giovedì 22 febbraio 2018

Repubblica 22.2.18
L’altra metà dell’Africa. Dalla Tanzania all’Uganda
Donne che si ribellano a chi vuole cancellare la loro identità
“L’infibulazione era una tradizione di famiglia”. “Temevo di non sposarmi”
Poi Rahel e le altre hanno detto basta a questa pratica diffusa benché vietata
Nel villaggio di Katabok nel nordest dell’Uganda le adolescenti della tribù Pokot si sono ribellate alle mutilazioni genitali, pratica vietata ma ancora diffusa nel Paese
di Raffaella Scuderi


DAR ES SALAAM «Era una tradizione della mia famiglia. Mia madre mi ha dato lo strumento e lo ha poggiato sulla mia testa dicendo che avrei dovuto tenerlo per sette giorni».
La realtà cruda di come si diventa tagliatrice raccontata da un’ex “aguzzina” tanzaniana. Rahel Mbalai ha praticato per tanti anni la mutilazione genitale femminile (Mgf) su donne e bambine del suo Paese finché ha detto basta. Ha realizzato, grazie alla Ong ActionAid in Tanzania, quanto cruento e folle fosse quello che stava facendo. Rahel ora non “cuce” più. Si batte per aprire gli occhi alle tagliatrici come lei. Viaggia in tutta l’Europa per incontrare le comunità migranti originarie dei Paesi a tradizione mutilatoria. Il suo attivismo contro la centenaria pratica della mutilazione femminile l’ha privata del rispetto della sua comunità. Poco importa. Donne come lei stanno facendo cambiare lentamente le cose. E lei lo sa. Non rinuncia alla sua lotta.
Coltelli, lame di rasoi, forbici e pezzi di vetro. Oggetti non sterilizzati usati sul corpo di donne e bambine per rimuovere, parzialmente o totalmente il clitoride. Senza anestesia. Questa è la pratica della mutilazione genitale femminile diffusa in tanti Paesi africani, ma anche asiatici e sudamericani.
L’obiettivo finale di tale rimozione è la “purezza”.
L’istinto “lussurioso” deve essere controllato. Quando i mariti sono in giro con il bestiame devono essere certi che le loro donne conservino la castità e rimangano fedeli. Una condizione obbligatoria per trovare marito, in certe comunità. Se non si è state “operate”, non si esiste. Non ci si può sposare, non si può raccogliere il grano e si viene emarginate dall’intero villaggio. È fuorilegge nella maggior parte dei Paesi ma la pratica continua laddove comandano povertà, analfabetismo e condizioni sanitarie precarie. E ignoranza.
Le donne sanguinano anche fino alla morte, si ammalano di infezioni e spesso contraggono l’Hiv. Per ogni multilazione le tagliatrici intascano circa 8 euro.
Rahel non è l’unica ad aver detto no. C’è un posto, al confine tra Uganda e Kenya, dove la Mgf è praticata regolarmente in beffa alla legge. È qui che Rebecca Chelimo si è ribellata. Aveva 12 anni quando l’hanno costretta al rituale della mutilazione. Nel 2009. «Avevo paura di essere derisa e insultata dalla mia comunità – ha raccontato al Guardian – Mi dissero che che era una vergogna non essere circoncisa. Ci ho creduto.
Nessuno mi avrebbe sposato se non mi fossi fatta tagliare».
L’Uganda è uno dei 29 Paesi nel mondo in cui la Mgf è ancora praticata nonostante la legge lo vieti. Soprattutto tra la gente dell’etnia Pokot, di cui, secondo i dati delle Nazioni Unite, almeno il 95 per cento delle ragazze subisce la mutilazione a cominciare dall’età di 10 anni.
Rebecca ora ha fondato lo Yangat Youth Group, un progetto che coinvolge venti persone impegnate a sensibilizzare la loro gente sulle cause devastanti della Mgf . «Noi dobbiamo interrompere questo flusso criminale tra Uganda e Kenya. Ho quattro sorelle e non voglio che facciano la mia stessa fine».
Il confine è talmente esteso (150 chilometri) che non consente ai governi dei due Paesi di monitorarlo a sufficienza. Si stima che a oggi siano state mutilate almeno 200 milioni tra ragazze e bambine. Ogni anno almeno tre milioni sono a rischio.