Corriere 14.3.18
Il brutto (e il buono) della paura Tre giorni nella mente umana
Torino Dal 6 all’8 aprile il Festival della Psicologia con la direzione scientifica di Massimo Recalcati
di Ida Bozzi
Un nuovo direttore scientifico e un tema che affronta una questione di attualità stringente, cioè la paura: è stato presentato ieri a Torino il Festival della Psicologia, organizzato dall’Ordine degli psicologi del Piemonte, che si svolgerà alla Cavallerizza Reale da venerdì 6 a domenica 8 aprile. E che è diretto per la prima volta, nella sua quarta edizione, dallo psicoanalista Massimo Recalcati.
Proprio Recalcati ci illustra l’argomento di quest’anno (il titolo ricalca quello del romanzo di Niccolò Ammaniti: Io non ho paura ), che porterà al festival incubi di oggi come il terrore per gli attentati, l’atto distruttivo dei kamikaze, il trauma. Ma anche il perdono e il senso d’identità.
«Abbiamo scelto — ci ha spiegato lo psicoanalista — un tema che intersecasse la psicologia individuale e quella sociale, quindi la psicologia del singolo con quella collettiva. Un tema di grandissima attualità, la paura: da una parte la tentazione del muro, dell’esclusione segregativa, del rafforzamento delle difese, ma dall’altra la necessità di ossigeno, perché senza ossigeno la vita si spegne. E questo è importante, perché va contro la tentazione del “muro”, della chiusura».
Ogni giornata del festival sarà caratterizzata da una lectio magistralis , nella quale psicologi, psicoanalisti, scrittori si occuperanno di un aspetto particolare della paura: venerdì apre l’esperto di geopolitica Lucio Caracciolo su Chi sono e che cosa vogliono i terroristi , sabato lo stesso Recalcati si occuperà di Violenza e terrore , mentre domenica la psicologa franco marocchina Houria Abdelouahed terrà la sua lectio su Donne, Islam e violenza .
«E poi si indagheranno vari aspetti intorno al tema della paura — continua Recalcati —, ad esempio se è possibile una prevenzione della violenza, oppure come spiegare la violenza ai bambini, e ancora che cos’è il “confine”, quello di un Paese come quello di un soggetto. E soprattutto, qual è la paura più grande, che è la paura di avere paura».
Quindi è possibile analizzare in parallelo i timori dell’individuo e quelli della società? «Be’, la paura genera chiusura — risponde Recalcati — , isolamento, rafforzamento delle difese, ma così si restringe la vita: una società impaurita è una società che si chiude, proprio come un individuo che ha paura è qualcuno che non esce di casa, che si isola».
Per capire meglio i singoli fenomeni, le giornate proporranno dibattiti tra scrittori ed esperti: venerdì 6 si incontrano il fondatore della comunità di Bose, Enzo Bianchi, e l’imam di Firenze, il palestinese Izzeddin Elzir, per un confronto su Religioni e violenza . Tra gli incontri di sabato, quello su La mente del terrorista, con Maurizio Balsamo e Marco Belpoliti, e il focus su Trauma e perdono con Clara Mucci, Mauro Grimoldi e l’argentino Aldo Becce; per chiudere domenica con gli incontri sull’accoglienza, il terrore «spiegato» ai bambini e il dibattito finale Prevenire la violenza? con Gad Lerner, Federico Condello e Jole Orsenigo. Non si tratta di stabilire che la paura è il male, si tratta di capire che cos’è, precisa Recalcati: «I confini, ad esempio — conclude —, non sono cose solo brutte, intendiamoci, senza confini la vita non ha identità. Diventano brutti però se si induriscono: è un equilibrio molto complesso da trovare».
Repubblica 14.3.18
Adriana Faranda “L’ultimo giorno di Aldo Moro iniziò la fine di noi brigatisti”
di Ezio Mauro
ROMA Adriana Faranda, lei ha 67 anni è entrata nelle Br a 24, è stata condannata a trent’anni per il rapimento Moro e l’uccisione dei cinque uomini della scorta.
Quarant’anni dopo che giudizio dà di quei 55 giorni?
«Che sono stati una vera e propria tragedia. Noi sequestrando Moro lo abbiamo praticamente condotto in un vicolo che alla fine si è rivelato cieco, in nome della ragion di Stato e di una presunta ragione rivoluzionaria. È il più grande errore che le Br abbiano commesso, sia dal punto di vista politico che da quello umano».
Lei ha detto che anche se non ha mai ucciso nessuno, le responsabilità collettive sono un macigno. Sente la responsabilità morale anche per quello che non ha fatto?
«Sì, siamo tutti responsabili. Non da un punto di vista giudiziario, ovviamente, ma da un punto di vista morale sì: abbiamo accettato l’idea che si potesse uccidere e l’uso politico della violenza».Lei quando entra nelle Brigate Rosse? Chi le comanda in quel momento?
«Nel ’76, quando le Br a Roma stanno formando la colonna. In realtà in quel momento ci sono solo 3 militanti regolari…».
Regolari nel vostro gergo significa clandestini?
«Sì, anche se non necessariamente ricercati. Però nelle Br il politico e il militare marciavano insieme e la struttura di direzione aveva necessità di mantenersi clandestina, per sfuggire al controllo. Non comanda nessuno, alla guida c’è l’esecutivo: Moretti, Bonisoli, Azzolini e Micaletto».
Come arrivate alla decisione di sequestrare Moro?
«Attraverso un ragionamento.
Pensavamo che il potere reale si sarebbe spostato dallo Stato nazionale a strutture imperialiste come la Trilateral.
In Italia il perno di questa ristrutturazione era la Dc.
Nella Dc avevamo individuato tre nomi, Fanfani, Moro e Andreotti».
Poi?
«Poi poco per volta si arrivò a un nome solo. Fanfani venne accantonato perché un po’ fuori dai giochi. Andreotti perché era l’uomo del potere, mentre l’intelligenza che stava dietro era di Moro. Per noi lui era la mente della Dc».
Lei aveva seguito Moro nella chiesa di Santa Chiara a Roma. Cosa ricorda di quegli appostamenti?
«Ricordo gli uomini della scorta, molto bene. Leonardi che entrava insieme a Moro nella chiesa. E gli altri che chiacchieravano fuori, andavano a prendere il giornale all’edicola, certe volte mi passavano accanto. Quel primo progetto avrebbe salvato loro la vita».
Perché potevate prelevare Moro senza la strage?
«Sì, avremmo potuto sequestrare Moro immobilizzando semplicemente chi lo aveva accompagnato dentro la chiesa, senza bisogno di sparare, uscendo poi dalla sacrestia. Ma ci accorgemmo presto che qualunque cosa fosse andata storta, avrebbe innescato uno scontro a fuoco in una zona affollata: bambini, studenti, passanti».
Dunque?
«Dunque si cominciò a cercare un altro luogo adatto, seguendo il cammino delle auto a ritroso.
Risalimmo fino all’abitazione di Moro e capimmo che l’unico posto adeguato per fermare quelle macchine era proprio quell’incrocio molto tranquillo».
Tra via Stresa e via Fani?
«Sì, perché lì c’era lo stop, con poco traffico e abbastanza visibilità per veder arrivare le auto, senza scuole e senza folla.
È un calcolo da guerra, che valuta cinicamente il rischio e il successo di un’azione: ma è così».
Il passaggio dalla chiesa a via Fani è il passaggio da un sequestro alla strage di cinque uomini della scorta.
Nessuno ha sollevato questa obiezione?
«Era un dubbio che ci coglieva tutti, però il cinismo non appartiene solo alla lotta armata. Appartiene alla guerra e alla violenza in sé».
Moro però non sa di essere in guerra, tanto che i suoi uomini non viaggiano con le armi in pugno, voi sì…
«Ma noi non lo sapevamo.
Abbiamo studiato l’azione pensando di rischiare almeno quanto rischiavano loro».
Lei ha preparato l’agguato, ha comperato personalmente le quattro divise da avieri per il gruppo di fuoco. Davvero a via Fani hanno sparato solo in quattro?
«Pensi all’elemento sorpresa, al fatto che le macchine erano praticamente ferme, e che la distanza era ravvicinatissima: questo può far capire come quattro persone decise a tutto possano giungere a tanto. Non c’è bisogno di tiratori scelti appostati chissà dove».
Agnese Moro, incontrando voi ex terroristi, ha detto: posso finalmente domandarvi come facevate a mettere la sveglia, ad alzarvi al mattino e ad andare ad uccidere. Ecco, che cosa ricorda della notte prima dell’agguato?
«Le notti prima dell’azione erano sempre quasi insonni. Di quella sera ricordo l’ansia, la tensione, perché tutti sentivamo il peso incredibile di quello che stavamo per fare, con uno scompaginamento enorme. Non sapevamo bene cosa sarebbe successo dopo: e questa incognita pesava».
Il 16 marzo è il giorno in cui il governo Andreotti si presenta alle Camere, col Pci nella maggioranza. Una data simbolo?
«In realtà la data era un’altra, qualche giorno prima, quando si era riaperto il processo di Torino al nucleo storico delle Br: fu rinviata solo perché mancò una macchina. Volevamo un contro-processo contemporaneo, i compagni alla sbarra a Torino e la loro organizzazione che intanto metteva sotto processo lo Stato».
Quel mattino lei vede uscire Morucci insieme con Bonisoli e accende la radio sulle frequenze dei carabinieri: quando capisce cos’è successo in via Fani?
«Subito parlavano di una sparatoria, chiamavano le pattuglie. Poi dissero che bisognava portare in ospedale un ferito. Quindi che c’erano dei morti, e io non riuscivo a capire se erano da parte nostra, chi fosse il ferito. Non sapevo se Moro era stato preso, se erano riusciti ad arrivare alla prigione. Finché tornò Valerio».
Cosa le disse Morucci?
«Era sotto shock, mi disse solo: è stato un macello. Era talmente turbato che io non me la sentii di chiedergli altro. Aggiunse ancora: noi stiamo tutti bene ma è stato un macello».
Un macello a cui lui ha partecipato…
«Certo. Le ho detto, era sconvolto».
Lei ha discusso le vie di fuga, ma sapeva che la prigione era in via Montalcini?
«Sapevo che era stato acquistato un appartamento ed era stato attrezzato come prigione. Ma non sapevo dov’era. Però quando andai in via Montalcini con i magistrati, per la prima volta in vita mia, girai per casa, ragionai secondo i criteri di allora e individuai per terra le tracce…».
Il segno del cardine della parete che chiudeva la cella?
«Esattamente. Sono certa che la prigione è stata lì. Anche perché non potevamo permetterci di aver più di un appartamento attrezzato».
Lei e Morucci consegnate le lettere che Moro scrive. Ma lei in quei giorni come valuta quei messaggi?
«Avevano un’importanza politica enorme. Perché noi non ci aspettavamo un fronte di fermezza così compatto, e non sapevamo come incrinarlo».
Lui ci prova?
«Sì. Secondo me capisce che le Br sono un fenomeno estremo, ma che forse si può tenere sotto controllo se non si nega la sua natura politica. Per questo accetta di considerarsi prigioniero politico, e lancia l’idea dello scambio di prigionieri».
Le lettere del sequestrato alla famiglia diventano un documento via via sempre più disperato. Cosa ne pensava allora?
«Man mano che i giorni passavano Moro si spogliava dei suoi abiti di statista, dietro la funzione emergeva l’essere umano. Io oggi considero mostruoso levare la vita a chiunque, ma uccidere un prigioniero è la cosa più terribile che si possa fare. Esecuzione: già il termine… Noi ci battevamo perché gli Usa abolissero la pena di morte, e poi…».
La praticavate.
«La praticavamo».
Perché per fermarvi non è bastata la lettera del Papa agli uomini delle Br, l’appello del segretario Onu Waldheim?
Eravate in un delirio di onnipotenza o di impotenza?
«Forse ambedue… ma il problema era che le Br volevano essere riconosciute come forza combattente in opposizione allo Stato, quindi il loro interlocutore era la Dc».
Quando il 18 aprile viene scoperto il covo di via Gradoli, dove vivevano Moretti e Barbara Balzerani, per un’infiltrazione d’acqua dovuta a una doccia lasciata aperta, lei è con Balzerani: non ha avuto sospetti sulla dinamica di questa vicenda?
«No, nel senso che noi ce la prendemmo con Barbara, perché si sapeva che c’erano state delle perdite, che già avevano protestato dal piano di sotto, bisognava chiudere il rubinetto centrale. Barbara sbiancò quando vide le immagini della “base” al tg, però la fuga di notizie impedì il suo arresto e quello di Moretti».
Lei il 30 aprile alle 4 e mezza di pomeriggio è alla Stazione Termini con Moretti che fa l’ultima chiamata a casa Moro e parla con la moglie.
Chi decide la telefonata?
«Era un tentativo disperato di muovere qualcosa nella Dc, deciso da Mario indipendentemente dall’esecutivo. Mamma mia, eravamo in un sottopassaggio affollato e il compito mio, di Valerio e di Barbara era di coprire Mario sperando di non essere rintracciati dalla polizia».
La telefonata fu lunga…
«Sì. Ci fu un grosso rischio, ma Mario voleva essere certo che chi era all’altro capo del filo comprendesse fino in fondo la sua ultima richiesta per non arrivare all’uccisione di Moro».
Però formalmente soltanto lei e Morucci eravate contro l’esecuzione. Tutti gli altri si dichiararono a favore.
«Certo era necessario avere un corrispettivo, anche minimo.
Una dichiarazione della Dc per dire che si sarebbe affrontato il problema dei prigionieri politici».
Il 3 maggio c’è l’ultimo incontro in piazza Barberini tra lei, Morucci, Moretti, Seghetti e Balzerani. Che cosa vi dite in quelle due ore in piazza?
«Noi tirammo fuori tutti gli argomenti che spiegavano perché eravamo contrari all’uccisione di Moro. La certezza che sarebbe stato molto più destabilizzante da vivo. La considerazione che il risultato era stato comunque raggiunto perché Moro aveva dato le dimissioni dal partito. Il fatto che lui stesso aveva messo sotto accusa la Dc, come responsabile della sua morte».
Un momento, non va mai dimenticato che la mano sulla pistola è la vostra...
«Certo. Vede, io credo che le Br siano state sempre consapevoli dell’enormità delle responsabilità che si prendevano sulle spalle. Però si sono illuse che la morte di Moro fosse vissuta come una corresponsabilità».
C’è un’ultima riunione in cui decidete le modalità dell’esecuzione. È vero che doveva essere lei a scortare l’auto col cadavere in via Caetani?
«Sì, sì, è vero. Ci fu questa riunione in cui stavo malissimo perché mi sentivo sconfitta sotto tutti i punti di vista, politico e umano. Ero disperata.
Quando uscì fuori l’idea che dovevo essere io a fare da scorta all’auto che avrebbe portato il corpo di Moro rimasi agghiacciata e dissi qualcosa come “okay, lo faccio, ma solo per disciplina”. Non ero assolutamente in condizioni di svolgere quel ruolo con le garanzie che un’organizzazione politico-militare richiede. Infatti Valerio venne da me e mi disse: stai tranquilla, abbiamo deciso che è meglio se ci vado io».
Arriviamo al 9 maggio.
Moretti dice di essere stato solo a sparare, lei sostiene che ha sparato anche Maccari. Che cosa è successo in quel garage di via Montalcini?
«Io non posso saperlo con certezza perché non ero presente. Mi sono fatta una mia impressione sulla base delle cose che ho saputo dopo, ma …».
Secondo questi racconti sono state due persone a sparare?
«Quel che ho saputo da varie fonti è che poiché Moretti voleva assumersi questa responsabilità, ma allo stesso tempo il peso era estremamente grave, ebbe un cedimento in loco. E quindi… Capisca, sono cose talmente dolorose che non me la sento di dare certezze».
Lei raccoglie l’acqua di mare sul litorale romano e la sabbia che si troverà nel risvolto dei pantaloni di Moro con le gocce spruzzate sui vestiti per depistare le indagini, è così?
«Sì, questa era l’idea: depistare.
Sul litorale io e Barbara cercammo di prendere qualunque cosa anche dalle chiglie delle barche, pezzi di bitume, foglie dai vasi per disseminare indizi sparsi in modo da confondere gli investigatori».
Perché decidete via Caetani per far ritrovare il corpo di Moro?
«Volevamo una strada vicina ai due partiti che avevano scelto la fermezza. In via Caetani fu parcheggiata una macchina il giorno prima, per tenere il posto alla Renault. Se non ci fosse stato un parcheggio forse si sarebbe scelta un’altra strada».
Che cosa succede la mattina del 9 maggio quando lei incontra Morucci che è appena tornato da via Caetani dove aveva lasciato il corpo di Moro?
« Succede che siamo costretti a fare l’ultima telefonata e scegliamo ancora una volta la Stazione Termini, questa volta una cabina all’esterno. Niente, siamo entrambi devastati ma la telefonata finale la deve fare proprio Valerio, la voce che ha chiamato tutti gli intermediari e quindi, anche per non far identificare altri, tocca a lui.
Questa volta ci sono solo io a coprirlo. Fatta la telefonata ce ne andiamo proprio con la sensazione…».
Che quel momento è anche la fine delle Brigate Rosse?
«Non è ancora la fine, però certo è l’inizio del declino».
Repubblica 14.3.18
Storie, parole, volti e immagini di una grande tragedia repubblicana
di Filippo Ceccarelli
Ma l’estetica da sola non spiega, né le suggestioni vanno in profondità. Così occorre dire subito che si tratta di un’inchiesta vecchio stile, seria, fattuale, aderente al ritmo della cronaca, senza fronzoli né elucubrazioni. Anche per questo, come d’altra parte era a quei tempi, la parola scritta, la sua luminosa e intellegibile potenza, resta al centro del racconto: i titoli dei giornali danno una sequenza e un ordine ai fatti; la fredda e grossolana grafica dei volantini Br già indica il destino dell’annientamento; e se la scrittura del prigioniero si fa più nervosa con il passare dei giorni, l’elegante calligrafia di Paolo VI sottolinea l’impotenza dolorosa di una figura al tramonto. Come in un rito di passaggio, insieme con Moro finisce senz’altro una politica; ma quando a via Fani il corpo di un agente viene pietosamente coperto dalla carta dei quotidiani, anche un sistema di comunicazione giunge forse al suo punto terminale, e già il “dopo” si preannuncia insidioso, denso com’è di apparenza, rapidità, euforia, leggerezza, superficialità. Parecchi i testimoni chiamati a dare un senso a una vicenda che tuttora sembra per alcuni versi governata da “un’Intelligenza che sta dietro”. Per flemmatica lucidità resta impresso Giovanni Moro; particolarmente vacuo l’allora Pm Luciano Infelisi; abbastanza verboso, ripreso davanti a specchiere e cornici d’oro, Beppe Pisanu, al tempo capo della segreteria di Zac.
Il fedele segretario di Moro, Nicola Rana, racconta di Gianni Agnelli pronto a pagare un eventuale riscatto; Giorgio Napolitano di quando, d’accordo con Berlinguer, decise comunque di partire per gli Usa.
Disperata come chi solo dopo molti e durissimi anni si è resa conto di essersi abbandonata a qualcosa che ancora terribilmente la sovrasta, appare Adriana Faranda. «È stato un macello...» le dice Morucci subito dopo via Fani – e dinanzi a lei colpisce anche l’espressione di Ezio Mauro, pur schermata dietro due occhi come capocchie di spilli.
Non era facile intervenire su un’immaginario già così colonizzato da una montagna di libri, film, poesie. Ma le parole e le immagini del Condannato, i buchi sulle lamiere, la mitraglietta Skorpion, danno maggiore forza ai versi di Mario Luzi: «Acciambellato in quella sconcia stiva,/ crivellato da quei colpi,/ è lui, il capo di cinque governi,/ punto fisso o stratega di almeno dieci altri,/ la mente fina, il maestro/ sottile/ di metodica pazienza...». Così come rendono più autentico ciò che del delitto Moro scrisse nel 1979 Guy Debord, profeta della società degli spettacoli: «Un’opera mitologica a grandi macchinari scenici, in cui degli eroi terroristi a trasformazioni multiple sono volpi per prendere in trappola la preda, leoni per non temere nulla da nessuno per tutto il tempo che la tengono in custodia, e pecore per non trarre da questo colpo assolutamente niente che possa nuocere al regime che ostentano di sfidare».
Nel frattempo, a piazza del Gesù si vede uno slargo pedonale che allora non c’era; sotto le Botteghe Oscure, al posto di Rinascita, c’è un supermarket; e osservando la palazzina di via Gradoli viene in testa che proprio qui s’è svolto anche un pezzetto del caso Marrazzo. Irriconoscibile il paesaggio italiano, irriconoscibili gli stessi italiani che passavano accanto alla Renault rossa facendosi il segno della croce.
Sembra strano, ma a rivederlo dopo quarant’anni, era un Paese più composto o forse solo meno isterico e depresso di quello immaginato fra le carte dell’archivio di Stato, sotto le splendide guglie di Sant’Ivo alla Sapienza, come sotto la pioggia che bagna il piccolo camposanto di Torrita Tiberina.
“Il Condannato - Cronaca di un sequestro”, il film di Ezio Mauro
Rivisti in questo tempo confuso, i colori degli anni ’70 sono pesanti, sgranati e paiono addirittura più irreali degli stessi eventi che pure allora certissimamente non solo ebbero luogo, ma condizionarono i successivi quarant’anni.
Il rosso carico del sangue sparso in strada e quello metallico della Renault4 di Moro; il blu quasi azzurro del pennarello usato nelle lettere dal “carcere”; il bianco abbacinante delle grottesche ricerche intorno al lago della Duchessa; il marrone-arancio del doppiopetto di Vespa che al tg annuncia in diretta il ritrovamento di via Caetani.
Se la tecnologia del passato distorce la percezione del formidabile repertorio, quella pervasiva del presente offre le più nitide immagini anche aeree, come nelle serie americane, mentre al di sotto, tra Palazzo e palazzine, si ravviva la più vera e grande tragedia d’epoca repubblicana ne Il Condannato – Cronaca di un sequestro, film documentario di Ezio Mauro con la regia di Simona Ercolani e Cristian di Mattia (il 16 marzo su Rai3).
Il Fatto 14.3.18
Pd: Perdenti, elusivi e irresponsabili
di Gianfranco Pasquino
La Direzione del Partito democratico aveva un sacco bello di domande politicamente rilevanti alle quali rispondere. Ha deciso, quasi all’unanimità, sette astenuti soltanto, di evaderle. Però è riuscita, nuovamente quasi all’unanimità, a rispondere a una domanda che nessuno ha ancora fatto. In assenza del segretario Renzi che, per correttezza politica, avrebbe dovuto presentare le sue dimissioni al più importante organismo del suo partito, spiegando perché erano necessarie e doverose, la Direzione le ha accettate senza batter ciglio. L’accettazione è stata sanzionata da un inutile tweet di Gentiloni che ha lodato “lo stile e la coerenza politica” di Renzi, facendo finta di non avere letto l’intervista di Renzi al Corriere della Sera nella quale figuravano in maniera prominente le critiche al presidente del Consiglio, il cui governo non avrebbe neppure dovuto nascere dopo la batosta referendaria, e al presidente della Repubblica.
In altri tempi, in altri partiti, dopo una pesante sconfitta elettorale, due milioni e mezzo di voti persi dal 2013 al 2018, più di sette milioni se Renzi continua a intestarsi il perdente bottino del “sì” al referendum costituzionale del dicembre 2016, la Direzione si sarebbe chiesta dove sono finiti quei voti, se si poteva/doveva fare una campagna elettorale meno personalizzata, se invece di parlare di squadra a due punte, in realtà relegando Gentiloni al ruolo di “spalla”, non fosse stato preferibile valorizzare quanto fatto dal governo. Avrebbe cercato di capire che tipo di partito è diventato il Pd: forte nelle città medio-grandi, debolissimo nei Comuni relativamente piccoli; molto votato dalle fasce medio-alte per reddito e istruzione, abbandonato dai settori popolari; evanescente fra gli elettori al di sotto dei 40 anni, presente in maniera cospicua fra gli ultrasessantenni. Il vicesegretario Martina ha accuratamente evitato di discutere di tutto questo che implicherebbe anche una critica severa a un partito divenuto personalista e una ricerca vera di un modello di partito diverso, con qualche radicamento territoriale. Che siano state le candidature paracadutate almeno in parte responsabili dell’emorragia di voti? No, la Direzione di questo tema mondano non si è occupata anche perché avrebbe portato con sé una qualche riflessione sulle modalità di scelta delle candidature e quindi sulla responsabilità non solo del segretario dimissionario, ma anche dei suoi collaboratori, tutti rieletti, seduti nelle prime file. Nulla dirò sulla legge Rosato per non sentire come replica un sospiro e il lamento: “Ah, avessimo avuto l’Italicum…” che non discuto in quanto a esito, quasi sicuramente non favorevole al Pd, ma in quanto alla qualità: cattiva legge elettorale. La Direzione non si è neanche interrogata sui più che mediocri risultati delle piccole liste coalizzate: Civica Popolare del ministro Lorenzin, Insieme dei prodiani, +Europa di Emma Bonino.
Lasciate inevase le domande politiche che segneranno comunque i problemi che il Pd in quanto partito dovrà affrontare per non scomparire, la Direzione ha dato una risposta secca e sommaria a una domanda che non è ancora stata rivolta agli organi statutari: “Staremo all’opposizione”. A prescindere momentaneamente da qualsiasi altra considerazione, il verbo è sbagliato. Poiché attualmente il Pd è al governo con Gentiloni e con un pacchetto di ministri importanti, il verbo giusto è “andremo” all’opposizione. La giustificazione di questo comportamento a futura memoria è semplicemente stupida: gli elettori ci hanno mandato all’opposizione. Sicuramente, non sono stati gli elettori che hanno votato Partito democratico a mandarlo all’opposizione. Anzi, votandolo speravano riuscisse a rimanere al governo. È tuttora probabile che gli elettori del Pd desiderino che il partito protegga e promuova le loro preferenze, i loro interessi, addirittura i loro ideali con impegno, con “umiltà e coesione politica” (seconda parte del tweet di Gentiloni che, evidentemente, sta già sognando un altro partito.
In una democrazia parlamentare multipartitica, chiamarsi pregiudizialmente fuori dalle procedure, consultazioni e confronti programmatici, che conducono alla formazione di un governo, rifiutare il proprio apporto, annunciare un’opposizione preconcetta è un atteggiamento che ho definito “eversivo”. Nel frattempo, già più di una volta, il presidente Mattarella ha richiamato tutti al senso di responsabilità. Esiste una responsabilità nei confronti dei propri elettori, ma c’è anche una responsabilità superiore, quella nei confronti della democrazia parlamentare: responsabilità nazionale. Chi si rifiuta di contribuire alla soluzione del rebus prodotto dai partiti e dai loro dirigenti agevolati da una pessima legge elettorale che ha dato loro troppo potere a scapito di quello degli elettori è irresponsabile. Se rende impossibile qualsiasi soluzione il suo comportamento merita di essere definito eversivo.
Il Fatto 14.3.18
Giusto appoggiare M5S, quindi il Pd non lo farà
Paradossi. La sinistra ha da tempo lasciato la propria ragione di vita, si tratta di decidere come suicidarsi
di Curzio Maltese
Eurodeputato Gue-Ngl
Caro Direttore, sono d’accordo con Massimo Cacciari, l’unica salvezza per il Pd sarebbe di appoggiare la nascita di un governo 5 Stelle. Per questo escludo che possa accadere. Il Pd corre da anni verso l’autodistruzione e nessun discorso razionale può distoglierlo dal cupio dissolvi. Renzi è soltanto l’epigono di un lungo processo di separazione fra la sinistra tutta, riformista e radicale, dal proprio popolo. Il Pd e la sua miniatura, LeU, hanno preso il 19 e 3 per cento, ma rispettivamente il 10 e l’1 fra operai, giovani precari e disoccupati. A ragione, perché non se ne sono mai interessati e quando l’hanno fatto (Jobs Act) sarebbe stato meglio se non l’avessero fatto. La stessa scissione che ha dato poi vita a LeU non è avvenuta sulle politiche del lavoro, ma sulla legge elettorale, come si capisce un tema cruciale per i milioni di poveri e impoveriti d’Italia.
Una sinistra che non difende i deboli, in un mondo di crescenti ingiustizie, non serve a niente e a nessuno. Si comporta come i Dodo, la simpatica specie di volatili che depositava le uova a terra per facilitare il lavoro dei predatori. La sinistra ha da tempo depositato a terra la propria ragione sociale e di vita, la tutela del diritto al lavoro e a un reddito dignitoso, alla mercè di qualsiasi concorrenza politica.
Si tratta allora di stabilire qual è per il Pd il modo più indolore di suicidarsi. Dalle cose terribili che Renzi e Orfini e gli altri dicono circa una possibile alleanza con i grillini, ma soprattutto da quelle che non dicono, se ne evince che siano tentati dall’alleanza con la destra a guida Salvini. Uno scenario da film horror e dunque, visti i protagonisti, piuttosto plausibile. Proviamo a immaginare. Dopo aver sbandierato la distanza dei propri valori dal populismo di Di Maio e compagni, il Pd s’impiccherebbe a un accordo con i populismi assai più beceri di due fra le peggiori destre europee. Questa soluzione presenta agli occhi dei vertici del centrosinistra un paio di vantaggi. Anzitutto una bella ammucchiata per impedire al partito di maggioranza relativa di guidare il governo costituirebbe un modo per Renzi e i suoi di passare alla storia. In negativo s’intende, non riuscendovi in altro modo. Non è infatti mai accaduto nella storia della Repubblica che il partito di maggioranza relativa fosse confinato all’opposizione. Perfino quando il vantaggio del primo partito sul secondo era di pochi decimali, figurarsi ora che ha quasi il doppio dei voti. In secondo luogo, nella logica di disperdere a schiaffi in faccia il proprio elettorato, riesce difficile immaginare mossa più geniale dell’abbraccio a Berlusconi e Salvini. Sarebbe questa una morte più lenta del Pd, sia pure fra spasmi atroci e ulteriori scissioni. Massì, una più, una meno.
L’intellighenzia del Pd _ i compagni di strada del renzismo sparsi nei media che in questi anni hanno tanto e ben consigliato il loro leader _ tuttavia propendono, o dicono di preferire, una buona morte. Si tratta, come suggerisce il Foglio, di rimanere all’opposizione senza se e senza ma, aspettando sulla riva del fiume il cadavere di un’alleanza fra leghisti e grillini che non si farà mai. Questa strada, se Di Maio e Salvini non sono imbecilli, condurrebbe a elezioni anticipate per consentire a 5 Stelle e Lega di spartirsi le spoglie di quanto resta del berlusconismo e del suo imitatore.
Fra tutte, in ogni caso, è questa la soluzione più limpida. Fare come nei paesi normali, dove se non c’è maggioranza, si torna alle urne. Magari con una legge elettorale non incostituzionale, così, per provare il brivido. In questo modo saranno gli elettori del centrosinistra a scegliere fra qualche mese se preferiscono un governo Di Maio o Salvini e non i loro dirigenti, dei quali a questo punto tenderei a non fidarmi.
Repubblica 14.3.18
La direzione Pd come un bus tutti a guardare lo smartphone
Mentre parla Martina molti big in prima fila sono distratti dal cellulare. Esattamente come fa anche il resto dell’Italia
di Stefano Bartezzaghi
A giudicare dall’immagine della riunione della direzione del partito, la prima dopo la scoppola elettorale e le dimissioni di Matteo Renzi, più che di un Pd allo sbando pare il caso di parlare di un Pd allo smartphone. L’ampiezza del grandangolo con cui è stata scattata la foto in alto, pubblicata su queste pagine ieri, permette di abbracciare la scena. L’oratore era il segretario reggente Maurizio Martina; Michele Emiliano stava in piedi, poggiato al battente della porta di uscita, come se fosse pronto a filarsela. La bella sala era gremita, più di 150 posti a sedere occupati e una piccola folla in piedi in fondo. In prima fila sedeva una dozzina di pezzi grossi (Gentiloni, Franceschini, Fiano, Damiano…), in maggior parte sorpresi dal fotografo nell’inequivocabile atto di compulsare il rispettivo smartphone. Chi nella modalità immersiva, gomiti sulle cosce e postura china sul monitor; chi, invece, nella modalità distanziante, tipica della presbiopia, che costringe ad allontanarsi per distinguere.
Ivan Scalfarotto non aveva lo smartphone ma fissava il vuoto, apparentemente attonito, come qualcuno che abbia finito credito e giga sul più bello. E intanto Martina parlava.
Questa, la foto. Bisogna tuttavia fare molta attenzione prima di trarre qualsiasi conclusione dalla realtà che essa ci mette davanti. È il ritratto di un partito che fa una cosa vecchia, come una riunione di organi dirigenziali? Sì, e tutti sanno che sono circostanze che portano a distrarsi: lo si è sempre fatto, anche prima che la tentazione dello smartphone potesse renderlo evidente (e fotografabile). È il ritratto di quel partito autoreferenziale, lontano dalla gente, di cui si parla per spiegarne la pessima riuscita elettorale? Eh no, questo non lo si può dire: i membri di un partito autoreferenziale starebbero attentissimi, non ammetterebbero alcuna interferenza esterna mentre parlano di sé. Se fossero poi tanto lontani dalla gente, allora non farebbero proprio ed esattamente quello che, in Italia, fanno tutte le genti di ogni età, origine e ceto: cioè stare in eterna contemplazione del proprio smartphone. Magari l’italiano medio (quindi, non del Pd) quando prevede che la riunione lo annoierà non si siede in prima fila, dove i fotografi ti beccano subito a digitare, ma queste sono sfumature.
Un’altra cosa su cui occorre usare cautela e non essere frettolosi è il presupposto per cui lo smartphone sarebbe veicolo esclusivo di intrattenimenti più o meno leciti e più o meno stupidi. La direttrice dell’Economist ha raccontato di avere sgridato il figlio adolescente che aveva sempre in mano l’iPad e gli aveva ingiunto di posarlo. E il figlio protestò: «Ma mamma, stavo leggendo l’Economist!».
Nulla ci lascia pensare che ministri tuttora in carica e funzionari stessero giocando a Candy Crush Soda Saga, flirtassero con altri partecipanti alla riunione o chattassero malevolenze su avversari di corrente. Magari leggevano l’Economist. Parimenti, il Paese Reale su Facebook fa conoscenza di molti gattini, della situazione meteo di molte città e dell’umore di tanti contatti che odiano il lunedì; sempre su Facebook, però, vengono pubblicati link ad articoli e saggi per leggere i quali un tempo occorreva seguire riviste difficilmente reperibili e da questi, ma anche da commenti meno banali, si imparano tante cose. Quando entriamo in un bus o in una metro in cui tutti guardano lo smartphone, come se fossero in una riunione del Pd, perché siamo tanto sicuri che tutti stiano trastullandosi? È probabile, d’accordo: ma non è sicuro. E non è neppure molto interessante perché, con i social network, la questione non è tanto quella dei loro «contenuti»: è quella del ritmo, la sensazione che stia sempre succedendo qualcosa e che a dare un’occhiata non ci sia nulla di male. Diventa una compulsione: a teatro (ultimo caso proprio lo stesso giorno, a Catania dove Raoul Bova e Chiara Francini hanno interrotto lo spettacolo per protesta contro il pubblico telefonante), nelle aule, mentre si lavora e (già) persino mentre si guida.
Il Pd non è autoreferenziale, è distratto: e lo è al punto da distrarsi persino da sé stesso. In questo, è come noi. Sia detto senza ingiuria per nessuno.
Il Fatto 14.3.18
Sempre meno uguali, sempre più poveri: la vera analisi del voto
di Alessandro Robecchi
È un vero peccato che le pagine dell’economia, sui quotidiani italiani siano così lontane da quelle della politica. È come fare un salto dal paese surreale al paese reale, come quando, usciti da teatro, si torna a casa, nella vita vera. All’inizio, per milioni di righe, ci becchiamo le contorsioni delle grandi manovre, le ipotesi, i retroscena. La crisi coniugale in atto nel centrodestra tra Salvini e Silvio Restaurato, o i cinquestelle che mettono su una faccia istituzionale e fanno di tutto per mostrarsi i più democristianamente misurati. Del Pd, ormai sempre più simile a una rappresentazione de L’ispettore generale di Gogol’ non ha senso dire e contano soltanto il chiacchiericcio pettegolo e la spigolatura, al massimo la nuova cartografia delle correnti, con enormi mappe di zone misteriose dove campeggia la scritta Hic sunt renziones, e ci sono macerie. E poi c’è la più o meno raffinata analisi di cause e concause, cioè il “come siamo arrivati a questo punto”.
Ecco.
Per suggerire una lettura di primo livello, per chi ancora ha il novecentesco vezzo di collegare la politica ai bisogni reali delle persone, basterebbe dare un’occhiata anche veloce allo studio di Bankitalia su reddito, ricchezza, crescita e diseguaglianze. Qualche numeretto, qualche linea di grafico che va su e giù, ed ecco in due minuti il “come siamo arrivati fin qua”, spiegato bene.
Quasi 14 milioni di italiani vivono con meno di 830 euro al mese, uno su quattro. Sono più poveri i giovani (il 30 per cento ha meno di 35 anni), sono più poveri al Sud (40 per cento). Tra il 2006 e il 2016 (dieci anni in cui hanno governato un po’ tutti gli attori della pièce qui sopra, spesso intrecciati in amorosi sensi) il rischio povertà per i capifamiglia tra i 35 e i 45 anni è passato dal 19 al 30 per cento, che vuol dire che quasi una famiglia su tre teme lo scivolamento verso il proletariato, categoria numerosa di cui nessuno si occupa (nemmeno degni di 80 euro, per dire: troppo poveri).
L’indice Gini, quello che misura il tasso di diseguaglianza, è aumentato in dieci anni di un punto e mezzo. Questo significa che pochi ricchi sono diventati più ricchi e che molti poveri sono diventati più poveri. E questo è avvenuto con Prodi, Berlusconi, Monti, Letta e Renzi e tutto il cucuzzaro, con buona pace di quelli che dicono che “serve stabilità”. Più stabili di così si muore: la tendenza è dritta come un fuso e premia la diseguaglianza. Si dirà: la crisi, le circostanze, il contesto. Bene. E poi si scopre (sempre Bankitalia) che quando arriva una ripresina non la vede nessuno: nel 2017 il Pil è salito del 1,5 per cento, mentre alle famiglie è arrivato solo lo 0,7, la metà.
Si capisce quindi il comprensibile astio di chi, in condizioni di sofferenza, non solo si vede arretrare, ma osserva altri avanzare, toccando con mano un’ingiustizia palese e offensiva. Si collabora alla ripresa, si lavora con meno diritti, con meno salario, con meno sicurezze, e poi quando la ripresa arriva (la più piccola in Europa) non si vedono nemmeno le briciole. Fa un po’ incazzare, specie poi quando vedi un partito asserragliato nelle zone ricche del paese e delle città, magnificare le sue politiche “di sinistra”, snocciolare numeri trionfali (e spesso falsi) sul lavoro dimenticandosi i working poors, cioè milioni di cittadini che, pur lavorando, restano poveri, anzi lo diventano di più. Con la destra, con il centrosinistra, con i tecnici, con i rottamatori, con i posati statisti, la diseguaglianza economica nel Paese è aumentata senza soste, costante, implacabile.
Poi naturalmente uno può anche appassionarsi alla segreteria Martina, alle manovre di Salvini, alle tattiche di Di Maio o agli appelli di Mattarella: è come leggere la rubrica “strano ma vero” sulla Settimana Enigmistica, deliziosamente insignificante.
Il Fatto 14.3.18
Il totogoverno come il calciomercato: chi vince si sa alla fine
di Peter Gomez
Avviso ai naviganti, o meglio ai miei otto lettori: in questi giorni articoli, servizi televisivi, editoriali e interviste sulla formazione di un nuovo governo a politici o a sedicenti esperti vanno affrontati con lo stesso spirito con cui si segue il calciomercato. Giusto entusiasmarsi, giusto sognare, sbagliato invece crederci. Perché buona parte di quello che viene pubblicato o detto ora è falso o ampiamente esagerato. Di sicuro c’è solo che per arrivare a un esecutivo qualsiasi ci vorranno ancora settimane e che il campionato, quello vero, inizierà il 23 marzo. Se quel giorno, come prevede il calendario, verranno davvero eletti i presidenti delle Camere si potranno cominciare a misurare le forze in campo e pensare agli incontri successivi. Tenendo conto però di un importante fattore: Movimento 5 Stelle e Lega giocano tutte le partite in casa. A Matteo Salvini e a Luigi Di Maio basta parlarsi per telefono per decidere di staccare la spina e di mandare gli italiani ai tempi supplementari: a un nuovo voto che si trasformerà in un ballottaggio tra pentastellati e centrodestra. Dal punto di vista della democrazia, anzi, questa sarebbe la soluzione migliore. In assenza di una legge elettorale decente, un secondo turno nazionale, con altissima probabilità di stabilire chi in Parlamento ha i seggi e chi no, sarebbe una bella risposta ai tatticismi, paure e roboanti dichiarazioni.
Le migliori in questa fase sono quelle di alcuni esponenti del Partito democratico, a partire dagli ultrà sconfitti renziani. Dire che il Pd starà all’opposizione è corretto e bellissimo, perché è vero che il 4 marzo va letto anche come una sonora bocciatura della loro esperienza di governo da parte degli elettori. Solo che se non ci sarà un esecutivo, e quindi una maggioranza, non ci sarà nemmeno un’opposizione. Ci saranno le urne. Se davvero le vogliono si accomodino.
Non male nemmeno le affermazioni del forzista Maurizio Gasparri che dopo la sua straordinaria Ode in rima al campionato (quello calcistico, non quello politico) ai microfoni di un Giorno da Pecora si sbilancia e assicura che Paolo Romani presidente del Senato è l’uomo giusto al posto giusto. Tralasciando un particolare: Romani è un condannato definitivo per peculato. Quando era assessore a Monza aveva trovato comodo dare il proprio telefono cellulare di servizio alla figlia, finendo così per risarcire bollette per quasi 10 mila euro.
Ora se si vuole far partire la legislatura col piede giusto, dimostrando di aver compreso il tipo di messaggio inviato alla politica dai cittadini stanchi della Casta, siamo sicuri che l’idea di puntare su Romani sia tra quelle da definire geniali? Belle sono comunque anche le uscite di chi invece vuole Roberto Calderoli seduto sullo scranno più alto di Palazzo Madama: non tanto e solo per l’abilità dimostrata nell’ideare una legge elettorale incostituzionale e con sincerità ribattezzata Porcata. A rendere insuperabile il progetto sono le foto di Calderoli con relativo maiale al guinzaglio che si trovano in Rete, evidente segno di compostezza istituzionale, e le dichiarazioni che dimostrano la sua sagacia: “Io su di me non avrei puntato una lira”. Ecco, se l’obiettivo è quello di far salire il Movimento 5 Stelle al 51 per cento, queste sono le scelte azzeccate. Oppure ammettiamolo: siamo ancora alle cronache del calciomercato. Chi vince e chi perde lo si saprà solo alla fine del girone di ritorno. Sperando che alla fine gli sconfitti non siano i cittadini.
il manifesto 14.3.18
Per la sinistra il 4 marzo segna più la fine che l’inizio di un processo
Dopo il voto. Se gli operai di Taranto o del Sulcis votano in massa i 5Stelle mentre al Nord la Lega sfondava anche nei punti forti del sindacato, non è solo la promessa di un reddito
Operazioni di voto a Firenze
di Alfonso Gianni
È proprio vero che Dio (o Giove nella versione pagana) acceca chi vuole perdere. Il responso del 4 marzo è stato spietato con la sinistra.
Non era inatteso, anche se non in queste proporzioni. Un’aggravante per chi non ha saputo leggere i processi in atto da diverso tempo.
La prova controfattuale non c’è ma potrebbe venire in soccorso il buon senso: se alla sinistra del Pd si fosse costruita una sola lista, unitaria seppur con differenze, si sarebbe almeno evitato di disperdere qualche centinaia di migliaia di voti.
Forse si sarebbe dato un segnale di inversione di tendenza avverso alla frammentazione, tale da motivare o rimotivare al voto più d’uno. Forse. Era certo difficile costruire una lista simile, ma non impossibile. Non stava scritto in alcun destino, per quanto cinico e baro, che ci si dovesse presentare a un elettore già colmo di motivati sospetti e rancori, oltre che deboli anche divisi e tra di noi rissosi.
Non ha prevalso l’impossibilità, ma la non volontà, più o meno palese, i veti incrociati, come si suole dire, dei presunti gruppi dirigenti.
Tanto è vero che neppure di fronte alle macerie di adesso si nota qualche resipiscenza. Ancora non si comprende o meglio – facendo salva l’intelligenza di ognuno – non si vuole accettare che questo 4 marzo rappresenta più la melanconica fine che non l’inizio di un processo.
Dall’autoreferenzialità della politique politicienne, così come dall’autorappresentazione delle lotte sociali non viene né una sufficiente resilienza sul terreno elettorale, né tantomeno la costruzione di una sinistra politica, attiva nelle istituzioni come e soprattutto nella società.
La parola “sinistra” nell’immaginario collettivo ha perso di senso, al punto da non venire nemmeno usata più per connotare i simboli elettorali.
Non ovunque è accaduto così.
In altri punti del mondo o di questa nostra Europa, vi sono luoghi ove a quel nome corrispondono ancora in modo riconoscibile idee, comportamenti, forze politiche. Ma accade nel paese la cui storia, nella fase centrale del secolo scorso, è stata segnata dalla presenza del più grande partito comunista dell’occidente.
Ciò che appare un paradosso spiega invece quello che è avvenuto.
La rivoluzione conservatrice del neoliberismo non avrebbe potuto trionfare così facilmente nel nostro paese, se non avesse potuto in primo luogo affondare il coltello nel ventre molle dei gruppi dirigenti di una sinistra che ha assorbito, in una sorta di progressivo autoavvelenamento, a tal punto le idee di quello che era il suo avversario, da portarvi persino originali contributi, come il social-liberismo, che ha cercato di mitigare i feroci meccanismi di accumulazione con un po’ di redistribuzione. Ma le politiche di austerity, consacrate da noi perfino con la modifica costituzionale sul pareggio di bilancio, hanno tolto ogni velleità anche in quel senso.
Inutile stupirsi se gli operai di Taranto o del Sulcis votano massicciamente per i 5Stelle, mentre a Nord già da tempo la Lega sfondava anche nei punti forti del sindacato, e nei distretti industriali del CentroItalia il Pd crolla.
Non è solo la promessa di un reddito – non di cittadinanza ma più semplicemente «un reddito minimo condizionato alla formazione e al reinserimento lavorativo» secondo il ministro in pectore Tridico – né solo la penetrazione di pulsioni nazionalistiche e xenofobe anche nelle classi lavoratrici a produrre quell’esito elettorale. Piuttosto il fatto che gli operai da attori di un processo sociale sono diventati pubblico, considerati come quelli delle ultime file.
L’esito del voto ha solo evidenziato e accelerato una trasformazione in atto da tempo, entro cui si consuma il destino della stessa sinistra d’alternativa.
Il tentativo di stravolgere la Costituzione è stato respinto. Ma le forze che l’hanno proposto lo rivendicano e ne minacciano la riproposizione a breve, come ribadisce Renzi in una recente intervista al Corriere della Sera.
Il finanzcapitalismo non da oggi si è scisso dalla democrazia. Ne vuole e ne può fare a meno. Gli basta mantenere in piedi un simulacro. Qui sta la radice del presunto primato della governabilità sulla rappresentanza.
In questo quadro non possono esistere a lungo movimenti o forze antisistema.
Nel breve volgere di pochi mesi, sia nella Lega che nei 5Stelle, sono venute meno o si sono fortemente ammorbidite le spinte secessioniste e antisistemiche. Così come l’antieuropeismo.
Per questo i mercati finanziari non hanno mostrato alcuna fibrillazione né prima né dopo il 4 marzo. E il temutissimo spread si è mantenuto molto al di sotto dei livelli di guardia.
scontro, con buona pace degli editorialisti del Sole24Ore, tra l’Europa di Ventotene e quella di Visegrad non c’è stato perché la prima non è mai stata in campo, essendoci quella reale di Maastricht e del fiscal compact.
E il compito di una sinistra d’alternativa è come combattere decisioni e direttive di quest’ultima, senza dare spazio alle pulsioni filoVisegrad. Sarà il tema delle prossime elezioni europee. Proprio per tutti questi motivi appare stravagante che a sinistra del Pd si discuta prioritariamente come atteggiarsi rispetto al governo che verrà, per di più con una simile modesta rappresentanza parlamentare che la ridurrebbe a forza di complemento del vincitore. Se qualcuno pensa di scavalcare il Pd quanto a “responsabilità” è fuori strada. Il problema è costruire la sinistra, e prima ancora ridare a questa parola senso.
Revelli ci invitava a ricominciare a pensare, citando Montale. Ma farlo in modo disperso e contrapposto sarebbe poco utile. Credo che questo giornale abbia le carte in regola per prendere un’iniziativa in questo senso.
Perché, sempre citando un Montale più tardo, a sinistra siamo come «Una tabula rasa; se non fosse / che un punto c’era, per me incomprensibile, / e questo punto ti riguardava» (il corsivo è del poeta).
il manifesto 14.3.18
Il silenzio «negazionista» della politica
di Cheikh Tidiane Gaye
Possiamo liquidare come una pura coincidenza quanto accaduto a Firenze? Direi assolutamente di no. Abbiamo seguito una campagna elettorale molto tesa, centrata per lo più sul tema dell’immigrazione, durante la quale abbiamo sentito dichiarazioni di stampo razzista, programmi politici che premiano solo gli italiani a scapito di cittadini non italiani. Siamo di fronte dunque ad un risultato politico che ha premiato i partiti che maggiormente hanno “sputato” sugli immigrati. Tutti i mezzi sono buoni per vincere le elezioni. Non c’è una morale che tenga.
All’indomani del voto assistiamo alla tragica e feroce morte di Idy Diène, 54 anni, padre di famiglia e residente in Italia da molti anni. È importante ricordare che la vittima era il marito della vedova di una delle vittime uccise da Cassieri nel 2011, sostenitore di CasaPound.
Fino ad oggi la politica italiana ha continuato a far finta di nulla. L’uccisione del nostro connazionale Diène non viene connessa ad una matrice di stampo razzista, ma anzi ci fanno credere che l’assassino voleva suicidarsi. Ora ci tocca riflettere profondamente senza nessuna dietrologia. In tutto ciò che sta accadendo sarebbe ingiusto dire che stiamo vivendo una vera caccia ai neri? C’è veramente una volontà politica di fermare questa deriva razzista? Le domande sono molte, la speranza di trovare una risposta è auspicabile, ma il dubbio che non si voglia una soluzione è la più probabile risposta che si possa immaginare. Da Salvini a Meloni, da Berlusconi a Renzi, le proposte sull’immigrazione fin qui presentate e sentite non sono rassicuranti.
Non possiamo tacere di fronte a queste ingiustizie. Non si può non coinvolgere la classe politica a ripensare a delle strategie, politiche, sociali e culturali per fermare l’odio verso gli immigrati. Non possiamo allo stesso tempo non puntare il dito sulla nostra classe politica, molto debole e molto superficiale sul tema dell’immigrazione, ma è ancora più evidente che non possiamo continuare a tacere di fronte a una politica di “centrosinistra” che continua a strumentalizzare la questione immigrazione senza dare una risposta idonea al problema. Ricordo che gli slogan che sentiamo ogni giorno contro gli immigrati e soprattutto contro i neri ci ripropongono l’incapacità delle nostre istituzioni politiche a dare risposte adeguate. Siamo in Italia o in Alabama?
Ora ci vogliono azioni ferree. È compito della Repubblica garantire la sicurezza a tutti i cittadini indipendentemente dalla loro provenienza, dal colore della pelle, dalla religione. Ad oggi sembra che la caccia ai neri stia per iniziare. La lista non sarà esauriente ma tentiamo di dare un paio di esempi: i ferimenti a Macerata, lo sfruttamento nei campi di Castel Volturno e nelle periferie calabresi eccetera mostrano che i neri subiscono politiche discriminatorie ogni giorno. Che la politica fiorentina assuma le sue responsabilità. Con l’intitolazione di una strada ai caduti senegalesi, Nardella potrà ricomporre il tessuto sociale e fermare i fautori e simpatizzanti di CasaPound. Sarebbe anche auspicabile il conferimento della cittadinanza onoraria agli attuali familiari delle vittime.
Infine, mi pongo alcune domande: se la vittima fosse stata italiana la valutazione sarebbe la stessa? Non penso. La magistratura deve fare il suo lavoro tenendo conto che siamo nel 2018, quando ormai i tempi dell’uccisione di neri ed ebrei appartengono al passato. Vogliamo che venga fatta luce su questa deriva razzista. In quanto uomini, cerchiamo in ogni momento di cambiare il corso della storia. Abbiamo il dovere di costruire una città senza muri, un mondo basato sui principi di eguaglianza, di pace, di solidarietà e soprattutto di amore tra i popoli. Favorire questi ideali dovrebbe essere il cardine delle priorità che la nuova generazione di politici italiani dovrà proporre per sanare la piaga ancora aperta del fascismo.
A noi non resta che piangere i nostri morti, da soli, in un paese che continua a costruirsi grazie al sudore di milioni di immigrati onesti che si sentono a tutti gli effetti italiani.
Il Fatto 14.3.18
Il ministro ultrà ingabbia gli 007 anti-neonazisti
Il volto del potere - Kickl, esponente del partito di estrema destra starebbe bloccando le indagini su un sito legato alla sua compagine
di Mattia Eccheli
A pochi mesi dalla presidenza di turno del Consiglio dell’Unione europea, l’Austria ha decapitato i vertici del proprio servizio segreto e antiterrorismo, il Bvt. Il numero uno, Peter Gridling, è stato confermato e subito sospeso nel suo incarico dal ministro degli Interni Herbert Kickl perché è indagato dalla Procura anticorruzione. Quello che finora era il suo sostituto, Wolfgang Zöhrer, non lavora più e il responsabile dello strategico Dipartimento II, Martin Weiss, è in aspettativa da un anno. La guida degli 007 del paese è stata affidata a Dominik Fasching, vice di Gridling, ma senza la sua esperienza. Alla vigilia dei vertici tra capi di governo e ministri, l’assenza di una figura chiave e conosciuta nell’ambiente rischia di non giovare alle strutture di sicurezza e, soprattutto, di incidere negativamente sulle relazioni tra le organizzazioni gemelle.
Il ministro degli Interni, esponente della Fpö, il partito della libertà, il movimento di estrema destra che nel 1999 con Jörg Haider alla guida aveva sfiorato il 27% dei consensi, ha provato a minimizzato la vicenda. L’ipotesi che la Fpö stia cercando di rimpiazzare i vertici con dirigenti più vicini è stata respinta da Kickl: “Se Gridling risulterà estraneo alle accuse tornerà in servizio”, ha spiegato. La sospensione, insomma, sarebbe un atto dovuto sia a garanzia della presunzione di innocenza sia della necessità di garantire le funzioni del Bvt.
La rivista Falter ha rivelato come il presidente della Repubblica, il 74enne verde Alexander Van der Bellen, avesse firmato il decreto di (ri)nomina già il 19 febbraio. Vale a dire una decina di giorni prima della sorprendente perquisizione effettuata nelle abitazioni di 5 funzionari e negli uffici della Bvt.
Dalla scrivania di una dirigente sarebbe sparito anche un disco rigido con dati relativi a indagini su neonazisti con possibili legami con la Fpö. Secondo la stessa testata, gli 007 stavano tenendo sotto osservazione Unzensuriert (senza censura), una piattaforma lanciata nel febbraio del 2009 e vicina al partito della libertà. Il portale era diretto da Alexander Höferl, oggi alla guida della comunicazione del ministero degli Interni. “Unzensuriert” è stata condannata a risarcire per calunnia sia un giornalista della tv pubblica sia la vice-sindaca della capitale. Quello che non è chiaro è a che titolo il disco rigido possa venire ricondotto all’inchiesta, che riguarda l’uso improprio di informazioni, relative a quanto pare alla Corea del Nord.
Il cancelliere austriaco è il 31enne conservatore Sebastian Kurz (Övp), che ha “scaricato” i socialdemocratici per formare il governo con gli anti europeisti della Fpö. A sinistra si ipotizza che il partito della libertà stia cercando di “plasmare” l’intelligence, ammorbidendone la sensibilità nei confronti dell’estremismo di destra. Al centro non ci si spinge così lontano, ma Werner Amon (Övp), presiede la sottocommissione di controllo sui servizi segreti, ha difeso l’operato del capo degli 007. A suo giudizio la Bvt ha “fornito un lavoro eccellente” negli ultimi anni e con Gridling “c’è stata sempre una ottima collaborazione”. Il vice cancelliere, Heinz-Christian Strache (Fpö), su Facebook aveva parlato del Bvt come di “uno stato nello stato”. La battaglia politica austriaca si consuma a spese della sicurezza. Senza esclusione di colpi. In attesa che la magistratura faccia luce sulle presunte violazioni compiute da Gridling e dai suoi funzionari.
Corriere 14.3.18
Gina, una donna per la Cia con l’ombra lunga delle torture
Coordinò le operazioni antiterrorismo più contestate
di Guido Olimpio
Il passato è la sua forza, il passato può essere la sua croce. Per forza di cose quando si parla della nuova direttrice della Cia, Gina Haspel, dobbiamo voltarci indietro e lo farà anche lei. Sarà costretta quando sarà esaminata dal Congresso dove le faranno domande scomode. E si aspetteranno risposte nitide. C’è chi avrà comprensione in nome della «sicurezza dei cittadini» e chi riterrà che quelle macchie — le torture — non possano essere cancellate. Le associazioni per i diritti umani la considerano «una criminale», in Germania, nel 2017, hanno chiesto alla Procura di spiccare un mandato di cattura nei suoi confronti.
La storia della Haspel, 61 anni, si intreccia con gli anni della lotta al terrorismo. Lei è entrata nell’Agenzia nel lontano 1985, allora la minaccia veniva dai dirottamenti e dalle valigie-bomba, successivamente ha ricoperto incarichi all’estero, compreso uno alla «stazione» di Londra. Grande lavoratrice, abile nei rapporti all’interno di un apparato mostruoso e cannibale, la Haspel ha partecipato al programma segreto lanciato dopo l’11 settembre. La Cia ha creato in numerosi Paesi prigioni clandestine dove ha poi rinchiuso persone accusate di far parte di Al Qaeda. Alcuni lo erano per davvero, altri meno. Non pochi sono stati sequestrati da commando nelle vie di una città: avvenne a Milano nel febbraio 2003 con l’imam egiziano Abu Omar, finito poi al Cairo. Diversi sono stati «presi in consegna» in collaborazione con servizi amici. Un piano varato da George W. Bush che è chiaramente sfuggito di mano. Troppi volevano mettersi una tacca sul cinturon e.
In una di queste operazioni, nel 2002, Miss Gina ha coordinato Cat’s Eye, carcere top secret in Thailandia. Da qui sono passati Abu Zubayda e Abd al Rahim al Nashiri, qaedisti fino al midollo. Il primo è stato sottoposto alla tecnica che simula l’annegamento — waterboarding — 83 volte, privato del sonno, percosso, quindi infilato in una «scatola» in ferro. Il trattamento fu così feroce che ritennero ad un certo punto che il terrorista fosse spirato. Molte di quelle sessioni vennero filmate e registrate. I video, però, non esistono più perché la Cia — per ordine dell’alto funzionario Jose Rodriguez, superiore di Gina — li ha distrutti senza chiedere alcuna autorizzazione, mossa nella quale la Haspel ha avuto un ruolo e, stando ai critici, avrebbe manovrato a lungo per ottenere la cancellazione.
Dopo l’esperienza thailandese la spia è tornata a Langley, nell’ufficio antiterrorismo, ed ha proseguito la sua carriera, in grado di resistere alle indiscrezioni su quanto era avvenuto e alle battaglie politiche all’esterno. Nel 2013 stava per essere nominata responsabile delle operazioni clandestine, ma la promozione è saltata all’ultimo istante proprio per l’opposizione sul suo nome e le vecchie missioni. Non è stata però una bocciatura totale. Obama non ha mai avuto l’intenzione di perseguire gli 007 e con l’avvento di Trump la prospettiva è cambiata: quegli agenti erano dei «patrioti», la tortura ammissibile. La veterana ha così superato la tempesta per riemergere fino a diventare la numero due dell’Agenzia. E di fatto ha mandato avanti l’intelligence mentre il direttore Mike Pompeo — un politico — si dedicava alla parte ufficiale. Ora si prende il vertice, posto che a giudizio di molti le spetta. Una conferma delle quote rosa nel «sistema».
Le donne rappresentano Il 45% del personale e il 35% dei quadri graduati. Certo, non mancano discriminazioni e ingiustizie, ma con il tempo sono riuscite a farsi spazio. Con l’impegno e il sacrificio. Famosa un’altra Gina, Gina Bennett: faceva parte della banda delle sei, le donne che hanno partecipato alla caccia a Osama. Fu lei a scrivere uno dei primi report su Bin Laden a metà degli anni 90. Diverse sono ricordate con una stella sul muro dei caduti al quartier generale. Barbara Roberts morta nel Sud Vietnam nel 1963, Monique Lewis dilaniata insieme al marito da una bomba a Beirut nell’83, Jennifer Matthews responsabile della base di Khost, Afghanistan, e uccisa da un kamikaze. Combattenti di una guerra che non finisce mai. Tantomeno per un falco come la Haspe l.
Repubblica 14.3.18
A capo della Cia. Gina Haspel
La prima donna a guidare le spie Con lo scheletro “waterboarding”
di Vittorio Zucconi
Sarà la prima “Woman in Black” della storia americana, la prima spia professionale femmina chiamata a guidare il mondo in nero della Central Intelligence Agency. Chiusa nella oscurità di una lunga carriera “undercover”, prima nel palazzo dei misteri a Langley, nei sobborghi di Washington, dove entrò trentenne nel 1985 e poi a capo delle “black op”, degli interrogatori e delle torture dei sospetti jihadisti, Gina Cheri Haspel è la smentita vivente ai luoghi comuni sulle donne dai teneri cuori e dai facili sentimentalismi. Di lei conosciamo le azioni, la sua spietata, implacabile direzione di uno dei più atroci centri per interrogatori segreti e torture.
L’agente con licenza di torturare fu costretta a uscire dalla penombra nella quale aveva lavorato per i suoi primi anni alla Cia nel 2006 quando esplose il caso delle “extraordinary rendition”, del trasporto di prigionieri sospetti di legami col terrorismo in carceri e lager fuori dal territorio americano, per aggirare il divieto di tortura previsto tanto dalla legge civile quanto dai codici militari.
Gina era stata responsabile dell’Operazione Cat’s Eye, Occhio di Gatto, del centro segreto in Thailandia dove la Cia inviava chiunque potesse conoscere i meccanismi, gli uomini, i piani di Al Quaeda e dell’Isis.
Uno che ebbe la sfortuna di finire nell’Occhio di Gatto fu Abu Zubahyda, catturato in Afghanistan dove guidava un campo di addestramento per jihadisti. Dall’incontro con Gina, Zubayhad uscì dopo 83 trattamenti di “waterboarding” in un mese, la tortura dell’acqua per simulare l’annegamento, e senza un occhio, perduto per avere avuto il capo sbattuto più volte contro il muro. Dal suo calvario non uscì invece nessuna informazione utile all’antiterrorismo e fu rispedito a Guantanamo. Era stato tormentato inutilmente. Ma la verità sul lager thailandese era arrivata, come già quella su Abu Grahib, il carcere degli orrori a Baghdad, ai giornali americani e quando Nostra Signora dei Sospiri fu scelta per diventare la numero due della Cia, senatori e senatrici democratiche, come Dianna Feinstein della California, si opposero e rivelarono al mondo i dettagli del suo lavoro in Thailandia. Ancora più imbarazzante, per lei, fu la scoperta che i video, le foto e la documentazione sulle torture erano stati distrutti per ordine suo diretto.
Precedenti, proteste e denunce, come quella sporte da vari centri europei e americani per i diritti civili che non fermeranno l’approvazione del Senato, non soltanto sono stati dimenticati, ma sono divenuti titoli d’onore ora che nello Studio Ovale siede un presidente che ha apertamente sdoganato le torture e il waterboarding come legittimi strumenti di antiterrorismo. Il gatto ha strizzato benevolmente l’occhio alla “Woman in Black”.
Corriere 14.3.18
«Ora una linea più radicale Ma il team sarà compatto»
di G. Sar.
WASHINGTON «La squadra ora è più compatta, ma anche meno moderata». Charles Kupchan, 59 anni, è stato uno dei consiglieri di Barack Obama dal 2014 al 2107, con delega sull’Europa. Ora è tornato al suo lavoro di analista al Council on Foreign Relations di Washington. È anche docente di Affari internazionali alla Georgetown University.
Che cosa cambia con l’uscita di Rex Tillerson e l’arrivo di Mike Pompeo?
«Tutti sapevamo da mesi che ci sarebbe stato questo cambio. Ci vedo una buona e una cattiva notizia. La buona: la gestione di Tillerson è stata tumultuosa, soprattutto perché non c’è mai stato coordinamento con il presidente. Pompeo è più vicino sia ideologicamente che personalmente a Trump. E quindi l’amministrazione ora ha la possibilità di mettere in campo politiche più coerenti».
La «cattiva notizia»?
«Tillerson è un moderato, un centrista. Pompeo è su posizioni più radicali. Questo significa che uscirà rafforzata la linea “America First”, l’America prima di tutto. E quindi dobbiamo aspettarci altre tensioni in arrivo nelle relazioni internazionali».
Tillerson aveva spinto per un negoziato diretto con Pyongyang. Trump lo licenzia proprio quando si prepara a incontrare Kim…
«In realtà non sappiamo quando Trump abbia preso questa decisione. Sappiamo solo che questo presidente agisce in modo impulsivo. Può darsi che gli avvenimenti della scorsa settimana, dazi e Corea del Nord, lo abbiano convinto che fosse arrivato il momento di rendere più omogeneo il suo team, eliminando una fonte di contrasti, cioè Tillerson».
Ci saranno altri scossoni? Da mesi si parla dell’uscita del generale H. R. McMaster, il consigliere per la sicurezza nazionale…
«Anch’io penso che non resterà a lungo. Ma ciò che è più sconcertante è il tumulto continuo alla Casa Bianca. Praticamente ogni giorno c’è un cambiamento, qualcuno che se ne va. Il caos è il tratto fondamentale di questa presidenza».
Corriere 14.3.18
«La legge su Auschwitz? La Polonia ha sbagliato tutto»
Il direttore del Museo: ma l’antisemitismo è in crescita in tutta Europa
di Maria Serena Natale
Oswiecim-Auschwitz «Questo è un luogo che grida, e chiama ciascuno di noi». Piotr Cywinski è il direttore del Museo di Auschwitz-Birkenau, prima linea nella guerra della memoria scatenata in Polonia dalla nuova legge sulla Shoah, monumento di ciminiere e filo spinato che continua a interrogare la coscienza dell’Europa e del mondo, 75 anni dopo la liquidazione del Ghetto di Cracovia. Era la notte fra il 13 e il 14 marzo 1943, a 60 chilometri da questi binari ottomila persone furono rastrellate e inviate nei campi di concentramento. Scompariva la storica comunità ebraica della città dei re polacchi.
Comunità che lentamente si ricostituisce. Ora c’è il timore che la legge sulla Shoah alimenti un nuovo odio in quella parte di Polonia che si sente sotto assedio.
«L’antisemitismo è in crescita ovunque in Europa, in modalità differenti. Nella versione più accettata si presenta come militanza anti-israeliana con i vari appelli al boicottaggio dello Stato ebraico, ma analizzandolo in profondità ci si scontra sempre con il vecchio nucleo antisemita. È una forma di xenofobia e come tutte le fobie ha un fondo irrazionale, impossibile da scalfire con gli strumenti della logica. Quanto al ritorno degli ebrei, oggi a Cracovia c’è una piccola comunità, tra le più vivaci del Paese, e i suoi giovani sono straordinari, ma temo che si tratti di un fenomeno residuale, perché la macchina di morte tedesca ha fatto il suo lavoro e il passato non si cancella».
Questa è sempre stata terra di frontiera attraversata da contaminazioni culturali. Il Paese che dice no all’immigrazione e si allontana dal resto d’Europa tradisce se stesso?
«Qualsiasi costruzione sociale che tenti di slegarsi dalle proprie radici è destinata a crollare. La Polonia non è mai stata una nazione monoculturale, come ad esempio la Francia moderna dove l’essere cittadino coincideva con l’essere francese. La chiusura attuale è anche frutto del veleno inoculato dal comunismo, effetto collaterale dell’omogeneità imposta nel Dopoguerra».
Il ripiegamento su identità etnicamente connotate è un tratto marcato in molte società occidentali. Quale ruolo vede per la Storia nelle nostre democrazie?
«La Storia ha sempre due possibili obiettivi, uno politico e strumentale che mira alla creazione di identità fondate sull’orgoglio nazionale, l’altro autenticamente scientifico che punta a riconoscere tracce, segnali e allarmi per costruire una responsabilità condivisa per il futuro. I due approcci entrano spesso in conflitto. Condanniamo il silenzio e l’inazione di chi non si oppose al male ad Auschwitz, ma i memoriali di domani denunceranno l’indifferenza sui Rohingya, il Sud Sudan, il Ruanda. In Europa abbiamo ridotto la guerra a retaggio del passato, ma in questo modo la Storia è diventata il simbolico campo di battaglia sul quale si affrontano comunità e Stati, talvolta ancora prigionieri di traumi non elaborati».
In questo campo di battaglia si colloca la legge sulla Shoah voluta dal governo nazional-conservatore, che vieta l’uso dell’espressione «campi di sterminio polacchi». Vista da Auschwitz, che senso ha questa norma?
«La consapevolezza storica non è e non può essere materia di legge, matura attraverso lo studio e la conoscenza. Ecco perché la politica deve restare fuori da luoghi come questo, e noi fuori dalle stanze della politica. Purtroppo la formula “campi polacchi” è stata molto usata dalla stampa internazionale, che altrimenti tende a definire i lager “nazisti” e non “tedeschi”. La logica geografica poi non vale in altri contesti — Guantánamo per fare un esempio recente si trova a Cuba ma naturalmente è “americana”. Nel merito, questa legge è scritta male ed è radicalmente sbagliata. Se si affrontano i diritti fondamentali come la libertà di espressione occorre essere chiari e concreti, interpellare tutti i soggetti coinvolti. Non è stato così».
La Stampa TuttoScienze14.3.18
Pittori, cacciatori e chef
“Com’erano frenetiche le giornate dei Neanderthal”
Le scoperte più recenti ribaltano vecchi stereotipi “Ora il sogno è trovare un equivalente di Oetzi”
di Gabriele Beccaria
Maledetto il riscaldamento globale, ma chissà che non ci faccia un regalo: «Sono convinta che dal permafrost siberiano emergerà, accanto a un mammuth perfettamente conservato, anche il corpo di un neanderthaliano. Sarà un altro Oetzi e finalmente capiremo tutto di lui: cosa mangiava, di che malattie soffriva, come si vestiva».
Silvana Condemi è paleoantropologa del Cnrs francese, studiosa - com’è evidente - dei Neanderthal e racconta di un viaggio nel tempo che la sta sballottando in un’epoca remota, prima della storia standard, tra 300 mila e 40 mila anni fa, quando gli europei erano, appunto, quegli ominidi così diversi e così simili a noi e gli invasori, provenienti dall’Africa e dal Medio Oriente, i Sapiens. «Facciamo parlare ossa e denti», ironizza e in effetti i resti fossilizzati ritrovati nell’ultimo secolo stanno svelando moltissimo. Anche grazie alla spettrografia e alla genetica, come spiega nel saggio «Mio caro Neandertal», edito da Bollati Boringhieri (dove l’assenza dell’h è giustificata dalla recente trasformazione del vocabolo tedesco).
Professoressa, se volessimo contemplare un paesaggio con gli occhi di un Neanderthal, dove dovremmo andare?
«Dimentichiamo strade, città e campi. Un luogo è nel Solutré, nella zona del promontorio dove il mio gruppo sta effettuando degli scavi».
Dove si trova?
«È a Ovest di Macon, nella Borgogna-Franca Contea. Lì c’è una vasta pianura, oggi punteggiata dalle viti e all’epoca ricoperta di foreste. Ai Neanderthal piacevano i luoghi aperti: si stabilivano sulle colline per sorvegliare le zone circostanti e spiare il passaggio degli animali di cui andavano a caccia».
Un luogo iconico in Italia?
«Le colline del Piemonte, dimenticando, naturalmente, le vigne».
E durante le glaciazioni, quando buona parte dell’Europa era ricoperta dai ghiacci?
«Sappiamo che popolarono luoghi a Nord, in Francia e Belgio, tra gli altri. Pensiamo all’Alaska di oggi: anche lì, come nell’Europa dell’epoca, i mesi estivi erano i più favorevoli alla caccia e i Neanderthal si spostavano con le mandrie di animali di grossa taglia».
Quali animali?
«Mammuth, rinoceronti lanosi, uri e anche orsi. Questi ultimi diventavano prede quando erano in letargo».
Come avveniva la caccia?
«Con quella che definiamo caccia di vicinanza, a differenza dei Sapiens, che privilegiavano gli strumenti da getto».
È vero che l’anatomia della spalla non consentiva loro di scagliare lance e giavellotti?
«Avevano tre inserzioni muscolari nella spalla, mentre noi ne abbiamo due, ma resta dibattuto che tipo di movimenti potessero eseguire».
Erano fisicamente forti e psicologicamente resilienti. Ma erano anche intelligenti, giusto?
«La conferma arriva dalla recente scoperta delle loro pitture rupestri. Se finora queste rappresentavano la grande differenza tra noi Sapiens e loro, ora non è più così. In tre grotte della Spagna sono state effettuate le datazioni, su sedimenti e pigmenti, e si è giunti alla conclusione che risalgono a 100 mila, 60 mila e circa 40 mila anni fa. Prima, dunque, dell’arrivo della nostra specie. Purtroppo altre testimonianze sono andate perdute».
Quali testimonianze?
«Pelli e cortecce: riteniamo che le decorassero».
E il corpo? Se lo dipingevano?
«Stiamo riconsiderando una scoperta nell’area di Maastricht: nei sedimenti di 130 mila anni fa sono state trovate macchie d’ocra. Ocra ottenuto pestando la roccia e riscaldandola. Viste le caratteristiche e la collocazione, non può che trattarsi di colore utilizzato per pitture corporee: è probabile che la tinta venisse soffiata, con un tubicino».
Quali sono le altre evidenze di ciò che si definisce «pensiero simbolico»?
«Le sepolture e le offerte ai morti. O la creazione di oggetti con materiali pregiati, come asce e punte di quarzite. Le analisi rivelano che non furono mai utilizzate. A essere importante era la loro bellezza».
Lei ha dedotto un’altra capacità, quella di alimentarsi in modo creativo: di cosa si tratta?
«Studiando gli Inuit, sono arrivata alla conclusione che i Neanderthal usassero la carne al meglio: come loro, se volevano sopravvivere nei periodi più freddi e durante gli spostamenti, dovevano preparare “polpette” da portare in viaggio: un misto di grasso e bacche. Altamente proteico».
C’è chi ha ipotizzato che noi Sapiens li abbiamo sterminati, ma lei non è d’accordo: perché?
«Se fosse avvenuto un genocidio, sarebbe stato rapido. E invece la convivenza è durata almeno 5 mila anni. Piuttosto c’è stata un’ibridazione, come rivelano i geni che abbiamo ereditato nel nostro Dna».
Abbiamo vinto con la forza del numero?
«Di certo eravamo di più».
La Stampa TuttoScienze14.3.18
Un nuovo contratto sociale metterà d’accordo umani e robot
Dialogo tra Alberto Sangiovanni Vincentelli e Carlo Ratti “L’Intelligenza Artificiale cambierà il lavoro, impariamo a governarla”
Che cosa è esattamente l’Intelligenza Artificiale (AI in inglese)? Le definizioni sono spesso vaghe. In generale possiamo dire che un artefatto è dotato di Intelligenza Artificiale quando può portare a compimento un’azione tipica di un uomo: per esempio, guidare una vettura, giocare a scacchi, decidere come investire denaro, diagnosticare una malattia, imparare. Tutto ciò è basato su cicli di feedback: percezione della situazione in cui ci si trova, analisi di dati, processi decisionali e implementazione.
Alberto Sangiovanni Vincentelli. L’AI non è certo un concetto nuovo. Quando mi sono laureato al Politecnico di Milano, nel lontano 1971, vivevamo già la prima ondata di entusiasmo per l’AI. I nostri occhi erano puntati sulle ricerche di Marvin Minsky (Mit), John McCarthy (Stanford) e Herbert Simon (Carnegie Mellon University) sulle reti neurali e sul riconoscimento del linguaggio naturale. Ma i primi risultati non furono entusiasmanti…
Carlo Ratti. Mi sembra che oggi la grande differenza non sia solo nella potenza di calcolo - che è cresciuta esponenzialmente negli anni - ma anche nello sviluppo di nuovi sensori che sono in grado di raccogliere un gran numero di dati del mondo che ci circonda quali immagini, suoni, profumi. Oggi, se possediamo uno smartphone, abbiamo nelle nostre tasche più potenza di calcolo di quanta fosse a disposizione di tutta la Nasa al tempo delle prime missioni Apollo, negli anni della «corsa allo spazio», nonché un numero notevole di sensori in grado di misurare la nostra posizione e il mondo esterno.
A.S.V. Questo è il mondo della città intelligente, o «Smart City» di cui ti occupi tu…
C.R. Sì, ma innanzitutto ti devo dire che odio il nome «Smart City», termine troppo tecnologico, a cui preferisco quello di «Senseable city»: una città più umana, tanto «capace di sentire» attraverso sensori digitali quanto «sensibile» rispetto ai bisogni dei suoi cittadini. Tuttavia i fenomeni tecnologici alla base del cambiamento sono proprio quelli di cui stiamo parlando: il progressivo ingresso di sensoristica e AI nelle nostre vite. Tutto questo ci permette di trovare soluzioni nuove a sfide senza tempo, dalla mobilità al consumo energetico, dall’inquinamento alla produzione industriale.
A.S.V. La produzione è un tema che mi interessa molto, anche a causa delle aziende che ho contribuito a fondare nella Silicon Valley. Mi piace l’idea di una produzione localizzata, grazie a AI, robotica e stampanti 3D. In futuro potrei non comprare un iPhone prodotto in Cina ma semplicemente scaricare i file di progetto e farlo «stampare» sotto casa. Questo vorrebbe dire ripensare completamente il commercio globale, permettendo una produzione più sostenibile e tarata su ogni singolo acquirente.
C.R. Non mi sento molto a mio agio nel fare il tecno-scettico, ma di fronte a un tecno-ottimista come te mi vedo costretto a questa giravolta! Ci sarà sempre bisogno di un’attività manifatturiera che coinvolga grandi macchine e volumi elevati… E poi chi ci assicura che le macchine siano infallibili e sicure? Non potrebbero fare danni o addirittura rivoltarsi contro chi le ha create, come paventano molti, tra cui Bill Gates, Elon Musk e Stephen Hawking?
A.S.V. Verissimo, il tema della sicurezza informatica sarà fondamentale. Oggi lo conosciamo nel mondo digitale, con i virus e gli hacker che entrano nei nostri sistemi informatici. Domani potremmo vedere hacker in azione per prendere possesso dei sistemi automatici di un’auto, una fabbrica o addirittura un’intera città. Per quanto riguarda il rischio relativo alla rivolta delle macchine contro l’uomo, credo che potrebbe essere contenuto inserendo nella loro progettazione un qualcosa di simile alle tre leggi fondamentali della robotica di Isaac Asimov. Quando sono state scritte erano fantascienza, ma oggi sembrano sempre più di attualità.
1. Un robot non può recar danno a un essere umano né può permettere che, a causa del proprio mancato intervento, un essere umano riceva danno.
2. Un robot deve obbedire agli ordini impartiti dagli esseri umani, purché tali ordini non contravvengano alla Prima Legge.
3. Un robot deve proteggere la propria esistenza, purché questa autodifesa non contrasti con la Prima o con la Seconda Legge.
Quello che mi preoccupa, invece, è l’impatto sociale: se le macchine intelligenti avanzano così velocemente, che cosa succederà alla società e all’economia?
C.R. Qui giochiamo a parti inverse: proverò io a fare l’ottimista. Ricordi quello che scriveva Lewis Mumford, il grande storico americano, negli Anni 30 del secolo scorso? «Il principale beneficio che può derivare da un uso razionale delle macchine non è certamente l’eliminazione del lavoro», quanto piuttosto la sostituzione di lavori noiosi con altri più creativi e con un maggior valore aggiunto… Nel breve periodo credo che sarà così anche questa volta. Mi preoccupa invece il lungo periodo: quello che potrebbe succedere nel momento in cui AI e robotica, per la prima volta nella storia dell’uomo, potrebbero superarci in tutto, di fatto rendendo obsoleta ogni attività umana.
A.S.V. Sì, è l’idea di singolarità che si sente spesso da noi in Silicon Valley. Anche lavori ritenuti al sicuro qualche anno fa potrebbero essere in pericolo. Camionisti e autisti rimpiazzati da auto senza guidatore (è notizia di questi giorni che in Arizona ci sono autocarri a guida autonoma che scorrazzano nelle strade). Radiologi e dermatologi da sistemi intelligenti di lettura delle immagini. Operai da robot. E così via…
C.R. Anche qui però ci sono limiti. Credo che la professione più antica del mondo potrebbe anche essere quella più longeva…
A.S.V. A scanso di fraintendimenti dei lettori, sono sicuro che tu ti riferisca alla professione di parrucchiere, come documentato dai più antichi graffiti rupestri… Scherzi a parte, nel lungo periodo credo che l’unica soluzione potrebbe essere quella del reddito garantito per tutti, tassando le macchine. È l’idea, tra gli altri, di Bill Gates.
C.R. Reddito minimo garantito… sei diventato grillino?
A.S.V. Beh, questo si diceva da qualche tempo tra tecnologi ed economisti (Rubin tra gli altri) negli Usa prima che arrivassero i grillini.
C.R. Sono d’accordo nel lungo periodo, ma da dove cominciare? Vedo intanto un problema di «chicken and egg», l’uovo e la gallina: fino a quando le macchine non producono reddito non è facile distribuirlo. Inoltre sarebbe necessario un coordinamento a livello globale: sennò come far sì che una multinazionale americana, diciamo Apple, condivida i propri profitti con un gruppo di tessitori del Bangladesh rimasti senza lavoro a causa degli avanzamenti della robotica?
A.S.V. Non c’è dubbio che questi problemi vadano risolti su scala globale, nessun Paese può farcela da solo. Questo è il grande limite di populismi e sovranismi odierni. Se però ce la faremo, possiamo iniziare a costruire un mondo migliore, sfruttando e tenendo sotto controllo le nuove tecnologie.
C.R. Un’alleanza uomo-macchina: quasi un nuovo «contratto sociale». All’uomo potrebbe restare la parte creativa e la dimensione ludica dell’esistenza. Era l’idea dei situazionisti del secolo scorso, come Constant: «Nella città-planetaria del futuro… una società del tutto automatizzata, il bisogno di lavorare è rimpiazzato da una vita nomadica di gioco creativo, un moderno ritorno all’Eden. L’Homo Ludens, liberato dal lavoro, non dovrà più creare arte, perché potrà essere creativo nello svolgimento della sua vita quotidiana».
Corriere 14.3.18
I robot tuttofare che non reggono lo stress (per ora)
di Massimo Sideri
Un altro robot «licenziato», questa volta a Pasadena in California, patria dell’innovazione. Il motivo? Flippy non sapeva fare bene gli hamburger, il lavoro per cui era stato progettato. «Deve imparare di più dai suoi colleghi umani» ha detto il gestore di CaliBurger, la catena che lo aveva assunto con un certo entusiasmo. Un mese e mezzo fa la «lettera di dimissioni» era toccata a un suo (ipotizziamo) collega robot nei supermercati scozzesi, incapace di socializzare con i clienti. Nella divertente opera teatrale R.u.r., scritta da Karel Čapek, umanoidi schiavizzati nelle fabbriche dell’uomo si organizzano presto in sindacati perché costretti a lavorare senza sosta e senza diritti. Lo stesso termine robot, inventato dal fratello pittore di Capek, significava in origine schiavo o servitù (robota in ceco). Il libro nasceva nel 1920, nel contesto storico della Rivoluzione di Lenin, ma ciò che colpisce è che ancora oggi, se si va a guardare a fondo, le motivazioni degli imprenditori e dei manager non sono dissimili. La catena CaliBurger voleva far lavorare il robot Flippy senza sosta facendogli produrre 150 panini al minuto. Non ha funzionato. Un video facilmente reperibile sulla Rete mostra un goffo robottino che cuoce la carne e non riesce nemmeno a posizionarla correttamente, tanto da richiedere l’aiuto di un badante umano. Forse non è il robot Flippy ad essere fuori posto, ma la mentalità di certi umani che ragionano come nel 1920. Intendiamoci: la disoccupazione tecnologica, intravista già da economisti come Marx e Keynes, esiste e le fabbriche di Shenzhen in Cina o quelle di Tesla a Freemont ne sono una riprova. Ma per chi ha l’ansia da umanoide alla «Io, Robot» che bussa alla porta c’è ancora tempo. Le macchine ci batteranno pure a dama cinese, ma per ora non reggono lo stress di un fast food.
La Stampa TuttoScienze14.3.18
«La questione non è se, ma quando...»
Perché dobbiamo prepararci a gestire la «legge di Venter»
di Massimiano Bucchi
Qualche anno fa, a seguito della diffusione dei risultati di esperimenti condotti su embrioni nelle primissime fasi di sviluppo con la tecnica Crispr-Cas9, la rivista «Nature Biotechnology» consultò alcuni dei maggiori esperti del settore: ricercatori, bioeticisti, imprenditori sul potenziale e i rischi della nuova tecnica. La risposta di molti di loro, tra cui lo scienziato e imprenditore Craig Venter, fu lapidaria e chiarissima: «The question is when, not if». La domanda non è se, ma quando. «Penso che non ci sarà in pratica nessun modo efficace di regolare o controllare l’uso di tecnologie di editing genetico nella riproduzione umana. La nostra specie non si fermerà davanti a niente per eliminare il rischio di malattie o di tratti percepiti come negativi nella propria discendenza».
La si potrebbe definire la «Legge di Venter»: se qualcosa può essere fatto, qualcuno prima o poi lo farà. Una legge che diviene sempre più attuale, man mano che la cronaca si riempie quotidianamente di nuovi risultati, dalla clonazione di primati alla creazione di embrioni ibridi pecora-essere umano, tanto per citare i più recenti. Ma perché la legge di Venter diventa sempre più attuale e perfino ineluttabile?
In primo luogo, perché la ricerca è divenuta un’impresa globale altamente competitiva che si muove in una varietà di sistemi di finanziamento e quadri regolativi. Ad esempio, i National Institutes of Health americani proibiscono il finanziamento pubblico di esperimenti sugli ibridi, ma si può ricorrere a finanziamenti privati. I vincoli normativi e il livello di dibattito e critica pubblica su questi temi in Cina (dove è avvenuto l’esperimento sui primati) non è lontanamente paragonabile a quello europeo. Se qualcosa può essere fatto, quindi, qualcuno prima o poi lo farà.
Ma ciò che dà forza alla legge di Venter è soprattutto la staticità della nostra riflessione culturale. Ci troviamo ad affrontare un’epoca di straordinarie potenzialità e cambiamenti nelle scienze della vita con un armamentario concettuale che ci trasciniamo dal secolo scorso: limiti, responsabilità, comitati, moratorie. Evitando di affrontare le questioni sostanziali che ogni giorno, attraverso simili risultati, ci incalzano e sollevano nuovi interrogativi.
A cominciare da quello centrale: che cosa significa essere degli umani? Quali sono - se vi sono - i limiti della condizione umana? Dove inizia e dove finisce ciò che chiamiamo un essere umano? Un embrione al 13° giorno di sviluppo è già un essere umano? Un individuo che deve essere idratato da una macchina lo è ancora? Quale «vita» è ancora degna di essere vissuta in quanto «umana»? Quella di Eluana Englaro? Di Piergiorgio Welby? Di Stephen Hawking? A quali condizioni un trapianto di organi o tessuti animali continua a far considerare «umano» un paziente affetto da gravi patologie? Quale soglia di concentrazione del sangue «fa uscire» un ciclista da una condizione di «umanità naturale» tale da permettergli di competere alla pari con gli altri?
Il tentativo di dare una risposta univoca a queste domande è reso più complesso, naturalmente, dal fatto che viviamo in una società pluralista. La tentazione è di lasciare che sia il singolo a dare la sua risposta, sulla base dei propri bisogni, desideri, valori. L’altra faccia della legge di Venter è la tecnoscienza à la carte, in cui ognuno pesca dallo sterminato menu di potenziali opzioni quello che più gli serve o gli aggrada. Se qualcosa può essere fatto, qualcuno prima o poi lo farà. Dove «qualcuno» non è soltanto il singolo scienziato, ma ciascuno di noi.
Per questo le società contemporanee e le loro istituzioni, se vogliono stare dentro le nuove rivoluzioni tecnoscientifiche, se vogliono affrontarle insieme, devono necessariamente aprirsi a una grande riflessione non solo sulle regole, ma su sé stesse, chiedendosi quale (prossimo) futuro immaginano per la condizione umana.
Quale futuro per l’essere umano? Come affrontare gli sviluppi delle scienze della vita? Dalla prossima settimana «Tuttoscienze» inizia un viaggio attraverso le esperienze internazionali più significative e gli studiosi più attivi su questo tema.
La Stampa TuttoScienze 14.3.18
Depressione, così la scienza cerca di prevederla ed evitarla
Studio sui topi rivela schemi di attivazioni cerebrali che prevedono la vulnerabilità a sviluppare la malattia
di Nicla Panciera
L’analisi delle «conversazioni» elettriche tra diverse aree cerebrali potrebbe presto diventare uno strumento per predire e prevenire la comparsa della depressione. È questa la conclusione cui sono giunti un gruppo di neuroscienziati e ingegneri elettrici britannici dopo aver osservato le peculiarità delle attivazioni cerebrali nei topi molto stressati, come quelli che erano stati posti in una gabbia insieme a loro conspecifici molto aggressivi. Quelli più vulnerabili alla comparsa di comportamenti simili ai sintomi depressivi umani avevano degli schemi di attivazioni elettriche cerebrali molto diverse rispetto a quelle dei topi più resilienti alle avversità.
Nello studio, apparso sulla rivista Cell, gli scienziati non si sono limitati a osservare questa e quell’area, ma hanno fatto un’analisi delle connettività, andando a vedere i collegamenti tra le diverse aree coinvolte nella depressione, come la corteccia prefrontale, l’amigdala e l’ippocampo.
Servendosi di un programma di machine learning, i ricercatori sono arrivati ad un sistema in grado di prevedere la comparsa di sintomi depressivi negli animali. Questa «rete di vulnerabilità», inoltre, è distinta da quella che codifica per la malattia depressiva.
«Quello che stiamo creando è essenzialmente una mappa elettrica della depressione nel cervello», ha detto il professor Kafui Dzirasa, docente di psichiatria della Scuola di Medicina della Duke University e primo autore dello studio. «Speriamo che possa essere usato come una firma predittiva della depressione, allo stesso modo in cui la pressione arteriosa alta è una firma predittiva di chi alla fine avrà un infarto o ictus».
La vulnerabilità individuale a sviluppare disturbi dopo un evento traumatico importante, come un lutto, la perdita del lavoro o altro, è attualmente sotto indagine da parte degli scienziati, intenzionati a capire perché alcuni reagiscono meglio di altri.
Corriere 14.3.18
Fagnani incontra l’ex brigatista Adriana Faranda
di Maria Volpe
Al via una nuova serie dove la giornalista Francesca Fagnani (foto) intervista donne «speciali» per diversi motivi. Stasera la matrimonialista Annamaria Bernardini de Pace, e l’ex brigatista rossa Adriana Faranda, che partecipò al rapimento di Aldo Moro 40 anni fa.
Belve Nove, ore 23.30
Corriere 14.3.18
Purgatori, II parte speciale su Moro
Andrea Purgatori continua il suo viaggio dal 16 marzo 1978 con la strage di via Fani e il sequestro di Aldo Moro fino al 9 maggio 1978 con l’assassinio del presidente della Dc.