mercoledì 7 febbraio 2018

Repubblica 7.2.18
Il coraggio necessario
di Michele Serra


Gli spacciatori nigeriani vanno arrestati. Non perché nigeriani, ma perché spacciatori. Gli italiani che sparano agli africani vanno arrestati. Non perché italiani, ma perché autori di un raid terrorista.
Esiste una contraddizione tra queste due affermazioni? No, non esiste. Per una comunità pensante lo spacciatore nigeriano, tanto più se coinvolto in un delitto orribile come quello di Macerata, e il fascista italiano che spara sulla base del colore della pelle sono due criminali. Non è vero che si contrappongono l’uno all’altro (come vorrebbero lo sparatore italiano e la sua claque). Si contrappongono entrambi alle leggi dello Stato e alle regole della nostra società, che sono chiaramente scritte e percepibili da chiunque, anche da uno spacciatore impunito e da una guardia giurata che ammira Hitler. Non si deve delinquere. Non si deve uccidere. Punto. La condizione di impunità di alcuni criminali (con e senza permesso di soggiorno) è una lacuna grave del nostro ordine pubblico; la rappresaglia contro terzi, per giunta su basi razziali, è un atto vigliacco e gravissimo di ingiustizia sommaria.
Questo necessario preambolo è per dire che non c’è una zona d’ombra dentro la quale lo spirito democratico possa confondersi e tentennare, come è sembrato accadere in questi giorni dopo i fatti di Macerata. Non c’è contenzioso legale o etico, attorno a due crimini che non solo non si annullano, ma si sommano, aggravandosi l’uno con l’altro. E dunque: la solitudine delle vittime africane inermi e innocenti nelle loro stanze d’ospedale, e il modesto profilo, ai limiti della timidezza, delle parole pronunciate dalle istituzioni e dal partito di governo pesano come un cedimento di fronte al ricatto politico della destra italiana quasi al completo. Come se farsi riprendere da una telecamera al capezzale di un africano colpito a caso, o dire a chiare lettere che il razzismo è un crimine schifoso, significasse parteggiare per l’immigrazione clandestina; e non — come invece è — parteggiare per l’Italia, le sue leggi, la sua democrazia, il suo ordine pubblico.
Di fronte allo scandaloso « gli immigrati se la sono cercata» che aleggia intorno al raid di Macerata, e più in generale intorno all’onda di razzismo fobico che bussa con pugni sempre più pesanti alle porte della nostra società, la cosa peggiore è mostrare paura. Non c’è solo la paura degli indifesi e dei confusi, dei meno istruiti e dei più esposti, di fronte all’indubbio sconquasso che l’immigrazione ha portato con sé. Esiste anche, meno visibile ma forse più pericolosa, la paura dei giusti e dei ragionevoli. Paura dell’impopolarità, paura del prezzo politico da pagare nell’immediato, paura che anche i princìpi più solidi diventino inservibili di fronte all’odio e all’ignoranza.
Eppure il risentimento sordido, le chiusure violente non sono una novità introdotta dai social. C’è chi, prima di noi, quanto a razzismo e violenza politica ha dovuto fronteggiare ben altro che le patacche fasciste appese nelle stanzette di qualche figlio di mamma, o i post degli orchi da tastiera. L’errore, il male, il deragliamento dei comportamenti, la violenza politica, la violenza criminale non sono un’emergenza di oggi né di ieri, sono una condizione endemica di ogni collettività umana. Per questo è tanto più importante tenere duro su alcuni princìpi, presidiare alcune trincee. Non avere paura del razzismo e del fascismo, nominarli, affrontarli, combatterli con le armi della ragione e del diritto, ribattere punto su punto alla propaganda xenofoba.
Servono i dati e servono le cifre, a smentire le bugie sull’immigrazione come fonte esclusiva di illegalità e di insicurezza; ma servono anche le bandiere da sventolare. Il tricolore usurpato dallo sparatore di Macerata puzzava di polvere da sparo e copriva a malapena l’eterno « viva la muerte » del fascismo. Il tricolore vero è quello della Repubblica democratica, che ripudia il fascismo e il razzismo. La frase « siamo in campagna elettorale» è usata spesso per dissuadere dai toni striduli. Ma se non in campagna elettorale, quando è il momento giusto per definire quel paio di princìpi che ancora distinguono le forze in campo?