Repubblica 7.2.18
La sfida del tempo
Orario, la rivoluzione che invidiamo a Berlino
di Marco Ruffolo
ROMA
Ventotto ore di lavoro a settimana invece di trentacinque, e sarà
possibile trovare il tempo per crescere i propri bambini, assistere i
genitori malati o più semplicemente riposarsi se il lavoro è usurante.
L’accordo firmato ieri in Germania tra il sindacato dei metalmeccanici e
le imprese del Baden-Wuerttemberg, sia pure limitato a un periodo
massimo di due anni, da riutilizzare però nel corso della carriera
lavorativa, si profila come una svolta storica nelle relazioni
industriali, e potrebbe fare da apripista per molte altre vertenze, non
solo tedesche. Per la prima volta, in una delle regioni più
industrializzate d’Europa, il land che ospita gli impianti di Porsche e
Daimler, la flessibilità dell’orario non scatta per rispondere alle
esigenze delle aziende, ma per venire incontro ai bisogni di 900 mila
lavoratori, che presto diventeranno 3,9 milioni, ossia i metalmeccanici e
gli elettrici di tutta la Germania.
Sono i bisogni di una più equa distribuzione del tempo tra lavoro e famiglia, di una flessibilità più a misura d’uomo.
Flessibilità
dell’orario in basso, ma anche in alto: alle imprese sarà consentito
proporre ai propri operai l’aumento da 35 a 40 ore. Resta chiaro che in
entrambi i casi, la scelta del lavoratore è assolutamente volontaria.
Meno
orario, di norma, fa rima con meno salario. Ed effettivamente chi
sceglierà la settimana corta non avrà la stessa retribuzione di chi
resta a 35 ore. Tuttavia godrà di compensazioni in busta paga e avrà
diritto a otto giorni di ferie in più. Ma la svolta tedesca non riguarda
solo la riduzione dell’orario. L’Ig Metal è riuscito a strappare per
tutti un aumento salariale del 4,3%, che è più di due volte e mezzo
l’inflazione tedesca, ferma all’1,6%. Anzi, inizialmente puntava
addirittura ad un incremento del 6,8. Questo è un fatto che sul piano
economico potrebbe avere un peso specifico ancora più rilevante della
settimana corta. E non solo per la Germania. Per anni la priorità del
sindacato tedesco è stata la difesa e la creazione di posti di lavoro,
accompagnate da una stringente moderazione salariale.
Moderazione
che è proseguita anche di fronte all’aumento della produttività, tanto
da dare alle imprese tedesche un enorme vantaggio competitivo nei
confronti degli altri Paesi europei. Oggi i lavoratori tedeschi hanno
invece deciso di riappropriarsi di quella parte di prodotto lordo che
hanno contribuito a creare. E questo potrebbe essere il primo segnale
che si vuol spingere sul pedale della redistribuzione, dopo il boom
della produzione, e che quindi la Germania è più attenta di prima a
sostenere i consumi interni. Un segnale indubbiamente positivo per
l’intera Europa, soprattutto dopo i ripetuti e inascoltati appelli di
Mario Draghi ad aumentare le retribuzioni.
Ma far salire i salari e
accorciare l’orario è impresa che si possono permettere solo i
tedeschi? Un accordo del genere sarebbe possibile anche in Italia? La
Cgil non ha dubbi. «L’aumento del 4,3% – commenta Susanna Camusso – mi
pare un risultato significativo che possiamo subito diffondere anche in
Italia, in questa stagione in cui i salari devono crescere. La novità
importante è anche il fatto che la flessibilità dell’orario viene
vissuta in ragione delle esigenze dei lavoratori e non solo secondo
quelle della produzione».
L’economista Enrico Giovannini invita
alla prudenza: «Un’intesa del genere potrebbe applicarsi solo ad alcuni
settori tra i più produttivi. Non dimentichiamo che l’accordo tedesco
riguarda grandi imprese tra le più avanzate tecnologicamente.
Ci sono da noi ampi settori ancora poco produttivi e con la presenza di imprese troppo piccole».