lunedì 26 febbraio 2018

Repubblica 26.2.18
Nazionalismo e cattolicesimo
Quei simboli e la radicalità di Salvini
di Chiara Saraceno


Era più grottesco e anticristiano Bossi che si inventava riti fondativi al dio Po o lo è più Salvini che giura abbinando Costituzione e Vangelo, con annesso sventolamento di un rosario, mentre conclude una campagna elettorale imperniata su messaggi di esclusione, quando non di odio, contro gli “altri”, gli “stranieri”? Se Bossi è stato maestro dello sberleffo contro ogni simbolo sacro (inclusa la bandiera, che voleva «buttare nel cesso») in nome di una più o meno velleitaria identità locale, Salvini da anni sta progressivamente appropriandosi di quei simboli per proporsi come difensore “dell’identità nazionale”. Lo sventolio di Vangelo e rosario, ma anche della Costituzione, proprio mentre proclamava che dell’antifascismo non poteva interessargli di meno, costituisce l’ultimo passo.
Rappresenta anche un salto di qualità.
Da un lato, c’è un abuso di simboli religiosi e di esibizione pubblica della propria religiosità, mai osato da un leader politico, mi sembra, neppure dalla Democrazia Cristiana negli anni della guerra fredda e delle campagne contro i comunisti che mangiavano i bambini. Se ne sono giustamente risentiti alcuni uomini di chiesa e intellettuali cattolici.
Ma che ne pensano i cattolici che votano Lega o i partiti che con la Lega sono alleati? Dall’altro lato, cattolicesimo e nazionalismo vengono esplicitamente fusi insieme per chiamare a un conflitto radicale tra “noi” e “loro”. Dove “loro” non sono solo gli stranieri, ma tutti coloro che non si riconoscono in un cattolicesimo usato come arma impropria per opporsi a ogni minoranza. Un atteggiamento non molto diverso da quello dei fondamentalisti islamici, di cui pure Salvini si dichiara strenuo nemico, ma da cui, a questo punto, lo separa solo il fatto che siamo ancora uno Stato democratico, retto da leggi democratiche e dove anche la Chiesa cattolica ha, pur faticosamente, non sempre e non del tutto, imparato a distinguere ciò che è di Cesare e ciò che è di Dio.
L’immagine di Salvini che sventola Vangelo e rosario dal pulpito insieme alla Costituzione in un tripudio di bandiere, ove quelle che sventolavano un tempo a Pontida oggi stanno felicemente a fianco di quelle di Forza nuova e dintorni, non è solo grottesca. È preoccupante per la testimonianza che dà della perdita di senso di simboli, parole, tradizioni, divenuti intercambiabili quando si tratta di identificare un nemico potendo contare su solide basi di ignoranza collettiva. Mentre ci affanniamo a discutere di fascismo e antifascismo rischiamo di non cogliere la metamorfosi culturale e valoriale di cui Salvini e il suo successo sono l’esempio più chiaro, ma vale anche per gli auto-proclamati antifascisti che utilizzano la violenza come forma di comunicazione e lotta politica, condividendo di fatto la stessa (in)cultura violenta del fascismo, o per Di Maio che può annunciare che istituirà un ministero per la meritocrazia, non essendo neppure stato capace di individuare candidati meritevoli in base agli standard del suo Movimento.
Ogni simbolo, ogni repertorio culturale e politico può essere utilizzato e interpretato a proprio piacimento. Ogni accostamento, per quanto teoricamente e storicamente contraddittorio e persino impensabile, può diventare verosimile: basta avere la spregiudicatezza di imporlo comunicativamente, facendo ammutolire i potenziali critici per superficialità, assuefazione o malinteso senso di superiorità.