Corriere 12.3.18
Perché io dico che È meglio Tornare subito alle urne
di Ernesto Galli della Loggia
Più
che in ogni altra occasione le righe che seguono esprimono un’opinione
del tutto personale. Che è la seguente: nella situazione politica creata
dai risultati elettorali del 4 marzo la cosa migliore da farsi è quella
di andare in tempi brevi di nuovo alle urne. Lo consigliano a mio
avviso i numeri, il loro significato, la situazione generale del Paese. E
direi anche qualcos’altro: il buon senso.
Certo, le combinazioni
possibili sono molte giocando con i numeri sul pallottoliere. Da un
governo Pd-Forza Italia con l’astensione della Lega e dei 5 Stelle o di
uno solo dei due, a un governo 5 Stelle- Lega, a una coalizione tra i 5
Stelle e il Pd astenuto o alleato: e di sicuro ne ho dimenticato almeno
un altro paio o di più. Ma mi chiedo: è forse qualcosa del genere che
l’elettorato ha chiesto con il suo voto? Un governo Franceschini–Di
Maio? Un ministero Renzi-Brunetta o Salvini-Di Battista? Sarebbe bene,
credo, non tirare troppo la corda: anche con la proporzionale, anche con
le liste degli eletti prefabbricate dai partiti e i candidati
paracadutati, considerare gli elettori come un semplice parco buoi non è
consigliabile. C’è un limite a tutto. Se si supera il quale diviene
concreto il rischio che nasca nell’opinione pubblica un movimento
dirompente di rifiuto e di disprezzo per le istituzioni dagli esiti
imprevedibili. Il presidente Mattarella ha ragione: va tenuto presente
innanzi tutto l’interesse generale del Paese, ma tale interesse non è
forse rappresentato innanzi tutto dalla democrazia, dalla sovranità
popolare, dalla convinzione da parte dei cittadini del suo indiscutibile
primato al di là delle più improbabili intese e combinazioni?
Si
dice: «Va bene, si formi allora un governo che faccia poche cose, una
nuova legge elettorale, e poi al voto». Ma vorrei sapere: quali cose di
preciso? Nessuno, mi pare, ne ha la minima idea né alcuno si azzarda a
dire perché mai su quelle «poche cose» dovrebbe trovarsi miracolosamente
un qualche accordo tra forze così diverse. E quanto a una mitica «nuova
legge elettorale», mi chiedo non solo perché mai 5 Stelle e Lega, che
con quella in vigore hanno ottenuto risultati così favorevoli,
dovrebbero essere indotti a cambiarla; ma soprattutto come è pensabile
che forze politicamente eterogenee, anche molto eterogenee, si trovino
poi d’accordo su una nuova legge elettorale, cioè su una tra le cose più
intrinsecamente politiche che esistano .
Piaccia o non piaccia,
il significato del voto, la direzione che esso indica, sono chiarissimi:
un rinnovamento radicale del quadro e del personale politico. Il
problema è che dal numero dei voti risulta incerto il segno politico da
dare a questo rinnovamento — se un segno di riequilibrio a dominante
egualitaria di tono meridional-statalista (Movimento 5 Stelle), ovvero
di svolta securitaria di tono nazional-antieuropeo (coalizione di
centrodestra egemonizzata dalla Lega) — dal momento che come è arcinoto i
numeri premiano queste due formazioni ma a nessuna delle due danno la
forza necessaria per governare. Che cosa c’è allora di più ovvio, mi
chiedo, di più ragionevole, di più democraticamente coerente, del
mandarle di nuovo di fronte al corpo elettorale perché tra le due
ipotesi questo si pronunci in via definitiva?
Mi sembra già di
sentire l’obiezione: e se dalla nuova consultazione da qui a tre mesi
una tale pronuncia definitiva non venisse? Ebbene: allora sì che sarebbe
inevitabile dare il via a un tortuoso e spossante itinerario volto alla
ricerca di qualche soluzione di ripiego, di una maggioranza purchessia.
Ma farlo oggi — a parte le debolissime probabilità di successo di un
simile tentativo — sarebbe assai probabilmente inteso — e proprio da
quella parte dell’opinione pubblica che ha vinto le elezioni — solo come
un modo da parte dei poteri tradizionali di salvare il proprio ruolo,
di sopravvivere al naufragio dei propri referen-ti.
Quando parlo
di poteri tradizionali non mi riferisco alle dirigenze di partito quanto
soprattutto a quelle rancide élite burocratiche, professionali e
intellettuali, a quei soliti nomi — annidati nei piani alti e altissimi
delle istituzioni, abituati da decenni a gestire di fatto una
rilevantissima parte dell’attività di governo attraverso le
«consulenze», i gabinetti ministeriali, le Agenzie, le reti di
relazioni, la Rai, i vertici delle aziende pubbliche, le istituzioni
culturali, gli enti di ogni tipo — contro i quali il voto di domenica è
stata un’indubbia clamorosa ancorché sgangherata espressione.
Naturalmente
non mi nascondo che per un grottesco paradosso tipico della
proporzionale il partito da cui oggi soprattutto dipende che cosa fare è
il partito che ha perso rovinosamente le elezioni, cioè proprio il
Partito democratico. A proposito del quale si parla molto — a ragione —
della necessità che nelle sua fila (e dove altro se no?) inizi un
processo di ripensamento/ricostruzione della sinistra. Bene: ma è
davvero pensabile che ciò potrebbe avvenire se per avventura esso
s’impegnasse in qualche forma di collaborazione (sia pure
«dall’esterno») con i 5 Stelle, come qualcuno vorrebbe? È realistico
credere che nel Pd qualcuno avrebbe mai la testa ai problemi, alla
storia e ai destini della sinistra, che ci potrebbe mai essere l’esame o
la discussione approfondita intorno a qualcosa, nel mentre che però
ogni giorno al suo interno nascerebbero inevitabilmente dubbi e
polemiche sui modi e i risultati della collaborazione di cui sopra, nel
mentre che però ogni giorno ci si dividerebbe tra «governisti» e
«antigovernisti», ci si accapiglierebbe sul che cosa fare l’indomani?
Nelle
situazioni d’incertezza e di crisi è necessario decidere. Oggi l’Italia
ha davanti a sé due strade: o quella di aspettare, vedere, mediare,
tentare un «governo di scopo», poi un altro «del presidente», e poi
ancora chissà che altro; oppure andare a votare fra tre mesi. Solo
votando si può sperare, almeno sperare, di decidere qualcosa .