Repubblica 21.2.18
Il battaglione internazionale
Marco, Eddi e gli altri i foreign fighter italiani in guerra contro i turchi
di Fabio Tonacci
Dall’inferno di Afrin salgono le voci d’Italia.
La
cantilena veneta di Marco, 23 anni, nome di battaglia Gelhat Drakon: «I
turchi stanno spargendo sangue su sangue. Ho sentito le dichiarazioni
del loro ministro degli esteri, quello canta un sacco di balle. Se ne
esco vivo, sarò testimone di un genocidio». Il dialetto robusto da
borgata romana di un anarchico di 33 anni, nome di battaglia Delsoz: «Ci
attacca il secondo esercito della Nato, beh un po’ de paura ce sta...».
La gorgia toscana di un fiorentino trentenne, nome di battaglia
Teko?er: «Si mangia capra alla brace e si beve tè, mentre il sole si
spegne sui crinali delle colline di Afrin».
Ci sono tre italiani
in quel pezzo di terra curda al confine tra Siria e Turchia, dove Assad
sta mandando i suoi militari ed Erdogan gli risponde bombardando con
l’aviazione.
Quattro italiani, se si conta anche Maria Edgarda
Marcucci, detta Eddi, la 26enne attivista no Tav che qualche mese fa si è
arruolata nelle file dello Ypj, la brigata femminile curda. «Questa è
la battaglia di tutte le persone che credono nella libertà: un altro
sistema diverso dal capitalismo non solo è possibile, ma già esiste»,
dice a chi gli chiede perché. Eddi però non è ad Afrin, si trova da
qualche parte nella regione del Rojava con un kalashnikov in mano.
Mandano
messaggi a casa dal fronte, perché in ogni guerra così fanno i soldati.
Ieri, oggi e domani: file audio su WhatsApp trasmessi con la
connessione che cade ogni dieci secondi, lunghi post su Facebook
affidati agli amici, filmati su Youtube.
Delsoz, per esempio. È un
anarchico di Roma che si autodefinisce comunista libertario. Repubblica
lo aveva intervistato l’anno scorso, quando ancora in Siria il nemico
era l’Isis e lui stava per muovere verso Tabqa, tappa di avvicinamento
alla ex capitale nera Raqqa, insieme ai compagni del Battaglione
internazionale. Quello fondato dal senigalliese Karim Franceschi,
tornato in Italia.
Nell’unità se lo ricordano bene questo romano,
perché oltre ad essere un tipo verace era l’unico che, nel mezzo del
nulla, riusciva comunque a preparare una pseudo pasta all’amatriciana.
L’11
febbraio l’ultimo contatto con l’Italia. Ha inviato sei file audio a
Claudio Locatelli, il padovano reduce come lui dalla campagna per la
liberazione di Raqqa (sulla pagina Facebook “Il giornalista
combattente”, Locatelli racconta le loro storie). Delsoz era di buon
umore. «Siamo ad Afrin e proprio oggi arriva un convoglio di cinquecento
macchine. La gente scappa dalle guerre, invece qua la gente viene per
resistere e portare solidarietà. Il morale è altissimo. I turchi in
venti giorni non hanno ottenuto ancora niente». Ma la guerra è guerra,
pure se la fai da volontario a fianco di un popolo che non è il tuo.
«Muore un sacco di gente, abbiamo assistito a diversi funerali.
L’artiglieria turca si sta avvicinando. È scandaloso che giorni fa
l’Italia abbia ricevuto con tutti gli onori il capo di un governo
alleato coi jihadisti: il gruppo Hayat Tahrir Al-Sham è Al Qaeda eppure
sta combattendo a fianco della Turchia usando armi della Nato».
Marco
invece si è fatto vivo domenica. «Tutto ok, sono insieme a Delsoz. Non
ho notizie di Teko?er». Ha lasciato Rovigo e si è unito all’esercito
popolare curdo Ypg lo scorso autunno, appena finiti gli esami di Storia
all’Università a Bologna. Tre giorni fa era ancora arrabbiato per lo
scempio dell’antico tempio ittita di Ain Dara, danneggiato dalle bombe
turche. «La distruzione del patrimonio storico è un oltraggio
all’umanità intera. Quel tempio aveva tremila anni. Dimmi... qual è il
motivo per tale spregio?».
Arrabbiato. E sconcertato per i bambini mutilati che ha visto nella clinica di Afrin. «Questo è un genocidio su larga scala.
Paragonare il governo turco alla Germania nazista non è lontano dalla realtà».
Il
combattente fiorentino non si sa dove sia, ma ha scritto una mail a un
suo ex compagno di battaglione, che l’ha postata lunedì su Facebook.«I
motivi che mi hanno spinto nel nord della Siria sono molteplici, non
starò qui ad elencarli. Vi basti sapere che a mille parole ho sempre
preferito i fatti. Attendo da giorni nel centro di Afrin. Alcuni
abitanti ci ospitano e le nostre squadre si danno il cambio
continuamente.
Quando viene il mio turno non so bene cosa
aspettarmi, non è più la lotta porta a porta di Kobane, e il supporto
aereo non è più dalla nostra parte come a Raqqa: è uno scontro diverso,
contro un nemico molto forte. C’è un villaggio occupato dal nemico. FSA,
fondamentalmente islamisti salafiti e di Al Nusra che per riciclarsi
hanno cambiato nome, diversi combattenti Daesh che non hanno passato il
confine si sono uniti a loro. Questi sono gli alleati dei Turchi: i
tagliagole».
Corrispondenza di guerra. Parole di chi è andato lì
per liberare la terra dei curdi dall’Isis e ora si trova schiacciato tra
gli eserciti di due Stati.