Bruxelles — che «ci sono scenari ben peggiori di quello, indicato da Renzi, di divenire la stampella di un governo antisistema»: se non cercate un’alleanza con Luigi Di Maio, «potreste diventare il predellino di un governo neofascista». Oltretutto, garantiva Barbara Spinelli, «la stessa idea del reddito di cittadinanza, criticata e svilita dall’establishment italiano, è molto europea». A dare poi la linea in senso più concreto ci hanno pensato il conduttore televisivo Pierfrancesco Diliberto (con uno specifico manifesto che ha ottenuto grande consenso tra cantanti, attori, registi, appena un po’ meno tra gli scrittori) e l’intera sinistra pugliese capitanata da Michele Emiliano, Massimo D’Alema e da un, pur più cauto, Francesco Boccia.
Massimo Cacciari ha avuto fin dall’inizio pochi dubbi: «Da questa disfatta il Pd potrebbe uscirne bene soltanto se ammettesse la sconfitta, riconoscesse la vittoria del Movimento 5 Stelle e si rendesse disponibile a sostenere un governo monocolore dei grillini». Non dovrebbero però le sinistre «condividere responsabilità di governo», ha aggiunto il filosofo, dal momento che, se alcuni di loro andassero ad occupare qualche poltrona, sarebbe «un suicidio». Piero Ignazi, esperto in politica comparata, ha assicurato che «i 5 Stelle hanno cambiato pelle». Il politologo Gianfranco Pasquino — in un tweet da lui stesso certificato come «ricco di consensi e critiche» — è giunto alle conclusioni che sottrarsi all’incontro con i seguaci di Di Maio andrebbe considerato «eversivo» («sovversivo», lo ha corretto la Spinelli). Questo perché «rifiutarsi di fare un governo nel Parlamento di una democrazia parlamentare, è non solo ignoranza ma protervia nei confronti dei cittadini elettori». L’ex presidente della Regione Sicilia Rosario Crocetta si è mostrato dell’identico avviso: «Il Pd dichiari la disponibilità a supportare, anche dall’esterno, un governo a guida M5S». Anche Antonio Di Pietro non ha avuto esitazioni: «Il Pd si metta a disposizione» del partito di Grillo. «Non assuma il volto di un nume irato», ha suggerito in tv lo studioso di populismi Marco Revelli. La vicepresidente dem dell’Emilia Romagna Elisabetta Gualmini ha previsto però che questo matrimonio si realizzerà solo «tra alcune settimane». L’ex presidente della Corte costituzionale Gustavo Zagrebelsky ha concordato sulla prospettiva di «tempi lunghi» ma ha benedetto fin d’ora le nozze con i pentastellati: «Non ci troverei niente di strano, la direzione è quella».
Tomaso Montanari prima di pronunciarsi ha tenuto a definire «penosa» oltre a quella del Pd anche l’esperienza elettorale del partitino di Pietro Grasso: un «episodio grave» prodotto, a suo avviso, da un «ceto politico che ha dirottato la richiesta di una sinistra diversa per garantire la propria perpetuazione». Poi, però, è tornato sul punto all’ordine del giorno per annunciare: «Se il M5S mi contatta per il ministero dei Beni culturali (e non si capisce se si tratta di qualcosa che è già accaduto o soltanto di un auspicio, ndr ) evidentemente pensa che il mio nome parli a quel pezzo di elettorato che oggi sceglie i 5 Stelle venendo da sinistra». Il direttore di Micromega Paolo Flores d’Arcais — a seguito di queste ultime due dichiarazioni — ha optato all’istante per un governo con i grillini guidato dal costituzionalista di cui sopra e, ove mai si ponessero problemi d’anagrafe, ha promosso lo storico dell’arte da semplice ministro a presidente del Consiglio: il Pd, ha dichiarato Flores, dovrebbe votare per «un governo che abbia come asse prioritario la legalità e l’uguaglianza, guidato da una grande personalità (penso a uno Zagrebelsky nella mia generazione o a un Montanari per la successiva)». E se il Pd non accettasse il suggerimento? La pagherebbe con il dimezzamento dei voti: «Nelle inevitabili elezioni che sarebbero convocate a breve», ha previsto lo stesso Flores, il partito che fu di Renzi «andrebbe sotto al 10 per cento».
In nessun Paese d’Europa (forse del mondo) si è mai assistito ad uno spettacolo del genere, per di più in tempi così ravvicinati ad un esito elettorale. Mai. Non fosse per l’autorevolezza e la notorietà delle persone che hanno ritenuto di pronunciarsi nei modi di cui s’è detto, si potrebbe pensare ad una gigantesca gaffe collettiva. Ma è probabile che i partecipanti a questa euforica festa per l’annuncio di matrimonio tra quel che resta della sinistra — di tutta la sinistra, non, si badi, del solo Pd — e un assai recalcitrante Movimento 5 Stelle, abbiano voluto comunicare al mondo qualcosa di più. Cosa? Che per loro la partita del movimento operaio e del socialismo riformista italiano è definitivamente chiusa, che non hanno intenzione di ricominciare a entusiasmarsi per un nuovo Pd guidato da Maurizio Martina, Graziano Delrio, Nicola Zingaretti o di chi andrà a prender posto al Nazareno. La nostra è solo un’impressione, ma riteniamo che quella prodottasi a ridosso delle elezioni del 4 marzo non sia stata soltanto una sbandata di donne e uomini in preda alla disperazione, bensì una disposizione d’animo che si ripresenterà quanto prima. Non necessariamente adesso, in tempi di formazione (?) del governo. Ma sicuramente a ridosso delle elezioni che verranno. Forse presto.