Corriere 14.3.18
I robot tuttofare che non reggono lo stress (per ora)
di Massimo Sideri
Un
altro robot «licenziato», questa volta a Pasadena in California, patria
dell’innovazione. Il motivo? Flippy non sapeva fare bene gli hamburger,
il lavoro per cui era stato progettato. «Deve imparare di più dai suoi
colleghi umani» ha detto il gestore di CaliBurger, la catena che lo
aveva assunto con un certo entusiasmo. Un mese e mezzo fa la «lettera di
dimissioni» era toccata a un suo (ipotizziamo) collega robot nei
supermercati scozzesi, incapace di socializzare con i clienti. Nella
divertente opera teatrale R.u.r., scritta da Karel Čapek, umanoidi
schiavizzati nelle fabbriche dell’uomo si organizzano presto in
sindacati perché costretti a lavorare senza sosta e senza diritti. Lo
stesso termine robot, inventato dal fratello pittore di Capek,
significava in origine schiavo o servitù (robota in ceco). Il libro
nasceva nel 1920, nel contesto storico della Rivoluzione di Lenin, ma
ciò che colpisce è che ancora oggi, se si va a guardare a fondo, le
motivazioni degli imprenditori e dei manager non sono dissimili. La
catena CaliBurger voleva far lavorare il robot Flippy senza sosta
facendogli produrre 150 panini al minuto. Non ha funzionato. Un video
facilmente reperibile sulla Rete mostra un goffo robottino che cuoce la
carne e non riesce nemmeno a posizionarla correttamente, tanto da
richiedere l’aiuto di un badante umano. Forse non è il robot Flippy ad
essere fuori posto, ma la mentalità di certi umani che ragionano come
nel 1920. Intendiamoci: la disoccupazione tecnologica, intravista già da
economisti come Marx e Keynes, esiste e le fabbriche di Shenzhen in
Cina o quelle di Tesla a Freemont ne sono una riprova. Ma per chi ha
l’ansia da umanoide alla «Io, Robot» che bussa alla porta c’è ancora
tempo. Le macchine ci batteranno pure a dama cinese, ma per ora non
reggono lo stress di un fast food.