Repubblica 22.2.18
Così la vita detta legge al diritto
di Gustavo Zagrebelsky
Questo
testo è parte dell’intervento che l’autore tiene oggi pomeriggio in
Senato. L’occasione è la lectio del presidente della Corte
costituzionale Paolo Grossi, che presenta il suo libro “L’invenzione del
diritto” (Laterza)
Nella modernità prevaleva una
concezione positivista: erano i fatti reali che di volta in volta
dovevano adattarsi alle norme. Ora, nella postmodernità giuridica,
accade finalmente il contrario: si parte dall’interpretazione della
realtà
Nel tempo della modernità che è quello della sovranità
della legge generale e astratta e, potremmo dire, dello schiacciamento
della realtà sociale sotto il peso dei precetti legislativi, «il giudice
— dice il professor Paolo Grossi, nel suo libro L’invenzione del
diritto — doveva adattare il fatto alla norma, una norma pensata come
premessa maggiore di un procedimento sillogistico, un procedimento
squisitamente logico-deduttivo. Oggi, in questo nostro tempo giuridico
post-moderno, il giudice, attraverso operazioni valutative, deve
comprendere il caso da risolvere e adattare la norma al fatto della
vita, individuandone la più adeguata disciplina». Questa è
l’interpretazione, che si traduce nella “invenzione” del diritto, «che è
un procedimento contrario a quello sillogistico perché in essa non è
coinvolta solo la razionalità del giudice con le sue capacità di logico,
ma soprattutto qualità di intuizione-percezione-comprensio ne, tutte
segnate sul piano assiologico».
Queste proposizioni sono esplicite
aperture di credito all’interpretazione come ermeneutica. Quando il
giudice siede in giudizio non ha di fronte a sé, primariamente, la rete
delle norme giuridiche, indossando le quali, come suoi occhiali,
guardare il mondo che scorre sotto di sé. Al contrario, ha di fronte a
sé, primariamente, casi della vita. Solo dopo che li ha valutati nel
loro — possiamo dire — bisogno di diritto, egli si rivolgerà alle norme
positive per cercarvi adeguate soluzioni: adeguate tanto al caso quanto
al diritto. Nella “invenzione” delle soluzioni adeguate rispetto ai due
lati dell’interpretazione, formale e materiale, sta il successo
dell’interprete; nell’impossibilità o nell’incapacità di invenirle, sta
il suo fallimento. Queste posizioni sono anni-luce lontane dalle
convinzioni della maggioranza dei giuristi del nostro Paese, così tanto
ancora imbevute di dottrine gius-positivistiche che provengono dal
passato e ch’essi professano come ineludibili e invariabili pilastri
della nostra civiltà del diritto. Come è possibile l’amalgama nel lavoro
quotidiano comune d’un collegio come la Corte costituzionale che
comprende certamente giudici che, esplicitamente o implicitamente,
aderiscono a concezioni diverse se non opposte della materia di cui è
fatto il loro lavoro? Non so dare altra spiegazione che questa: la forza
delle cose, di fronte alla quale cede la forza di qualsiasi astratta
dottrina. La Corte come «organo respiratorio» (espressione di Paolo
Grossi) è il prodotto della forza delle cose. Essa si avvale di
strumenti di decisione che un tempo, quando furono introdotti,
suscitarono critiche e perplessità ma che oggi nessuno ormai contesta
(al più, se ne può criticare l’uso in concreto).
“Nessuno”, in
verità, non è esatto dire, perché ogni tanto qualche effervescente
riformatore della giustizia costituzionale, ponendosi l’obiettivo di
porre limiti o addirittura divieti a quello che gli pare improprio
protagonismo giudiziario, vorrebbe vietarli. Mi riferisco alle sentenze
interpretative, alle sentenze che annullano la legge “nella parte in
cui” e perfino “nella parte in cui non”: in generale alle “sentenze
manipolative”, fino alle sentenze di accoglimento “di principio” una
recente delle quali, di particolare importanza (in tema di parto
anonimo, diritto del figlio di promuovere azione per conoscere
l’identità della madre e diritto di quest’ultima di mantenere
l’anonimato), è dovuta alla scrittura di Paolo Grossi. Con le decisioni
di questo ultimo tipo, si annullano regole legislative, si richiama il
legislatore al suo compito di legiferazione e, contestualmente, si
toglie di mezzo la difficoltà (la norma di legge annullata) che impediva
ai giudici di invenire il diritto adeguato alla decisione del caso,
secondo i principi. Queste tecniche decisorie stanno a significare che
il legislatore ha fallito nell’opera d’invenzione del diritto attraverso
norme generali e astratte (donde, l’annullamento della legge) e, a
fronte di questo fallimento, affidano al giudice il compito di
eseguirla, con riguardo al caso particolare da decidere.
Questa
fiorente varietà di strumenti di decisione difficilmente è comprensibile
alla luce d’una concezione della validità delle leggi come mero
rapporto gerarchico tra norme, norma costituzionale e norma legislativa,
un rapporto semplice, anzi semplicistico: accoglimento-rigetto della
questione; eliminazione della legge-mantenimento della legge così com’è.
È questa un’alternativa che, pur essendo a prima vista sancita dalla
Costituzione e dalle leggi che ne danno attuazione, non ha retto di
fronte alla forza dell’esperienza giuridica.
C’è un altro elemento
di esperienza giurisprudenziale che si è fatto strada passo a passo a
partire dalla seconda metà degli anni ’90, riflettendo sul quale appare
con evidenza il passaggio da una concezione del diritto a un’altra. È
costituito dalla serie di decisioni ormai numerose, diffuse ormai in
ogni parte dell’ordinamento giuridico (con l’eccezione parziale del
diritto penale e processuale) con le quali leggi sono annullate non per
quello che prescrivono, ma perché prescrivono tassativamente, senza
lasciare spazio alla discrezionalità del giudice necessaria per
apprezzare le caratteristiche specifiche dei casi concreti, sacrificate
dalla generalità e dall’astrattezza della legge. Si tratta delle
decisioni di annullamento dei cosiddetti “automatismi legislativi”.
Troppo vari sono i casi in materie come la bioetica, la famiglia, i
rapporti tra genitori e figli naturali o adottivi, le misure restrittive
della libertà; troppo intrecciate sono le esigenze multiple che devono
bilanciarsi, da poter essere sempre semplificate con norme che operano
come il filo di piombo usato per le costruzioni dell’isola di Lesbo. La
legge, in questi casi, è dichiarata incostituzionale precisamente a
causa di quelle caratteristiche (la generalità e l’astrattezza) che la
dottrina tradizionale dell’illuminismo giuridico ha considerato per due
secoli non solo sue caratteristiche, per così dire, naturali, ma anche
suoi titoli di nobiltà. Anche qui, una vera rivoluzione: una rivoluzione
che non manca di porre problemi che non si può pensare di risolvere
semplicemente ignorandone le cause. A questi dati della giustizia
possiamo aggiungere, infine, il controllo sulla ragionevolezza delle
leggi. Si è da ultimo cercato d’irrigidire il procedimento logico da
seguire in questo tipo di giudizio, imitando piuttosto artificiosamente
schemi che in altre giurisprudenze hanno trovato il nome di giudizio di
“proporzionalità”. Ma, alla fin fine, che cosa è la legge irragionevole
se non quella che contraddice e forza oltre la misura di ciò che si può
giustificare le esigenze della dinamica sociale?
L’apprezzamento
di queste esigenze si può davvero immaginare di restringere nel letto di
Procuste di ragionamenti scanditi da passi uno dopo l’altro? Il
controllo sulla ragionevolezza tira in ballo criteri di decisione che
inevitabilmente sono estranei al puro gioco logico di
compatibilità-incompatibilità tra norme positivamente poste,
costituzionali e ordinarie, e non è formalizzabile in schemi di
ragionamento predeterminati. Si tratta dell’applicazione di criteri, si
può dire, di “giustezza” tratti dalla dinamica sociale. Sono criteri che
scardinano dalle fondamenta il vecchio principio del positivismo
giuridico ita lex e dura lex sed lex e conferiscono un certo primato
(almeno nei casi di “manifesta irragionevolezza”) alle ragioni che
stanno nella vita del diritto rispetto a quelle che stanno nelle righe
delle leggi, dei codici, in generale nelle parole d’un legislatore che
credesse di poter trasformare in diritto ogni cosa ch’egli vuole,
semplicemente rivestendola della forma legislativa.
Nello Stato
costituzionale attuale non è più vero che la forza della legge segua
incondizionatamente alla forma di legge. C’è qualcosa d’altro, cioè
l’apertura dello sguardo dei giuristi a ciò che vive, cambia, talora
ribolle sotto lo strato delle leggi.
– Questo testo è parte
dell’intervento che l’autore tiene oggi pomeriggio in Senato.
L’occasione è la lectio del presidente della Corte costituzionale Paolo
Grossi, che presenta il suo libro “L’invenzione del diritto” (Laterza)