martedì 13 marzo 2018

Corriere 13.3.18
Armi e «Me Too», i temi caldi tra donne e studenti
Il racconto viaggio nei campus
Nell’america dei ragazzi che si ribellano
di Dacia Maraini


Questa volta l’America mi appare meno ospitale del solito. Già dall’aeroporto mi interrogano insistentemente come se volessi entrare per portare via lavoro a un americano: da dove viene, quanto intende stare, che cosa farà? Mostri le carte dei suoi inviti universitari, mostri il biglietto di ritorno. Per fortuna le università sono dei luoghi dove il pensiero corre e gli studenti sanno ascoltare con grande attenzione chi viene da mondi lontani e cerca di riflettere pubblicamente sui problemi del giorno. Due sono gli argomenti che appassionano gli studenti in questo momento: la restrizione nell’acquisto delle armi da guerra e il movimento «Me too». Ovvero «io pure». Meglio ancora: «È successo anche a me».
Sappiamo come ha risposto il biondissimo presidente americano alle preoccupazioni degli studenti che stanno facendo dimostrazioni in tutto il Paese chiedendo «ma quanti ragazzi debbono ancora morire così stupidamente prima di prendere seri provvedimenti?». «Giovanotti, la questione è seria, siamo tutti dalla parte dei 17 poveri studenti uccisi a Parkland in Florida», ha risposto il presidente e ha aggiunto candidamente: «È venuta l’ora di armare gli insegnanti».
Alle urla di protesta, anche di membri del suo partito, il presidente si è ricreduto e ha aggiunto: non sarà obbligatorio, non metteremo un’arma in mano a ogni professore, lo farà solo chi vorrà e chi sarà in grado di usare le armi più sofisticate. «Ah sì, ma allora perché non diamo i fucili da guerra (perché di questo si parla, sono armi da assalto) ai portieri di albergo, ai cassieri dei cinema, ai gestori dei ristoranti, alle hostess degli aerei e così via»… è stata la risposta degli studenti dell’Università di Parkland.
I politici, salvo alcuni, sono piuttosto riservati e ambigui. È risaputo che i produttori di armi sono i più generosi finanziatori delle campagne elettorali e di molte attività sia sportive che culturali. La loro strategia sta nel finanziare tutto il finanziabile, perfino i pacifisti. Per fortuna non sono riusciti a comprare gli studenti e stanno puntando insistentemente sul presidente che certamente ha più potere degli studenti.
La domanda che si pongono in molti, sui giornali, in televisione, è: ma questi ragazzi che improvvisamente si credono catapultati dentro un western e si trasformano in pistoleri per punire i fratelli che sbagliano, sono da considerarsi pazzi? Una psichiatra, Amy Barnhorst sul New York Times risponde con chiarezza che no, non sono affatto malati di mente. Disturbati sì, a volte drogati, a volte ossessionati come questo Nicholas Cruz, ma non pazzi. Nelle università d’altronde circola la droga, ci sono molti depressi e molti che soffrono di fissazioni, ma non per questo si mettono a sparare contro i compagni. Le collere, i risentimenti, le frustrazioni sono all’ordine del giorno, però non si trasformano in stragi.
Ma allora? La cultura del fai da te e dello sparare a chi ci minaccia aderisce perfettamente alle nuove tendenze nazional-protezioniste che si basano sulla paura dell’altro, sul pensiero egoistico e primitivo «quello che è mio e mio e guai a chi me lo tocca», sul sospettare dell’altro come possibile nemico da abbattere, sull’odio per tutto ciò che non domino e controllo, su una società vista come un campo di battaglia dove vince il più forte, ovvero il più ricco. Non si tratta di perversioni personali ma di tendenze sociali e culturali. Per questo bisognerebbe cominciare col riflettere sulla sacralità della persona, sul rispetto per l’altro, sulla riconquista di una qualche forma di fiducia in un futuro comune. Che poi non è niente altro che politica. Un popolo che non riesce a fare progetti per il futuro che coinvolgano emotivamente la maggioranza, è un popolo in caduta libera.
L’altro argomento che scotta riguarda il nuovo movimento chiamato «Me too» che sta espandendosi per il Paese e fa continuamente nuove reclute fra le donne e spesso anche fra gli uomini.
Gli argomenti contrari sono fondamentalmente due: perché voi che denunciate soprusi e abusi non avete parlato prima? E l’altro: non state trasformando il corteggiamento in un delitto? Non state spaventando gli uomini che ora hanno paura perfino di azzardare una carezza? Le risposte vengono chiare e precise. Non se n’è parlato prima perché una donna sola , quando denuncia un potente, rimane schiacciata. Lo sa bene chi ci ha provato e le cronache lo raccontano con chiarezza. Di fronte a una ragazza che denuncia un ricatto sessuale saltano fuori frotte di avvocati pagatissimi, molto bravi nel ribaltare i fatti. La colpa è di lei: è lei che l’ha sedotto, lei che l’ha fatto cadere dentro una trappola e ora lo denuncia per ottenere soldi. Per questo di solito le donne non denunciano. Nel momento invece in cui, magari seguendo il coraggio di una donna che gode del prestigio pubblico, molte altre cominciano a parlare, le cose cambiano. Non ci sono avvocati che tengano di fronte a una valanga di denunce, con le stesse accuse fatte in privato, inconsapevoli le une delle altre.
Ed è quello che è successo con le attrici che in questi giorni stanno denunciando i loro molestatori di anni addietro. Ricordiamo che questo succede anche nei seminari e nelle scuole di teologia: i ragazzi abusati dai loro superiori ci hanno messo a volte 20 anni per denunciare le molestie subite e solo quando tanti altri hanno parlato, hanno trovato il coraggio di rammentare e denunciare.
L’altro argomento molto diffuso è: ma non stiamo mortificando il corteggiamento? Non stiamo censurando e mortificando l’uomo che è animato da un umanissimo e innocente desiderio sessuale? Qui credo che ci sia un grosso equivoco. Nessuna delle donne che ha fatto denuncia ha parlato di corteggiamento, di carezze, di desiderio, o altro. Tutte hanno detto che c’era di fronte a loro un uomo di potere: un produttore, un famoso regista, un direttore di scena, un celebre lanciatore di talenti, che le ricattava. O fai quello che dico io o ti caccio. Ciò che viene denunciato, non è mai il desiderio sessuale espresso con rispetto, ma una forma di profonda umiliazione di fronte a una prepotenza sessuale. Nessuno mette in discussione il corteggiamento, la gioia del sesso o il gusto di due corpi che si trovano e si piacciono, nessuna donna se la prende per un invito amoroso o erotico. Quello che si mette in discussione è l’antica pratica del potente di turno (che si trovi in un ufficio, in una aula di università, in un negozio, in un albergo, su un set cinematografico, su una scena teatrale o in uno studio televisivo) che approfitta del suo potere per ottenere servizi erotici non voluti, non desiderati. Il ricatto è un reato.
Purtroppo la pratica è antichissima, nella nostra cultura risale ai greci: Zeus non si trasformava in animale innocente per sedurre le giovinette che gli piacevano? Non le ingannava e le costringeva a coricarsi con lui, facendole cadere a volte nel doppio castigo: il sesso imposto e poi la vendetta della legittima sposa? La quale, invece di prendersela col marito, trasformava la ragazza sedotta in una pianta, o in una mosca o una povera e nuda roccia? Molti uomini sono stati legittimati a ritenere che facesse parte del potere maschile l’abuso nei riguardi dei più deboli. Come lo stupro era dato per un diritto dei vincitori di una guerra. Uno storico privilegio che solo una coscienza democratica e un sentimento nuovo di giustizia sociale e culturale possono condannare.