Repubblica 8.2.18
Ma il solo modo per imparare è confrontarsi con la diversità
di Michela Marzano
Niente
neri, niente handicappati, niente nomadi, la lista potrebbe essere
lunga, lunghissima, e via via includere tra gli “scarti” chiunque, con
la propria alterità, possa rimettere in discussione l’identità italiana.
È più o meno così che alcuni licei del nostro Paese vantano i propri
pregi e si fanno pubblicità. Quasi tutti gli studenti sono di
«nazionalità italiana» e nessuno è «diversamente abile», recita la
presentazione di un celebre liceo romano. Subito dopo aver ricordato la
propria «fama» e il proprio «prestigio». Come se ci fosse un legame di
causa-effetto tra il colore della pelle e la fama, il prestigio e
l’assenza di handicap — che poi sarebbe interessante capire come viene
valutato il livello di abilità: li si mette tutti in fila, questi
alunni, e li si fa correre, leggere, parlare, mangiare? È più o meno
abile una ragazzina anoressica o bulimica? Spesso sono le più brave
della classe, ma stando al Dsm, il manuale diagnostico dei disturbi
mentali, anche loro, in fondo, dovrebbero essere considerate
diversamente abili, e non ammesse, quindi, in un liceo così prestigioso.
Come se l’apprendimento fosse ostacolato dalle “differenze”, e la
parola d’ordine della contemporaneità fosse l’esclusione di tutti coloro
che potrebbero contaminare la purezza della stirpe.
Dev’essere lo
spirito dei tempi, ormai malato di conformismo, ad aver ispirato
presidi, insegnanti, direttori o chiunque abbia ideato questi spot per
attirare genitori creduloni, e illuderli che il «processo di
apprendimento» possa veramente essere favorito dal “tra di noi”. Anche
se poi, in quel “tra di noi”, rischia di non esserci quasi nessuno, e
chi immagina che il proprio pargolo sia esente da ogni sorta di handicap
di strada da fare per capire l’esistenza ne ha ancora molta. Non solo,
infatti, ognuno di noi è “diversamente abile” rispetto a chiunque altro:
diverso, unico, speciale, sempre e comunque “altro” rispetto alle
aspettative altrui, “altro” pure rispetto a quello che vorrebbe essere.
Ma anche l’apprendimento è favorito dall’incontro con le differenze: per
imparare veramente c’è bisogno di uscire dal “tra di noi” e aprirsi
alle mille sfumature della vita; anche solo perché sono le differenze
che ci insegnano a comporre il puzzle complesso della realtà, a superare
gli ostacoli, a immaginare soluzioni alternative quando quelle più
scontate falliscono.
Certo, molti genitori cercano oggi di
rassicurarsi: preferiscono immaginare che i propri figli crescano al
riparo dalle difficoltà e non si mescolino con gli “altri”. Ma
apprendere significa confrontarsi con le cose vere della vita, e le cose
vere della vita, come scriveva Oscar Wilde, si incontrano. A cominciare
dalla scuola, appunto, quando si incontra un ragazzo nero o una ragazza
in sedia a rotelle, un compagno sordo-cieco o una compagna con disturbi
del comportamento alimentare, tanto nessuno ha tutto e nessuno è tutto.
La scuola dell’inclusione forse non è più di moda. Peccato.
Inutile, però, stupirsi poi del successo popolare del killer di Macerata.