«Al centro del pensiero di Benjamin vi è la categoria della ripetizione»
il manifesto 10.3.18
Walter Benjamin, il gioco che rovescia il passato
«Il principio ripetizione» di Marina Montanelli, edito da Mimesis. L’analisi scrupolosa di un complesso lascito intellettuale
di Marco Mazzeo
Non
è raro che ai pensatori più innovativi del XX secolo sia riservato un
trattamento pessimo. È il caso di Walter Benjamin. A seconda delle
circostanze diventa mass-mediologo, mistico esoterico, ben che vada
generico teorico della tecnica. A tal proposito, il recente libro di
Marina Montanelli (Il principio ripetizione. Studio su Walter Benjamin,
Mimesis, pp. 163, euro 16) aiuta a fare non solo chiarezza, ma
giustizia. Attraverso l’analisi scrupolosa di un complesso lascito
intellettuale, Montanelli rilegge il pensiero del filosofo attraverso
una categoria spiazzante, almeno per chi è abituato a letture di
maniera.
AL CENTRO DEL PENSIERO di Benjamin vi è la categoria
della ripetizione. Questa è una nozione chiave perché, invece che di
mass-media, durante l’intera esistenza il filosofo tedesco lavora
all’elaborazione di qualcosa che somiglia molto a una antropologia.
Benjamin distingue tra due nozioni di ripetizione, simili all’apparenza e
invece diverse come le due sponde di un fiume. La prima è la
ripetizione di religione e destino: l’eterno ritorno dell’identico, un
cerchio che si morde la coda ribadendo senza sosta le proprie leggi. La
seconda è una «ripetizione differenziale» che ripetendo trasforma e
modifica.
QUESTA RIPETIZIONE, non più mitica ma storica, la si
ritrova là non dove meno lo s’immagina. Non solo nei conflitti
rivoluzionari o in una tecnica prodigiosa come quella cinematografica,
quanto nella stanza del più innocuo degli infanti. È al gioco, infatti,
che è dedicata una delle parti decisive del libro. Il mondo ludico,
nella semplicità di chi costruisce giocattoli montando parti o li
distrugge per separarne le componenti, è la chiave antropologica di
un’attività che, proprio perché ripetitiva, si rivela innovativa.
Contro
il mito del genio creativo (di moda tanto nelle religioni confessionali
che nel marketing pubblicitario), il nuovo nasce secondo Benjamin per
mezzo di una ripetizione del passato. A differenza del rito, che ripete
un evento al fine di confermarne la validità (la ciclicità del Natale),
il gioco non si limita a fare manutenzione. L’attività ludica manomette
ciò che è stato (tradizioni, lingue, modalità espressive) nel senso
letterale dell’espressione. Montanelli insiste sulla dimensione tattile
di una ripetizione che produce futuro.
IL GIOCO, PER BENJAMIN, è
il paradigma di attività sofisticate come il montaggio filmico perché
non si limita a restaurare una immagine, ma la modifica per senso e
struttura. A forza di cavalcarla, la scopa diventa cavallo. Il rapporto
tra queste due forme di ripetizione è tutt’altro che pacifico: l’eterno
ritorno mitico-religioso è portato a fagocitare l’innovazione che sorge
dal gioco; l’attività ludica a propria volta non è irenica. Il
giocattolo, ad esempio, è una forma innovativa che nasce da atti
distruttivi. Fa a pezzi altri giochi, frantuma materiali, più in
generale tende a prendere le distanze dalla tradizione. Il ludico,
insiste il linguista Émile Benveniste, proviene dal sacro. Benjamin,
chiosa Montanelli, aggiunge un dettaglio tutt’altro che irrilevante:
proprio perché hanno un comune luogo d’origine, il gioco non condivide
ma contende al sacro il suo campo d’azione. Tra altare e monopattino
vige un rapporto d’antagonismo. Se netta è la contrapposizione tra sacro
e gioco, massima è l’ostilità tra sacro, gioco e capitalismo.
A
PARTIRE DALLA FINE dell’Ottocento, infatti, tra i due litiganti è stato
il capitale ad aver preso la scena. Dalla liturgia rituale il regno
della merce assume la postura dell’eterno ritorno, un presente dal quale
pare impossibile fuggire. L’attuale sistema produttivo ha fatto suo,
infatti, pure lo spazio antropologico della festa (la domenica, il
carnevale) che, seppur in modo limitato, lasciava un qualche margine di
manovra a movimenti innovativi e a gerarchie capovolte.
D’altro
canto, il capitalismo ruba anche dal gioco giacché mette al lavoro
l’instancabilità del bambino quando dalla bicicletta proprio non vuole
scendere anche se ormai, rimprovera l’adulto, si è fatto buio. Quella
della merce è un’epoca di lavoro incessante e febbrile: ripete come il
sacro ma senza i suoi interstizi; si affanna con stile infantile privo
però di possibilità di trasformazione. Nonostante la cupezza della
diagnosi, sottolinea il libro, Benjamin non cede alla nostalgia.
PROPRIO
A CAUSA della sua aggressività, il capitalismo ha finito con lo spazzar
via molte delle abitudini e delle forme reiterative tradizionali. Di
fronte a un’antropologia politica sovversiva si staglia una prateria
brulla ma immensa. Oggi più che mai la struttura logica del gioco si
rivela centrale e liberatoria perché invita a farcela con poco,
incoraggia chi costruisce a partire da frammenti, è paradigma del
ripetere cambiando.