Repubblica 8.2.18
Il femminismo folle della ragazza che sparò a Warhol
Per
lei la liberazione delle donne sarebbe stata possibile solo con la
violenza Scriveva: “Non resta che rovesciare il governo, eliminare il
sistema monetario e distruggere gli uomini”
Trent’anni fa moriva
Valerie Solanas, l’attivista che nel 1968 tentò di uccidere il re della
Pop Art. I suoi scritti, ora tradotti in Italia, immaginano un mondo
alternativo che può fare a meno del sesso debole: quello maschile
di Melania Mazzucco
Il
25 aprile 1988 nella stanza 420 del Bristol Hotel viene ritrovato il
cadavere di una delle tante randagie del Tenderloin, il quartiere più
sordido di San Francisco. Brulica di vermi ed è in decomposizione, ma si
tratta di Valerie Solanas. Era stata una scrittrice, un’attivista
politica, una propagandista sociale e una protagonista della
controcultura americana degli anni ’60, ma da tempo nessuno aveva
notizie di lei. Era stata risucchiata nel gorgo di un’esistenza
maledetta, marginale e “abietta” – l’unica del resto congeniale a una
donna che, pur dotata di un’intelligenza superiore e di una laurea,
aveva vissuto sempre senza tetto né legge, aveva rifiutato sesso
(“rifugio dei mentecatti”), figli, amore e famiglia, e la possibilità di
affermarsi come autrice (non scrisse mai il romanzo che le aveva
chiesto Maurice Girodias di Olympia Press, l’editore di Nabokov e
Burroughs), nonché teorizzato (e praticato) il sabotaggio del sistema e
lo s-lavoro. Feccia – in inglese scum – era la sua parola feticcio e
l’unica condizione umana cui riconoscesse dignità. E come feccia –
“stravagante, sporca, stracciona” – era morta.
Rigettata nella
“fogna”, dannata all’oblio al punto che Lou Reed protestò contro la
sopravvivenza del suo ricordo nella canzone I believe. Eppure Valerie
Solanas era stata qualcuno. Doveva la celebrità ai tre colpi di
rivoltella tirati, il 3 giugno del 1968, contro un bersaglio clamoroso:
il re della Pop Art, e di New York. Ho sparato a Andy Warhol, si
intitolava il film di Mary Harron (1995), nel quale l’ottima Lily Taylor
offriva all’attentatrice il proprio volto impertinente e la voce alle
sue teorie (i dialoghi sono quasi tutte frasi di Solanas). Warhol
sopravvisse ai proiettili, e Solanas al carcere, alla condanna e
all’internamento in manicomio.
Ma nessuno dei due fu più lo stesso.
Se
la singolare figura di Solanas rimaneva un riferimento nel sommerso
mondo antagonista, col tempo si è risvegliato anche l’interesse della
cultura ufficiale – e le sono stati dedicati studi universitari,
biografie, romanzi, spettacoli. Ma la radicalità del suo pensiero (e del
suo comportamento), l’estremismo e l’estetica terrorista hanno favorito
una minimizzazione patologizzante (anche se lei aveva sempre
rivendicato: «sono una rivoluzionaria, non una pazza»).
Solanas,
bianca proletaria che derideva i sovversivi borghesi figli di papà,
accattona non eterosessuale, “superfemminista” che praticava la
prostituzione, era fuori da ogni regola, logica, gruppo. Non si
conformava al discorso rispettabile della conquista dei diritti e della
parità dei generi: la liberazione delle donne non sarebbe venuta dalla
mediazione, ma dalla rivolta e dalla violenza. Insomma:
un’imperdonabile. Saluto perciò con piacere la pubblicazione di Trilogia
SCUM. Tutti gli scritti (Morellini editore / VandA epublishing). Le
curatrici, Stefania Arcara e Deborah Ardilli, non solo offrono la
traduzione integrale delle (pochissime) opere di Solanas, il Manifesto
SCUM, la commedia In culo a te, e il racconto Come conquistare la classe
agiata.
Prontuario per fanciulle (inediti in Italia), ma la
corredano con due saggi ( Chi ha paura di Valerie Solanas e Effetto SCUM
Valerie Solanas e il femminismo radicale)
fondamentali per inquadrare la vicenda della scrittrice e il suo (problematico) rapporto col pensiero femminista.
Il
racconto, del 1966, è un bozzetto satirico, una brillante anticipazione
delle opere successive. La commedia, Solanas la offrì a Andy Wharhol
nel 1967, sperando che la Factory la producesse. Ma il turpiloquio, le
teorie eversive della protagonista (la sboccata mendicante Bongi,
maschera dell’autrice), l’oscenità di alcune sequenze (una ragazza
organizza una cena in cui servirà in tavola un escremento), e
l’infanticidio finale la rendevano non rappresentabile nemmeno nel clima
libertario del teatro off-Broadway. Warhol tuttavia utilizzò alcune
battute di Solanas e la inserì come comparsa nel suo film I, a man. Del
1967 è pure lo SCUM Manifesto, che Solanas diffuse smerciandone in
strada le copie auto-stampate. «Per bene che ci vada, la vita in questa
società è di una noia sconfinata» – è il fulminante inizio. «E poiché
non esiste aspetto di questa società che abbia la minima rilevanza per
le donne, alle femmine dotate di spirito civico, responsabili e
avventurose, non resta che rovesciare il governo, eliminare il sistema
monetario, istituire l’automazione completa e distruggere il sesso
maschile». È violento come tutti i manifesti delle avanguardie,
paradossale come i saggi pseudoscientifici sull’inferiorità mentale
della donna, di cui è insieme una confutazione e una parodia. Ma è
soprattutto un ritratto corrosivo ed esilarante degli uomini. «Il
maschio è completamente egocentrico, intrappolato in se stesso, incapace
di empatizzare con gli altri o di identificarsi con loro, incapace di
amore, amicizia, affetto, tenerezza (…) Le sue reazioni sono interamente
viscerali, non cerebrali; la sua intelligenza è un mero strumento al
servizio dei suoi istinti e dei suoi bisogni (…) non è in grado di
interessarsi a nulla, fuorché alle proprie sensazioni fisiche». L’Io del
maschio in effetti consiste nel suo uccello. La tesi di fondo è che il
maschio sia una femmina incompleta, che rivendica come proprie le
caratteristiche femminili (forza, indipendenza emotiva, energia,
dinamismo, coraggio, vitalità, etc.) per mascherare la propria angoscia,
debolezza, invidia: poiché con la tecnologia non è più necessario
nemmeno per la riproduzione, oltre che nocivo è diventato superfluo, e
deve essere eliminato (oppure sottomesso). Non è la rabbia femminista ma
l’“umorismo apocalittico” la cifra di Solanas, e il pregio della sua
scrittura. Il Manifesto fu pubblicato da Girodias mentre lei era in
carcere. Ma gli spari contro Andy Warhol ne imponevano una lettura
letterale, sinistra. Mentre la forza di queste pagine è, ancora oggi, la
loro allegra, scatenata utopia. Le femmine che Solanas sognava,
«dominatrici, determinate, sicure di sé, cattive, violente, egoiste,
indipendenti, orgogliose, avventurose, sciolte, insolenti», adatte a
governare il mondo, però, faticano ancora a liberare se stesse.