Repubblica 5.2.18
Il fantasma dell'uomo bianco
di Ezio Mauro
Ritagliando
dentro l’umanità le razze, identificando nella molteplicità lo
straniero da espellere, additando nella comunità il diverso da bandire,
era prevedibile che si arrivasse fin qui, alla tipizzazione
dell’indigeno italiano, trasformandolo in prototipo sociale, esperimento
culturale, infine in soggetto politico.
L’uomo che in piena
campagna elettorale spara contro gli immigrati è colui che invoca i muri
contro gli altri, poi dentro quei muri si ritrova prigioniero,
nell’egoismo di una storia nazionale mutilata soltanto per sé, di una
tradizione privatizzata a proprio uso e consumo, di una cultura svilita a
strumento esclusivo di selezione e di separazione. Siamo noi che
lasciandoci rinchiudere nel guscio psicologico e ideologico delle nostre
paure ci trasformiamo come dei mutanti, fino a regredire nell’identità
primitiva biologica e corporea, che a Macerata risveglia l’ultimo
spettro italiano, il fantasma dell’uomo bianco.
Era l’unico protagonista che ancora mancava, nel racconto del grande risentimento italiano. Costruito quasi in alambicco.
Prima
con la separazione crescente tra rappresentanti e rappresentati, poi
con il rifiuto della politica come strumento per garantire sicurezza
nella democrazia, quindi con il venir meno dello scambio tra tutela e
libertà, che era all’origine del patto tra il cittadino e lo Stato
moderno. Infine, lo smarrimento di fronte alle emergenze
dell’immigrazione, della crisi del lavoro, del terrorismo islamista,
un’onda congiunta troppo alta per essere controllata dai governi
nazionali, perfetta invece per allargare l’inquietudine, disperdere il
sentimento repubblicano in tante solitudini isolate, trasformare il
cittadino in individuo, dimenticato.
Su questa dispersione
solitaria, agisce la predicazione della paura, che trasforma la crisi
economica in una rapina delle élite, l’immigrato nel nuovo nemico di
classe, arrivato per invaderci, per occupare le nostre città spezzando
il filo di esperienze condivise, per contenderci il salario e per
impoverirci il welfare, mentre Chiesa, democrazia e cultura sono i nuovi
colpevoli di un destino di sottomissione già segnato. L’unico modo di
reagire è armare la paura: ingigantendo i fenomeni a dispetto dei
numeri, associando immigrazione a devianza, rinnegando l’integrazione e
il multiculturalismo in nome di una politica della forza capace di fare
da sé, con ruspe, affondamenti, muri, respingimenti, fili spinati.
Finché qualcuno prende il fucile, com’era accaduto qualche anno fa a
Rosarno contro i raccoglitori di pomodori e condensa tutto questo in una
caccia al nero trasformato in bersaglio, radicalizzando in una prova
estrema un clima sociale e politico che produce legittimazione,
copertura e consenso.
Dicono i coltivatori dell’odio ( mentre i
grillini tacciono, prigionieri di un’ambiguità politica costante e di
una povertà culturale scandalosa) che tutto questo è frutto
dell’esasperazione dei cittadini insicuri, e dunque di un’escalation che
mescola impotenza e onnipotenza, fino alla caccia all’uomo fai-da-te.
In realtà è esattamente il contrario. È il segno di una regressione
evidente, che porta il cittadino a rinunciare a tutti gli strumenti
d’intervento costruiti in decenni di democrazia e di storia nazionale
della convivenza, per precipitare nel pozzo primordiale della pistola e
dell’agguato, del gesto estremo dell’uomo contro l’uomo fuori da ogni
cornice di legalità e da ogni tradizione di civiltà. Non è un gesto di
follia, ma di terrorismo: che come tale stravolge la politica, inventata
come mezzo di regolazione dei conflitti, svilita per anni in
concimazione delle paure e infine ridotta a progetto omicida.
Un
gesto isolato, fortunatamente. Ma che non nasce per caso e non viene dal
nulla. Al contrario, può contare su un clima di legittimazione
strisciante, su una banalizzazione quotidiana dei troppi episodi di
intolleranza razziale, sul disprezzo dei principi costituzionali, sul
dileggio di chi predica e pratica la tolleranza e la convivenza.
Condanne a mezza bocca, giustificazioni subito pronte, la consapevolezza
di un mainstream parallelo, che si muove dentro la forma democratica ma
è sempre più estraneo ai valori dell’occidente europeo in cui viviamo,
alle istituzioni repubblicane vilipese e disprezzate come pratica
quotidiana, nel silenzio della cultura che assiste passiva.
È come
se la cultura democratica fosse già finita in minoranza: se non nei
numeri, certamente nella capacità di contare e di convincere, di credere
in se stessa, e cioè di produrre egemonia. La mutazione in corso,
infatti, è prima di tutto culturale. Perché il fantasma dell’uomo bianco
evoca ciò che certamente noi siamo, ma che non ci è mai bastato per
definirci, tanto che abbiamo aggiunto a questa identità primitiva e
basica le sovrastrutture che nelle diverse vicende nascevano dalla
storia, dalle relazioni, dagli scambi, dalla politica, dalla cornice
della civiltà europea, dalla coscienza dei diritti nostri e altrui, dal
divenire della nostra forma associata di vita.
Per questo
l’apparizione dell’uomo bianco come soggetto sociale e politico è un
ritorno al passato, una spoliazione. Come avviene in parallelo per il
suo bersaglio, l’uomo inquadrato nel mirino della sua pistola, che perde
non solo ogni diritto ma qualsiasi universalità, ridotto a pura
espressione razziale, ingombro materiale, simbolo di diversità per i due
elementi — anche qui primordiali — dell’odio razzista: il colore della
pelle, e il peccato d’origine. A unire i due pregiudizi (quello su di
sé, suprematista, e quello sullo straniero, come inferiore) è il ritorno
alla sostanza primitiva, la pelle e il sangue, come negli anni peggiori
della nostra vita.
Nella pelle bianca e nell’odio per la pelle
nera si ritorna a cercare inconsciamente la conferma di una
sopravvivenza, quell’immortalità mitologica che il culto del sangue
assicura nel passaggio delle generazioni, portando l’elemento biologico
fuori dal tempo, trasformandolo nella sostanza sacra e pagana di una
comunità impaurita proprio mentre esercita la forza: spaventata dalla
fragilità di quel principio germinale a cui è affidata l’identità
simbolica, fuori dalle responsabilità della storia, della politica,
della cultura.
È dunque la paura che fa prendere la pistola, anche
se per sparare a un uomo, allo straniero, bisogna armarsi di un
malinteso senso della supremazia, della gerarchia razziale, sociale,
umana. Tutte cose che purtroppo abbiamo già visto. E che l’uomo bianco
di Macerata ha radunato su di sé: la pistola, l’odio razziale, la
bandiera per coprire il nuovo sovranismo, il saluto romano. Cosa resta
da capire?